Temendo il prefigurarsi nel dopoguerra di Corti d’assise del popolo dirette dal CLN con intenti vendicativi <1, nell’aprile 1945 una Commissione formata dai ministri Umberto Tupini, Mario Cevelotto, Manlio Brosio e Mauro Scoccimarro approntò un decreto legislativo che prevedeva l’istituzione "nei territori italiani, attualmente sottoposti all’occupazione nemica ed in quegli altri che verranno indicati con decreti luogotenenziali” di “Corti straordinarie di Assise”. Questi Tribunali dovevano "giudicare coloro che, posteriormente all'8 settembre 1943, abbiano commesso i delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato (…) con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore e di aiuto o di assistenza a esso prestata"; erano compresi anche i reati di competenza dei tribunali militari che non implicassero questioni di carattere tecnico militare di particolare complessità <2.
Erano considerati collaboratori da sottoporre al giudizio delle Corti i maggiori esponenti della Repubblica sociale italiana, giudici militari compresi e più precisamente "ministri o sottosegretari di stato del sedicente governo della Repubblica sociale italiana o cariche direttive di carattere nazionale nel Partito fascista repubblicano; presidenti o membri del Tribunale speciale per la difesa dello Stato o dei tribunali straordinari istituiti dal predetto governo ovvero vi abbiano sostenuto la pubblica accusa; capi di provincia o segretari o commissari federali od altre equivalenti; direttori di giornali politici; ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politico-militari".
Dopo la Liberazione, molti collaboratori furono denunciati: nella sola Lombardia nel mese di giugno erano già stati eseguiti oltre 21000 arresti, inoltre, tra giugno 1945 e aprile 1946, gli alleati segnalarono alle autorità italiane diverse centinaia di spie, traditori e fascisti da perseguire.
A differenza delle Corti di Assise ordinarie, formate da due magistrati e cinque giudici popolari estratti a sorte da elenchi di "cittadini di condotta, morale o politica, illibata", quelle straordinarie comprendevano un presidente, nominato dal presidente della Corte di Appello e quattro giudici popolari estratti a sorte in liste di nomi indicati dai Comitati di Liberazione Nazionale. Spettava a questi ultimi, infatti, il compito di redigere elenchi di almeno cento o, nei comuni più popolati, centocinquanta cittadini maggiorenni "di illibata condotta morale e politica" e di presentarli al presidente del tribunale del capoluogo che avrebbe dovuto individuare cinquanta giudici popolari - settantacinque per i comuni con popolazione superiore al milione di abitanti - fra i quali sarebbero stati estratti i quattro giudici previsti. L’ufficio del Pubblico ministero, designato dal Procuratore generale presso la Corte d'Appello, era formato da avvocati di "illibata condotta morale, di ineccepibili precedenti politici e di provata capacità", scelti ancora una volta tra quelli indicati dai Comitati di Liberazione Nazionale.
Le Corti procedettero per direttissima, dimezzando i termini stabiliti dal Codice di procedura penale per l’istruttoria e il giudizio. L’indagine era avviata dal Pubblico ministero in base a segnalazione e denunce di cittadini, dei Comitati di liberazione e altri organismi, e delle autorità inquirenti.
Nel caso fossero presenti gli elementi necessari all’inizio dell’azione penale e le accuse fossero fondate e sufficientemente provate, era istruito il processo; se al contrario gli elementi accusatori si rivelavano infondati, il PM trasmetteva gli atti all'archivio, informando l'autorità militare, in caso di militari, o l'autorità amministrativa, per gli eventuali provvedimenti.
Molti procedimenti non superarono la fase istruttoria, altri proseguirono con il rinvio a giudizio e con l’avvio della fase processuale vera e propria, fino alla condanna o all’assoluzione dell’accusato di collaborazionismo.
Per quanto riguarda le sanzioni, fu applicato il Codice penale militare che prevedeva, per questa tipologia di reati, punizioni severe, dalla pena di morte, alla reclusione per un periodo non inferiore a quindici anni, o tra i dieci e i vent’anni, secondo il reato. Le sentenze dovevano essere depositate entro cinque giorni. Non era previsto un secondo grado di giudizio in appello ma, entro soli tre giorni dal deposito, era possibile presentare ricorso, o in caso di pene capitali, chiedere la grazia alla Corte di Cassazione che, in caso di annullamento della sentenza, stabiliva a quale Corte straordinaria di Assise dovesse essere rinviato il giudizio.
Per le sentenze che infliggevano la pena capitale, la Cassazione era chiamata a esprimersi entro dieci giorni dal ricevimento degli atti.
Per far fronte alla grande quantità di ricorsi proveniente dalle regioni settentrionali, fu istituita una Sezione speciale della Corte di Cassazione a Milano, inaugurata il 13 giugno 1945, che operò fino a dicembre 1945.
Questi Tribunali avevano carattere eccezionale e provvisorio, infatti era previsto che, decorsi sei mesi dall'entrata in vigore del decreto istitutivo, le competenze delle Corti straordinarie di assise e della Sezione speciale della Corte di Cassazione cessassero, e i delitti fossero devoluti secondo le ordinarie norme di competenza.
Il 26 aprile 1945 le misure adottate in precedenza nei confronti di fascisti ritenuti pericolosi per la democrazia furono estese a tutto il territorio liberato. Erano previste la sospensione temporanea dei diritti elettorali attivi e passivi o l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un periodo massimo di dieci anni, nei confronti di chi "per motivi fascisti o avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo, abbia compiuto fatti di particolare gravità che, pur non integrando gli estremi di reato, siano contrari a norme di rettitudine o di probità politica" e per chi aveva ricoperto cariche direttive nel partito fascista. L’applicazione delle sanzioni spettava a Commissioni provinciali che agivano d’ufficio o secondo le denunce dell'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, di organi di pubblica sicurezza o anche su segnalazione dei Comitati di Liberazione Nazionale. Inoltre, le persone che in passato avevano tenuto "una condotta inspirata ai metodi e al malcostume del fascismo" o che continuavano ad adottare tali comportamenti, pericolosi per l'esercizio delle libertà democratiche, potevano essere inviate in colonie agricole, in case di lavoro, al confino di polizia o in campi di internamento.
Un altro decreto dello stesso giorno, il 26 aprile 1945, intitolato Punizione dell’attività fascista nell’Italia liberata, vietava esplicitamente la ricostituzione del partito fascista e proibiva lo svolgimento di attività che potessero ostacolare "l'esercizio dei diritti civili o politici dei cittadini" e provocare o alimentare la guerra civile. Severe punizioni erano previste anche per scoraggiare forme di assistenza o rifugio ai fascisti, che avrebbero potuto ostacolare il corso della giustizia.
L'attività frenetica delle Corti di assise straordinarie, competenti da agosto 1945 a giudicare anche reati commessi da soldati, fino a quel momento spettanti ai tribunali militari, continuò in seguito alla proroga di sei mesi. Nell’ottobre 1945 le Corti di assise straordinarie furono sostituite da Sezioni speciali delle Corti d’Assise ordinarie e assunsero anche le competenze dell’Alta corte di giustizia, soppressa, delle Corti di assise ordinarie e dei Tribunali militari, ai quali, tuttavia, restava obbligatorio inviare i processi in caso ricorressero gli estremi. Le Sezioni speciali, formate ancora da un Presidente e quattro giudici popolari da scegliere tra duecento nomi per i comuni più popolati, restavano in ogni caso tribunali provvisori, destinati a rimanere in attività per un anno dall’entrata in vigore del decreto; trascorso tale termine le competenze sarebbero ritornate ai tribunali ordinari. La Sezione speciale della Cassazione avrebbe, invece, cessato l’attività dopo trenta giorni e i procedimenti sarebbero stati rimessi alle Sezioni ordinarie della Corte Suprema di Cassazione in Roma. Tra le principali modifiche introdotte, si segnala l’allungamento dei termini previsti per il deposito delle sentenze, che passò da cinque a dieci giorni e per il ricorso in Cassazione, da tre a dieci giorni, mentre per l’impugnazione di sentenze capitali la Corte di Cassazione avrebbe potuto pronunciarsi entro trenta giorni.
Il compito di dirigere, coordinare e vigilare sull'applicazione delle sanzioni a carico di fascisti ritenuti “politicamente pericolosi” (come gli appartenenti alle Brigate Nere), per i quali le Commissioni provinciali potevano disporre l'immediato arresto, d’ufficio o in base alle denunce del Pubblico ministero, del Procuratore del Regno o degli organi di polizia, fu assegnato agli Uffici dei pubblici ministeri.
Con il passare del tempo furono introdotte nuove modifiche. La composizione delle Corti fu equiparata a quella delle Corti di Assise ordinarie, con due giudici togati e cinque popolari; le liste di giudici popolari, ora formate da un numero di cittadini residenti nella circoscrizione provinciale compreso tra 150 e 250, erano redatte da una commissione formata dal Presidente del Tribunale, da un rappresentante del Comitato di Liberazione Nazionale e dal sindaco del capoluogo, chiamati a selezionare cittadini "di ineccepibile moralità, che non abbiano mai appartenuto al partito fascista e comunque non abbiano mai svolto attività fascista, e che siano di età maggiore dei venticinque anni". Inoltre la convocazione di Sezioni delle Corte di assise, la formazione dei ruoli delle cause, l'estrazione dei giudici popolari e le notificazioni ai giudici estratti a sorte non spettarono più al presidente della Corte di appello ma a quello delle stesse Sezioni. Quanto all’Ufficio di Pubblico Ministero, l'avvocato che dopo avere accettato la designazione si fosse rifiutato di assumere l'incarico, era ora soggetto alle sanzioni previste dalla legge professionale ma non più a quelle del codice penale.
La riforma, nel maggio 1946, delle Corti di Assise ordinarie non incise al momento sull’attività delle Sezioni straordinarie.
Diverso è il discorso legato alle conseguenze di un altro evento verificatosi in quell’anno che orientò invece significativamente l’operato delle Corti incaricate di giudicare i collaborazionisti: l’entrata in vigore, il 22 giugno, del decreto detto “amnistia Togliatti”, proposto dal ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi e segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti.
Il provvedimento, molto contestato, prevedeva un’amnistia generale per i reati puniti con una pena inferiore a cinque anni di reclusione o con una sanzione pecuniaria. L’amnistia si applicava anche ai reati politici che comportassero sanzioni superiori a cinque anni, qualora commessi "nelle singole parti del territorio nazionale dopo l'inizio in esse dell'amministrazione del Governo militare alleato", oppure nel "territorio rimasto sotto l'amministrazione del Governo legittimo italiano, per i delitti suddetti commessi dopo l'8 settembre 1943". Erano inoltre previsti sconti di pena per delitti fascisti (quali l’organizzazione di squadre fasciste, la partecipazione alla Marcia su Roma e il colpo di Stato del 1925) e per i reati di collaborazionismo.
Nella circolare emanata dallo stesso Togliatti per spiegare la natura del provvedimento, il ministro, quasi a giustificare la decisione di concedere l’amnistia, affermava: "La Repubblica celebra il suo avvento emanando fra i suoi primi atti un provvedimento generale di clemenza", specificando che tale pratica rientrava nella prassi costituzionale e politica italiana adottata in periodi particolari della nostra storia. In quel delicato momento in cui avveniva il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, un atto di clemenza nei confronti di reati politici rispondeva alla "necessità di un rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale" e si configurava "in pari tempo atto di forza e di fiducia nei destini del Paese".
Togliatti non poteva ignorare che in passato molti avevano tradito la Patria mettendosi al servizio dei Tedeschi, abbandonandosi ad "atti abominevoli di persecuzione e di violenza", ma tali responsabilità personali potevano, a suo avviso, essere attenuate considerando le circostanze particolari in cui i fatti erano avvenuti. Durante gli anni della dittatura, il governo fascista aveva imposto, con la forza e con misure intimidatorie, rigore e disciplina, pertanto occorreva dimostrare clemenza verso gli autori di molti reati politici già prescritti o meno gravi, a patto che i responsabili non ricoprissero incarichi rilevanti. Togliatti era perfettamente consapevole della possibile reazione popolare, che in effetti ci fu, e precisava: "Vi è infatti una esigenza non solo giuridica e politica, ma morale, di giustizia, per cui coloro che hanno commesso delitti, la cui traccia è lungi dall'essere stata cancellata, contro il Paese tradito e portato alla rovina, contro le libertà democratiche, contro i loro concittadini, o contro i più elementari doveri della umanità, devono continuare a essere puniti con tutto il rigore della legge. Un disconoscimento di questa esigenza, anziché contribuire alla pacificazione, contribuirebbe a rinfocolare odii e rancori, con conseguenze certamente per tutti incresciose".
D’altro canto "l’amnistia si applica non solo ai fascisti, ma anche ai comunisti, che potrebbero essere chiamati a rispondere di certe esecuzioni sommarie effettuate all’indomani della fine della guerra, troppo sbrigativamente e talvolta per semplice vendetta privata o rancore personale". Infine ne avrebbero beneficiato anche i partigiani eventualmente responsabili di fatti illeciti dopo il passaggio dei territori all’amministrazione Alleata.
Concretamente il provvedimento teneva conto di alcune circostanze. Se i delitti erano stati compiuti da persone "rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a scopo di lucro" non potevano essere amnistiati, mentre si dimostrava clemenza nei confronti di chi, non aveva commesso atti gravi. Erano anche esclusi i reati militari, in danno delle Forze alleate o giudicati da tribunali alleati e i reati finanziari.
Già nei primi giorni di applicazione del decreto, al contrario di quanto aveva dichiarato Togliatti, si assistette a "un’ondata di scarcerazioni eccellenti".
Secondo lo storico Mimmo Franzinelli, i magistrati, in preda a dubbi interpretativi, in poco più di un mese amnistiarono 7106 imputati.
[NOTE]
1 Mentre i gerarchi e i membri del governo fascista furono sottoposti al giudizio dell’Alta corte di giustizia e gli atti di violenza fascista compiuti dal 1922 all’armistizio erano giudicati da Corti di assise, Tribunali e Preture, i "delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma d’intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza a esso prestata", attuati dopo l’8 settembre 1943, erano giudicati dai tribunali militari (se eseguiti da militari), o da quelli ordinari, in base al Codice penale militare di guerra. In attesa di “speciali tribunali” - le Corti distrettuali - previsti dall’abolito decreto del 26 maggio 1944 per punire i collaborazionisti, "improvvisati tribunali partigiani, istituiti dai CNL provinciali, condannarono alla fucilazione gerarchi e gregari senza curarsi di individuare le fattispecie di reato”.
2 Da Salerno il governo Badoglio aveva già deciso l’istituzione di particolari Tribunali "per la punizione dei delitti del fascismo", chiamati Corti distrettuali, con sede nei capoluoghi, formati da un magistrato e sette giudici popolari. Il decreto istitutivo fu, però, abrogato e il governo presieduto da Ivanoe Bonomi, ristabilitosi a Roma dopo la Liberazione della città, predispose una serie di Sanzioni contro il fascismo, pubblicate sulla Gazzetta ufficiale il 29 luglio 1944, finalizzate ad epurare l’amministrazione (attraverso Commissioni di epurazione) e ad avocare allo Stato i profitti del regime e i beni del cessato Partito nazionale fascista. L’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, organo nominato dal Consiglio dei Ministri e assistito da alti Commissari, fu istituito per svolgere le indagini e avviare i procedimenti giudiziari. In primo luogo dovevano essere puniti severamente, con l'ergastolo o, nei casi di maggiore responsabilità, con la morte, i membri del governo fascista e i gerarchi del regime, colpevoli "di aver annullate le garanzie costituzionali, distinte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe". Tale compito era assegnato all’Alta corte di giustizia (formata da un presidente e otto membri designati dal Consiglio dei Ministri), per la quale l’Alto commissariato svolgeva funzioni di pubblico ministero. I maggiori responsabili dell’operato del Regime fin dall’origine - gli organizzatori di squadre fasciste, autori di violenze e devastazioni, gli ideatori e partecipanti alla marcia su Roma, gli autori del “colpo di Stato” che portò Mussolini al governo il 3 gennaio 1925, e tutti quelli che contribuirono a mantenere in vigore il regime fascista - dovevano essere giudicati in base al vecchio Codice penale Zanardelli, entrato in vigore l’1º gennaio 1890, e non secondo il Codice Rocco, che lo aveva sostituito dal primo luglio 1931. Le sanzioni riguardavano anche chi, pur non avendo compiuto veri e propri reati, si era avvalso della situazione politica creata dal fascismo per adottare comportamenti contrari a "norme di rettitudine o di probità politica"; per questi casi era prevista l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o la privazione dei diritti politici fino a dieci anni. Il decreto era clemente verso i condannati, anche alle pene più gravi (pena di morte ed ergastolo), che si fossero dimostrati ostili al fascismo prima dell'inizio della guerra, o avessero partecipato attivamente alla lotta contro i nazisti. In questi casi le pene potevano essere notevolmente ridotte ed era prevista la non punibilità di chi si fosse "particolarmente distinto con atti di valore nella lotta contro i tedeschi". L’applicazione delle sanzioni contro il fascismo, previste dal decreto del 27 luglio, spettava a Commissioni provinciali presiedute da un magistrato e composte da due altri membri scelti dal primo presidente della Corte di appello tra i giudici popolari. L’Alta corte di giustizia e le Commissioni provinciali potevano infliggere il confino nei casi in cui fosse accertata la volontà di sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici e sociali dello Stato o di contrastare o ostacolare l’azione dei poteri dello Stato.
(a cura di) Carmela Santoro, Inventario. Corte di Assise Straordinaria di Milano poi Sezione Speciale della Corte di Assise di Milano, Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Archivio di Stato di Milano, PU 25 (2021)
Erano considerati collaboratori da sottoporre al giudizio delle Corti i maggiori esponenti della Repubblica sociale italiana, giudici militari compresi e più precisamente "ministri o sottosegretari di stato del sedicente governo della Repubblica sociale italiana o cariche direttive di carattere nazionale nel Partito fascista repubblicano; presidenti o membri del Tribunale speciale per la difesa dello Stato o dei tribunali straordinari istituiti dal predetto governo ovvero vi abbiano sostenuto la pubblica accusa; capi di provincia o segretari o commissari federali od altre equivalenti; direttori di giornali politici; ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politico-militari".
Dopo la Liberazione, molti collaboratori furono denunciati: nella sola Lombardia nel mese di giugno erano già stati eseguiti oltre 21000 arresti, inoltre, tra giugno 1945 e aprile 1946, gli alleati segnalarono alle autorità italiane diverse centinaia di spie, traditori e fascisti da perseguire.
A differenza delle Corti di Assise ordinarie, formate da due magistrati e cinque giudici popolari estratti a sorte da elenchi di "cittadini di condotta, morale o politica, illibata", quelle straordinarie comprendevano un presidente, nominato dal presidente della Corte di Appello e quattro giudici popolari estratti a sorte in liste di nomi indicati dai Comitati di Liberazione Nazionale. Spettava a questi ultimi, infatti, il compito di redigere elenchi di almeno cento o, nei comuni più popolati, centocinquanta cittadini maggiorenni "di illibata condotta morale e politica" e di presentarli al presidente del tribunale del capoluogo che avrebbe dovuto individuare cinquanta giudici popolari - settantacinque per i comuni con popolazione superiore al milione di abitanti - fra i quali sarebbero stati estratti i quattro giudici previsti. L’ufficio del Pubblico ministero, designato dal Procuratore generale presso la Corte d'Appello, era formato da avvocati di "illibata condotta morale, di ineccepibili precedenti politici e di provata capacità", scelti ancora una volta tra quelli indicati dai Comitati di Liberazione Nazionale.
Le Corti procedettero per direttissima, dimezzando i termini stabiliti dal Codice di procedura penale per l’istruttoria e il giudizio. L’indagine era avviata dal Pubblico ministero in base a segnalazione e denunce di cittadini, dei Comitati di liberazione e altri organismi, e delle autorità inquirenti.
Nel caso fossero presenti gli elementi necessari all’inizio dell’azione penale e le accuse fossero fondate e sufficientemente provate, era istruito il processo; se al contrario gli elementi accusatori si rivelavano infondati, il PM trasmetteva gli atti all'archivio, informando l'autorità militare, in caso di militari, o l'autorità amministrativa, per gli eventuali provvedimenti.
Molti procedimenti non superarono la fase istruttoria, altri proseguirono con il rinvio a giudizio e con l’avvio della fase processuale vera e propria, fino alla condanna o all’assoluzione dell’accusato di collaborazionismo.
Per quanto riguarda le sanzioni, fu applicato il Codice penale militare che prevedeva, per questa tipologia di reati, punizioni severe, dalla pena di morte, alla reclusione per un periodo non inferiore a quindici anni, o tra i dieci e i vent’anni, secondo il reato. Le sentenze dovevano essere depositate entro cinque giorni. Non era previsto un secondo grado di giudizio in appello ma, entro soli tre giorni dal deposito, era possibile presentare ricorso, o in caso di pene capitali, chiedere la grazia alla Corte di Cassazione che, in caso di annullamento della sentenza, stabiliva a quale Corte straordinaria di Assise dovesse essere rinviato il giudizio.
Per le sentenze che infliggevano la pena capitale, la Cassazione era chiamata a esprimersi entro dieci giorni dal ricevimento degli atti.
Per far fronte alla grande quantità di ricorsi proveniente dalle regioni settentrionali, fu istituita una Sezione speciale della Corte di Cassazione a Milano, inaugurata il 13 giugno 1945, che operò fino a dicembre 1945.
Questi Tribunali avevano carattere eccezionale e provvisorio, infatti era previsto che, decorsi sei mesi dall'entrata in vigore del decreto istitutivo, le competenze delle Corti straordinarie di assise e della Sezione speciale della Corte di Cassazione cessassero, e i delitti fossero devoluti secondo le ordinarie norme di competenza.
Il 26 aprile 1945 le misure adottate in precedenza nei confronti di fascisti ritenuti pericolosi per la democrazia furono estese a tutto il territorio liberato. Erano previste la sospensione temporanea dei diritti elettorali attivi e passivi o l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un periodo massimo di dieci anni, nei confronti di chi "per motivi fascisti o avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo, abbia compiuto fatti di particolare gravità che, pur non integrando gli estremi di reato, siano contrari a norme di rettitudine o di probità politica" e per chi aveva ricoperto cariche direttive nel partito fascista. L’applicazione delle sanzioni spettava a Commissioni provinciali che agivano d’ufficio o secondo le denunce dell'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, di organi di pubblica sicurezza o anche su segnalazione dei Comitati di Liberazione Nazionale. Inoltre, le persone che in passato avevano tenuto "una condotta inspirata ai metodi e al malcostume del fascismo" o che continuavano ad adottare tali comportamenti, pericolosi per l'esercizio delle libertà democratiche, potevano essere inviate in colonie agricole, in case di lavoro, al confino di polizia o in campi di internamento.
Un altro decreto dello stesso giorno, il 26 aprile 1945, intitolato Punizione dell’attività fascista nell’Italia liberata, vietava esplicitamente la ricostituzione del partito fascista e proibiva lo svolgimento di attività che potessero ostacolare "l'esercizio dei diritti civili o politici dei cittadini" e provocare o alimentare la guerra civile. Severe punizioni erano previste anche per scoraggiare forme di assistenza o rifugio ai fascisti, che avrebbero potuto ostacolare il corso della giustizia.
L'attività frenetica delle Corti di assise straordinarie, competenti da agosto 1945 a giudicare anche reati commessi da soldati, fino a quel momento spettanti ai tribunali militari, continuò in seguito alla proroga di sei mesi. Nell’ottobre 1945 le Corti di assise straordinarie furono sostituite da Sezioni speciali delle Corti d’Assise ordinarie e assunsero anche le competenze dell’Alta corte di giustizia, soppressa, delle Corti di assise ordinarie e dei Tribunali militari, ai quali, tuttavia, restava obbligatorio inviare i processi in caso ricorressero gli estremi. Le Sezioni speciali, formate ancora da un Presidente e quattro giudici popolari da scegliere tra duecento nomi per i comuni più popolati, restavano in ogni caso tribunali provvisori, destinati a rimanere in attività per un anno dall’entrata in vigore del decreto; trascorso tale termine le competenze sarebbero ritornate ai tribunali ordinari. La Sezione speciale della Cassazione avrebbe, invece, cessato l’attività dopo trenta giorni e i procedimenti sarebbero stati rimessi alle Sezioni ordinarie della Corte Suprema di Cassazione in Roma. Tra le principali modifiche introdotte, si segnala l’allungamento dei termini previsti per il deposito delle sentenze, che passò da cinque a dieci giorni e per il ricorso in Cassazione, da tre a dieci giorni, mentre per l’impugnazione di sentenze capitali la Corte di Cassazione avrebbe potuto pronunciarsi entro trenta giorni.
Il compito di dirigere, coordinare e vigilare sull'applicazione delle sanzioni a carico di fascisti ritenuti “politicamente pericolosi” (come gli appartenenti alle Brigate Nere), per i quali le Commissioni provinciali potevano disporre l'immediato arresto, d’ufficio o in base alle denunce del Pubblico ministero, del Procuratore del Regno o degli organi di polizia, fu assegnato agli Uffici dei pubblici ministeri.
Con il passare del tempo furono introdotte nuove modifiche. La composizione delle Corti fu equiparata a quella delle Corti di Assise ordinarie, con due giudici togati e cinque popolari; le liste di giudici popolari, ora formate da un numero di cittadini residenti nella circoscrizione provinciale compreso tra 150 e 250, erano redatte da una commissione formata dal Presidente del Tribunale, da un rappresentante del Comitato di Liberazione Nazionale e dal sindaco del capoluogo, chiamati a selezionare cittadini "di ineccepibile moralità, che non abbiano mai appartenuto al partito fascista e comunque non abbiano mai svolto attività fascista, e che siano di età maggiore dei venticinque anni". Inoltre la convocazione di Sezioni delle Corte di assise, la formazione dei ruoli delle cause, l'estrazione dei giudici popolari e le notificazioni ai giudici estratti a sorte non spettarono più al presidente della Corte di appello ma a quello delle stesse Sezioni. Quanto all’Ufficio di Pubblico Ministero, l'avvocato che dopo avere accettato la designazione si fosse rifiutato di assumere l'incarico, era ora soggetto alle sanzioni previste dalla legge professionale ma non più a quelle del codice penale.
La riforma, nel maggio 1946, delle Corti di Assise ordinarie non incise al momento sull’attività delle Sezioni straordinarie.
Diverso è il discorso legato alle conseguenze di un altro evento verificatosi in quell’anno che orientò invece significativamente l’operato delle Corti incaricate di giudicare i collaborazionisti: l’entrata in vigore, il 22 giugno, del decreto detto “amnistia Togliatti”, proposto dal ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi e segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti.
Il provvedimento, molto contestato, prevedeva un’amnistia generale per i reati puniti con una pena inferiore a cinque anni di reclusione o con una sanzione pecuniaria. L’amnistia si applicava anche ai reati politici che comportassero sanzioni superiori a cinque anni, qualora commessi "nelle singole parti del territorio nazionale dopo l'inizio in esse dell'amministrazione del Governo militare alleato", oppure nel "territorio rimasto sotto l'amministrazione del Governo legittimo italiano, per i delitti suddetti commessi dopo l'8 settembre 1943". Erano inoltre previsti sconti di pena per delitti fascisti (quali l’organizzazione di squadre fasciste, la partecipazione alla Marcia su Roma e il colpo di Stato del 1925) e per i reati di collaborazionismo.
Nella circolare emanata dallo stesso Togliatti per spiegare la natura del provvedimento, il ministro, quasi a giustificare la decisione di concedere l’amnistia, affermava: "La Repubblica celebra il suo avvento emanando fra i suoi primi atti un provvedimento generale di clemenza", specificando che tale pratica rientrava nella prassi costituzionale e politica italiana adottata in periodi particolari della nostra storia. In quel delicato momento in cui avveniva il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, un atto di clemenza nei confronti di reati politici rispondeva alla "necessità di un rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale" e si configurava "in pari tempo atto di forza e di fiducia nei destini del Paese".
Togliatti non poteva ignorare che in passato molti avevano tradito la Patria mettendosi al servizio dei Tedeschi, abbandonandosi ad "atti abominevoli di persecuzione e di violenza", ma tali responsabilità personali potevano, a suo avviso, essere attenuate considerando le circostanze particolari in cui i fatti erano avvenuti. Durante gli anni della dittatura, il governo fascista aveva imposto, con la forza e con misure intimidatorie, rigore e disciplina, pertanto occorreva dimostrare clemenza verso gli autori di molti reati politici già prescritti o meno gravi, a patto che i responsabili non ricoprissero incarichi rilevanti. Togliatti era perfettamente consapevole della possibile reazione popolare, che in effetti ci fu, e precisava: "Vi è infatti una esigenza non solo giuridica e politica, ma morale, di giustizia, per cui coloro che hanno commesso delitti, la cui traccia è lungi dall'essere stata cancellata, contro il Paese tradito e portato alla rovina, contro le libertà democratiche, contro i loro concittadini, o contro i più elementari doveri della umanità, devono continuare a essere puniti con tutto il rigore della legge. Un disconoscimento di questa esigenza, anziché contribuire alla pacificazione, contribuirebbe a rinfocolare odii e rancori, con conseguenze certamente per tutti incresciose".
D’altro canto "l’amnistia si applica non solo ai fascisti, ma anche ai comunisti, che potrebbero essere chiamati a rispondere di certe esecuzioni sommarie effettuate all’indomani della fine della guerra, troppo sbrigativamente e talvolta per semplice vendetta privata o rancore personale". Infine ne avrebbero beneficiato anche i partigiani eventualmente responsabili di fatti illeciti dopo il passaggio dei territori all’amministrazione Alleata.
Concretamente il provvedimento teneva conto di alcune circostanze. Se i delitti erano stati compiuti da persone "rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a scopo di lucro" non potevano essere amnistiati, mentre si dimostrava clemenza nei confronti di chi, non aveva commesso atti gravi. Erano anche esclusi i reati militari, in danno delle Forze alleate o giudicati da tribunali alleati e i reati finanziari.
Già nei primi giorni di applicazione del decreto, al contrario di quanto aveva dichiarato Togliatti, si assistette a "un’ondata di scarcerazioni eccellenti".
Secondo lo storico Mimmo Franzinelli, i magistrati, in preda a dubbi interpretativi, in poco più di un mese amnistiarono 7106 imputati.
[NOTE]
1 Mentre i gerarchi e i membri del governo fascista furono sottoposti al giudizio dell’Alta corte di giustizia e gli atti di violenza fascista compiuti dal 1922 all’armistizio erano giudicati da Corti di assise, Tribunali e Preture, i "delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma d’intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza a esso prestata", attuati dopo l’8 settembre 1943, erano giudicati dai tribunali militari (se eseguiti da militari), o da quelli ordinari, in base al Codice penale militare di guerra. In attesa di “speciali tribunali” - le Corti distrettuali - previsti dall’abolito decreto del 26 maggio 1944 per punire i collaborazionisti, "improvvisati tribunali partigiani, istituiti dai CNL provinciali, condannarono alla fucilazione gerarchi e gregari senza curarsi di individuare le fattispecie di reato”.
2 Da Salerno il governo Badoglio aveva già deciso l’istituzione di particolari Tribunali "per la punizione dei delitti del fascismo", chiamati Corti distrettuali, con sede nei capoluoghi, formati da un magistrato e sette giudici popolari. Il decreto istitutivo fu, però, abrogato e il governo presieduto da Ivanoe Bonomi, ristabilitosi a Roma dopo la Liberazione della città, predispose una serie di Sanzioni contro il fascismo, pubblicate sulla Gazzetta ufficiale il 29 luglio 1944, finalizzate ad epurare l’amministrazione (attraverso Commissioni di epurazione) e ad avocare allo Stato i profitti del regime e i beni del cessato Partito nazionale fascista. L’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, organo nominato dal Consiglio dei Ministri e assistito da alti Commissari, fu istituito per svolgere le indagini e avviare i procedimenti giudiziari. In primo luogo dovevano essere puniti severamente, con l'ergastolo o, nei casi di maggiore responsabilità, con la morte, i membri del governo fascista e i gerarchi del regime, colpevoli "di aver annullate le garanzie costituzionali, distinte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe". Tale compito era assegnato all’Alta corte di giustizia (formata da un presidente e otto membri designati dal Consiglio dei Ministri), per la quale l’Alto commissariato svolgeva funzioni di pubblico ministero. I maggiori responsabili dell’operato del Regime fin dall’origine - gli organizzatori di squadre fasciste, autori di violenze e devastazioni, gli ideatori e partecipanti alla marcia su Roma, gli autori del “colpo di Stato” che portò Mussolini al governo il 3 gennaio 1925, e tutti quelli che contribuirono a mantenere in vigore il regime fascista - dovevano essere giudicati in base al vecchio Codice penale Zanardelli, entrato in vigore l’1º gennaio 1890, e non secondo il Codice Rocco, che lo aveva sostituito dal primo luglio 1931. Le sanzioni riguardavano anche chi, pur non avendo compiuto veri e propri reati, si era avvalso della situazione politica creata dal fascismo per adottare comportamenti contrari a "norme di rettitudine o di probità politica"; per questi casi era prevista l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o la privazione dei diritti politici fino a dieci anni. Il decreto era clemente verso i condannati, anche alle pene più gravi (pena di morte ed ergastolo), che si fossero dimostrati ostili al fascismo prima dell'inizio della guerra, o avessero partecipato attivamente alla lotta contro i nazisti. In questi casi le pene potevano essere notevolmente ridotte ed era prevista la non punibilità di chi si fosse "particolarmente distinto con atti di valore nella lotta contro i tedeschi". L’applicazione delle sanzioni contro il fascismo, previste dal decreto del 27 luglio, spettava a Commissioni provinciali presiedute da un magistrato e composte da due altri membri scelti dal primo presidente della Corte di appello tra i giudici popolari. L’Alta corte di giustizia e le Commissioni provinciali potevano infliggere il confino nei casi in cui fosse accertata la volontà di sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici e sociali dello Stato o di contrastare o ostacolare l’azione dei poteri dello Stato.
(a cura di) Carmela Santoro, Inventario. Corte di Assise Straordinaria di Milano poi Sezione Speciale della Corte di Assise di Milano, Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Archivio di Stato di Milano, PU 25 (2021)
L'epurazione nel 1946 mostrava tutta la sua portata che seppur insufficiente, portò a severissime condanne per molti esponenti fascisti e collaboratori nazi-fascisti. Nel 1945, liquidato il fascismo, le nuove forze politiche incominciarono a contendersi la leadership. Incominciò la campagna elettorale, che avrebbe portato gli italiani alle urne il 2 giugno 1946, dopo vent'anni di dittatura fascista.
I fascisti imprigionati e latitanti divennero ben presto molto importanti in chiave elettorale,potendo arrivare a fasce di elettori irraggiungibili per i partiti al governo. Gli ex fascisti non tardarono a capire di aver un asso nella manica con cui poter battere la propria situazione giuridica e responsabilità con contropartite elettorali favorevoli ai partiti, gli ex fascisti, insomma, miravano ad un atto di amnistia generale. L'allora ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, cavalcò l'ipotesi avanzata dal nuovo Re Umberto di Savoia che richiese un atto di clemenza generale. Il ministro Togliatti mirava a che si emanasse un atto di amnistia generale prendersi tutto il merito. Estromesso dalle elezioni del 2 giugno il piano monarchico, Togliatti ebbe l'occasione di far approvare il 22 giugno 1946 l'amnistia che porta il suo nome, solo ed esclusivamente secondo quelle che erano i suoi intenti politici. Almeno inizialmente l'atto doveva avere una portata generale ma per reati non particolarmente gravi ed efferati. Sul piano giuridico l'Amnistia Togliatti dimostrò subito tutti i suoi limiti, connaturata da un'intrinseca ambiguità funzionale, l'amnistia fu capace nella sua fase attuativa di interpretazioni estensive da parte dei giudici che seppero quanto mai prima, trovare una complicità, forse anche involontaria, con i voleri del ministro guardasigilli Palmiro Togliatti. A fronte dell'applicazione estensiva dell'Amnistia nei confronti dei criminali fascisti, la magistratura proseguì ne perseguire con rigore i reati perpetrati dai partigiani. Disparità di trattamento. Due pesi due misure. Questo comportamento finì per esacerbare uno stato di tensione sociale di per se molto alto in quel periodo. Disparità di trattamento spesso venivano accompagnate da trattamenti di favori giudiziari a ex fascisti che si vedevano beneficiare del provvedimento d'amnistia anche non potendovi rientrare, ma che con motivazione al limite della ignominia per i crimini commessi, vanificavano il buon lavoro che in fase di epurazione le corti minori fecero. La magistratura si adoperò in seguito per accrescere la portata estensiva ed ambigua dell'Amnistia Togliatti, accrescendone ancor di più i limiti giuridici. L'Amnistia Togliatti fu un vero e proprio colpo di spugna verso i crimini fascisti.
[...] Alla fine di luglio, beneficiarono dell'atto di clemenza, circa 220.000 persone, in stragrande maggioranza per reati di poco conto e infrazioni che tutto sommato non erano di gravi entità.
Ma non fu, il così grande numero di scarcerazioni, a destare malcontento, ma il rilascio di alcuni pericolosissimi personaggi, conosciuti a livello locale, quasi tutti appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, e/o semplici (ma pericolosi) fiancheggiatori dei nazi-fascisti.
La magistratura, suo malgrado si ritrovò anch'essa nella morsa delle critiche dell'opinione pubblica, sulla base di proscioglimenti a dir poco “scandalosi”, desiderosi (soprattutto i magistrati delle corti superiori) più di voltar pagina che sospinti da un desiderio di chiarezza.
L'amnistia, a mio avviso, invece di unire differenziò ancor di più le parti in lotta, sia per quanto riguarda l'intero periodo ventennale della dittatura che nel periodo 1943-1945, quando accrebbe lo scontro tra fascisti ed antifascisti.
Protagonista tipo, del nutrito gruppo dei collaborazionisti amnistiati, è (per fare qualche esempio) il sergente della gendarmeria germanica a Belluno, Arduino Pompanin, condannato nel settembre 1945 a vent'anni dalla Corte d'Assise Speciale, con doppie attenuanti generiche, per aver partecipato attivamente alle persecuzioni dei partigiani con violenza, minacce, percosse ai ricercati e ai loro familiari, e in più si rese responsabile, in un occasione, di aver sparato ripetutamente contro i partigiani [disarmati] che si rifugiarono in un fienile.
La Cassazione accertò le sue responsabilità, ma ne accolse il ricorso poiché, per quanto numerosi e gravi, furono, i delitti commessi dal Pompanin, in danno alla popolazione e contro lo Stato, tuttavia non si riscontrarono, nei reati da costui commessi, alcuna delle ipotesi ostativa all'applicazione dell'amnistia, ora in questo caso a mio avviso la Cassazione non interpretò in modo estensivo il dispositivo dell'Amnistia Togliatti, ma semmai era la stessa amnistia Togliatti a prevedere casi del genere, che in sostanza equiparavano l'operato degli squadristi fascisti all'obbligo dell'esecuzioni di ordini (legittimi) di tipo militari, riconoscendo di fatto provvedimenti della Repubblica Sociale Italiana.
Gli imputati disponevano della facoltà di rinunzia dei benefici del decreto di amnistia e chiedere la prosecuzione del processo per accertare la propria innocenza.
I pochi gerarchi che fecero uso della facoltà di rinunzia all'amnistia, furono tutti assolti con formula piena e alla soddisfazione del risultato raggiunto si accompagnò, spesso, l'indignazione per il tempo trascorso in carcere.
Diversi ex gerarchi decisero pertanto di espatriare, per rifarsi una vita e mettere a frutto, le ingenti, ricchezze accumulate durante il ventennio fascista.
Antonio Marchionne, I provvedimenti clemenziali al mutar di regime. L'amnistia del 1946, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Napoli - Federico II, Anno accademico 2011/2012
I fascisti imprigionati e latitanti divennero ben presto molto importanti in chiave elettorale,potendo arrivare a fasce di elettori irraggiungibili per i partiti al governo. Gli ex fascisti non tardarono a capire di aver un asso nella manica con cui poter battere la propria situazione giuridica e responsabilità con contropartite elettorali favorevoli ai partiti, gli ex fascisti, insomma, miravano ad un atto di amnistia generale. L'allora ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, cavalcò l'ipotesi avanzata dal nuovo Re Umberto di Savoia che richiese un atto di clemenza generale. Il ministro Togliatti mirava a che si emanasse un atto di amnistia generale prendersi tutto il merito. Estromesso dalle elezioni del 2 giugno il piano monarchico, Togliatti ebbe l'occasione di far approvare il 22 giugno 1946 l'amnistia che porta il suo nome, solo ed esclusivamente secondo quelle che erano i suoi intenti politici. Almeno inizialmente l'atto doveva avere una portata generale ma per reati non particolarmente gravi ed efferati. Sul piano giuridico l'Amnistia Togliatti dimostrò subito tutti i suoi limiti, connaturata da un'intrinseca ambiguità funzionale, l'amnistia fu capace nella sua fase attuativa di interpretazioni estensive da parte dei giudici che seppero quanto mai prima, trovare una complicità, forse anche involontaria, con i voleri del ministro guardasigilli Palmiro Togliatti. A fronte dell'applicazione estensiva dell'Amnistia nei confronti dei criminali fascisti, la magistratura proseguì ne perseguire con rigore i reati perpetrati dai partigiani. Disparità di trattamento. Due pesi due misure. Questo comportamento finì per esacerbare uno stato di tensione sociale di per se molto alto in quel periodo. Disparità di trattamento spesso venivano accompagnate da trattamenti di favori giudiziari a ex fascisti che si vedevano beneficiare del provvedimento d'amnistia anche non potendovi rientrare, ma che con motivazione al limite della ignominia per i crimini commessi, vanificavano il buon lavoro che in fase di epurazione le corti minori fecero. La magistratura si adoperò in seguito per accrescere la portata estensiva ed ambigua dell'Amnistia Togliatti, accrescendone ancor di più i limiti giuridici. L'Amnistia Togliatti fu un vero e proprio colpo di spugna verso i crimini fascisti.
[...] Alla fine di luglio, beneficiarono dell'atto di clemenza, circa 220.000 persone, in stragrande maggioranza per reati di poco conto e infrazioni che tutto sommato non erano di gravi entità.
Ma non fu, il così grande numero di scarcerazioni, a destare malcontento, ma il rilascio di alcuni pericolosissimi personaggi, conosciuti a livello locale, quasi tutti appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, e/o semplici (ma pericolosi) fiancheggiatori dei nazi-fascisti.
La magistratura, suo malgrado si ritrovò anch'essa nella morsa delle critiche dell'opinione pubblica, sulla base di proscioglimenti a dir poco “scandalosi”, desiderosi (soprattutto i magistrati delle corti superiori) più di voltar pagina che sospinti da un desiderio di chiarezza.
L'amnistia, a mio avviso, invece di unire differenziò ancor di più le parti in lotta, sia per quanto riguarda l'intero periodo ventennale della dittatura che nel periodo 1943-1945, quando accrebbe lo scontro tra fascisti ed antifascisti.
Protagonista tipo, del nutrito gruppo dei collaborazionisti amnistiati, è (per fare qualche esempio) il sergente della gendarmeria germanica a Belluno, Arduino Pompanin, condannato nel settembre 1945 a vent'anni dalla Corte d'Assise Speciale, con doppie attenuanti generiche, per aver partecipato attivamente alle persecuzioni dei partigiani con violenza, minacce, percosse ai ricercati e ai loro familiari, e in più si rese responsabile, in un occasione, di aver sparato ripetutamente contro i partigiani [disarmati] che si rifugiarono in un fienile.
La Cassazione accertò le sue responsabilità, ma ne accolse il ricorso poiché, per quanto numerosi e gravi, furono, i delitti commessi dal Pompanin, in danno alla popolazione e contro lo Stato, tuttavia non si riscontrarono, nei reati da costui commessi, alcuna delle ipotesi ostativa all'applicazione dell'amnistia, ora in questo caso a mio avviso la Cassazione non interpretò in modo estensivo il dispositivo dell'Amnistia Togliatti, ma semmai era la stessa amnistia Togliatti a prevedere casi del genere, che in sostanza equiparavano l'operato degli squadristi fascisti all'obbligo dell'esecuzioni di ordini (legittimi) di tipo militari, riconoscendo di fatto provvedimenti della Repubblica Sociale Italiana.
Gli imputati disponevano della facoltà di rinunzia dei benefici del decreto di amnistia e chiedere la prosecuzione del processo per accertare la propria innocenza.
I pochi gerarchi che fecero uso della facoltà di rinunzia all'amnistia, furono tutti assolti con formula piena e alla soddisfazione del risultato raggiunto si accompagnò, spesso, l'indignazione per il tempo trascorso in carcere.
Diversi ex gerarchi decisero pertanto di espatriare, per rifarsi una vita e mettere a frutto, le ingenti, ricchezze accumulate durante il ventennio fascista.
Antonio Marchionne, I provvedimenti clemenziali al mutar di regime. L'amnistia del 1946, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Napoli - Federico II, Anno accademico 2011/2012