giovedì 8 settembre 2022

Alla vigilia della liberazione del Nord Italia, il governo Bonomi istituì delle Assise straordinarie (Cas)


Il 12 febbraio 1946 la Sezione speciale della Corte d’Assise di Verona sottoponeva a processo i latitanti Maria Luisa Bonizzato, studentessa scaligera nata nel 1920, suo padre Gaetano e l’ufficiale superiore della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) Giovanni Roggiero, con l’accusa di aver collaborato con l’occupante tedesco. Secondo il pubblico ministero, Roggiero avrebbe denunciato alcuni antifascisti con la complicità di Gaetano Bonizzato e di sua figlia Maria Luisa. Una sera dell’agosto 1944, l’ufficiale della Gnr si recò in visita dal Bonizzato e si imbatté in tre giovani, lì ospitati, che durante la serata lanciarono pesanti critiche al fascismo e al regime nazista, auspicando la vittoria degli Alleati. Roggiero prese nota di quelle dichiarazioni e si recò immediatamente dalle autorità tedesche a riferirle. La retata avvenne la notte stessa e provocò l’arresto di Giuseppe Leone e Giovanni Campioni, mentre il terzo denunciato riuscì a fuggire. L’indomani, Maria Luisa Bonizzato confermò la denuncia del Roggiero, compromettendo ulteriormente la posizione degli arrestati: uno di questi, Giuseppe Leone, venne deportato in un campo di concentramento in Germania dove morì il 3 dicembre 1944. Durante il dibattimento la testimonianza principale fu rilasciata dal Campioni, uscito dal carcere all’indomani della Liberazione, che dichiarò di aver scorto la firma dell’ufficiale della Gnr nella denuncia mostratagli la notte in cui fu arrestato e confermò che Maria Luisa Bonizzato, l’indomani mattina, si era recata in gendarmeria a testimoniare contro di lui e l’amico Leone. La Corte, presieduta da Gennaro Punzo, condannò Roggiero e la Bonizzato, mentre assolse con formula dubitativa il padre della ragazza, dato che non esistevano prove sufficienti per stabilirne la complicità nell’azione delatoria del Roggiero. La giuria si interrogò sulle ragioni che avevano indotto la ragazza a collaborare con l’ufficiale fascista; ipotizzò che Maria Luisa volesse vendicarsi di qualche torto commesso dai giovani antifascisti ospiti del padre, ma non poté provarlo. La Corte decise di infliggerle 4 anni e 5 mesi di detenzione, una pena decisamente modesta se confrontata con i 20 anni di prigionia comminati al Roggiero. La giuria giustificò la disparità di trattamento sottolineando innanzitutto le maggiori responsabilità dell’ufficiale e rimarcando, in secondo luogo, l’inesperienza e l’ingenuità dell’imputata oltre al fatto che, in precedenza, la ragazza aveva aiutato alcuni ricercati dalla polizia tedesca. Il Roggiero, ufficiale della Gnr autore della delazione, non fu mai identificato: il provvedimento di condanna giunse a un tale Giovanni Roggiero, ma costui fece subito ricorso per dimostrare il caso di omonimia in cui la Corte era incappata e la Cassazione gli diede ragione. Al contrario Maria Luisa, che aveva fatto perdere le proprie tracce dal maggio 1945, venne ugualmente a conoscenza della condanna inflittale dalla Corte scaligera e ricorse in Cassazione; quest’ultima il 27 giugno 1946 l’assolse da ogni accusa «perché il fatto non costituiva reato» <1.
Quello appena descritto rappresenta uno dei numerosi processi andati in scena a Verona, così come nel resto d’Italia, al fine di punire chi collaborò con l’occupante tedesco. Il reato di collaborazionismo venne introdotto dal regio decreto legge (rdl) n. 134, varato il 26 maggio 1944 dal secondo governo Badoglio. L’articolo 6 affermava che: "chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, anche non rivestendo la qualità di militare, abbia commesso delitti contro la fedeltà e la difesa militare è punito a norma delle disposizioni […] del codice penale militare di guerra. Ai fini di questo articolo è considerato delitto contro la fedeltà e la difesa militare qualunque forma di collaborazione attiva, di aiuto o di assistenza prestata al tedesco invasore" <2.
Con questo decreto - confermato nella sostanza nei mesi successivi - il governo stabilì di non rinviare a giudizio tutti gli aderenti alla Repubblica sociale italiana (Rsi), bensì solo chi aveva infranto alcuni articoli del Codice penale militare di guerra (in particolare il 51, il 54 e il 58) cui la legge del maggio 1944 rimandava. L’articolo 51 del Codice militare sanzionava chi aveva compiuto operazioni finalizzate «a favorire le operazioni militari del nemico», il 54 condannava chiunque avesse intrattenuto con il tedesco forme di «intelligenza o corrispondenza», infine l’articolo 58 puniva chi aveva favorito «i disegni politici dell’occupante» <3. Per i colpevoli erano previste lunghe pene detentive e, nei casi più gravi, la condanna a morte <4.
I processi ai presunti collaborazionisti vennero inizialmente affidati alle Corti d’Assise ordinarie, che però non erano nelle condizioni materiali per condurre centinaia di procedimenti giudiziari. Perciò, alla vigilia della liberazione del Nord Italia, il governo Bonomi istituì delle Assise straordinarie (Cas). Le Cas avrebbero dovuto garantire giudizi rapidi e severi, in sintonia con le richieste del popolo e della Resistenza; sarebbero dunque state composte da un magistrato togato e da quattro giudici popolari, estratti a sorte da una lista redatta da ciascun Comitato di Liberazione provinciale, ed avrebbero beneficiato di diverse deroghe alla procedura penale ordinaria per accelerare l’istruttoria e la fase dibattimentale. Affidando poteri straordinari a queste Corti, lo Stato aveva ingenuamente ipotizzato di poter sanzionare penalmente i fascisti e i collaborazionisti in soli sei mesi, ma la mole di rinviati a giudizio obbligò ad estendere l’attività di queste Assise speciali fino alla fine del 1947 <5.
Il numero complessivo di processati in Italia non è ancora stato stabilito con certezza. Secondo Hans Woller, «tra il 1945 e il 1947 […] vennero istituiti, contro fascisti e collaborazionisti, più di 20.000, forse perfino 30.000 processi, e vennero inflitte pene molto severe, tra cui 1.000 condanne a morte e migliaia di condanne a lunghe pene detentive»; l’autore, però, non riporta le fonti da cui trae queste cifre, in ogni caso approssimative <6. Sono invece più precisi alcuni studi locali e regionali, come quelli dedicati al Piemonte, alla Valle d’Aosta e al Veneto <7.
Secondo Neppi Modona, ad esempio, gli imputati processati dalla Corte di Aosta e da quelle piemontesi furono più di 3.600, di cui più di 400 donne; il numero complessivo di condannati fu 2.200 circa, tra cui poco più di 200 appartenenti al genere femminile <8. Il numero di processi penali condotti in Veneto contro i collaborazionisti tra il 1945 e il 1946 si aggirò invece sulle 2.000 unità, anche se è difficile stabilire con precisione il numero di imputati e la divisione per genere <9; nella sola provincia di Rovigo - studiata da Gianni Sparapan - i processi furono 340 e riguardarono 466 imputati, tra cui 20 donne.
Questi dati rivelano l’ampiezza del processo di epurazione; tuttavia la maggior parte degli storici ritiene che l’elevato numero di rinviati a giudizio non fosse sinonimo di severità ed efficienza delle Corti e che la gran quantità di assoluzioni, condoni e amnistie abbiano decretato il sostanziale fallimento dell’epurazione <10.
È innegabile che quest’ultima fu costellata da numerose contraddizioni; siamo tuttavia convinti che, prima di giungere a conclusioni così radicali, si debbano ancora chiarire numerose questioni: non è stata condotta sino ad ora un’analisi complessiva dell’operato delle Corti d’Assise straordinarie, scarseggiano gli studi sull’epurazione dei corpi professionali, non si è posta sufficiente attenzione al ruolo svolto da magistrati e legali nella giustizia di transizione e non si è riflettuto abbastanza su quanto la pressione mediatica abbia pesato sui processi <11.
[NOTE]
1. Archivio dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (d’ora in poi Ivrr), Fonti Ivrr, Sentenze (copie) della Corte d’Assise straordinaria di Verona (d’ora in poi Cas Vr), b.1, fasc. 1946, sentenza n. 24/46.
2. Vd. rdl n. 134 del 26 maggio 1944 pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia» del 31 maggio 1944.
3. Così il Codice penale militare di guerra dell’epoca.
4. Il decreto legge luogotenenziale (dll) n. 224 varato il 10 agosto 1944 abolì dal Codice penale la pena di morte, che era stata riportata in vigore dal regime fascista; ciò nonostante la condanna a morte mediante fucilazione rimase prevista nel Codice penale militare e nelle legislazioni speciali come quella riguardante l’epurazione.
5. Le Cas furono istituite il 22 aprile 1945 con il dll n. 142. Inizialmente avrebbero dovuto operare nelle sole province del Nord Italia, dove il numero di collaborazionisti da giudicare sarebbe stato più elevato che nel resto della penisola, data la maggiore durata dell’occupazione nazifascista; nelle altre regioni d’Italia i processi contro i fascisti e i collaborazionisti avrebbero dovuto rimanere affidati alle Corti d’Assise. Tuttavia, la celerità e l’iniziale efficienza mostrate dalle Cas del settentrione indussero il governo ad estenderle a diverse province dell’Italia centrale (dll n. 434 del 20 luglio 1945 e n. 186 dell’11 maggio 1945); infine il dll n. 625 del 5 ottobre 1945 uniformò la legislazione, estendendo l’operato delle Cas - rinominate Sezioni speciali delle Corti d’Assise - all’intera penisola.
6. Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia tra il 1943 e il 1948, Il Mulino, Bologna 1997, p. 419.
7. Si vedano - a titolo esemplificativo - i seguenti studi: Giustizia penale e guerra di liberazione, a cura di Guido Neppi Modona, Franco Angeli, Milano 1984; Fascisti e collaborazionisti nel Polesine durante l’occupazione tedesca. I processi della Corte d’Assise Straordinaria di Rovigo, a cura di Gianni Sparapan, Marsilio, Venezia 1991; Alessandro Naccarato, I processi ai collaborazionisti, le sentenze della Corte d’Assise straordinaria di Padova e le reazioni
dell’opinione pubblica, in La società veneta dalla Resistenza alla Repubblica, a cura di Angelo Ventura, Cleup, Padova 1997, pp. 563-602.
8. Cfr. Luigi Bernardi, Il fascismo di Salò nelle sentenze della magistratura piemontese, in Giustizia penale e guerra di liberazione, a cura di Neppi Modona, cit., pp. 61-172. Per la precisione gli imputati furono 3.634, di cui 3.197 uomini e 437 donne. Il numero esatto di condannati fu pari a 2.288 (2.072 uomini e 216 donne).
9. Nello studio di Naccarato, I processi ai collaborazionisti, cit., non è preso in considerazione il 1947 nonostante i processi siano proseguiti anche quell’anno; i dati dell’autore sono dunque parziali.
10. Sono molti gli studi che contestano l’efficacia dell’epurazione: tra gli altri cfr. Zara Algardi, Processo ai fascisti, Vallecchi, Firenze 1973 (ed. or. 1958); Marcello Flores, L’epurazione, in L’Italia dalla liberazione alla repubblica, a cura di Guido Quazza, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 413-467; Lamberto Mercuri, L’epurazione in Italia 1943-1948, L’Arciere, Cuneo 1988; Domenico Roy Palmer, Processo ai fascisti. 1943-1948: storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano 1996; Romano Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano 1999. La pensano in modo differente, seppur parzialmente, Woller, I conti con il fascismo, cit., e Giovanni Montroni, The professors in and after the fascist regime. The purges in the universities of Italy (1944-1946), «Journal of modern Italian studies», 2009, n. 3, pp. 305-328.
11. Vi sono comunque alcune eccezioni. L’epurazione dei professori universitari, ad esempio, è stata studiata da Montroni, The professors in and after the fascist regime, cit., e Id., Professori fascisti e fascisti professori. La revisione delle nomine per alta fama del ventennio fascista (1945-1947), «Contemporanea», XIII (2010), n. 2, pp. 227-259. Sui magistrati si veda Giovanni Focardi, Le sfumature del nero: sulla defascistizzazione dei magistrati, «Passato e Presente», 2005, n. 64, pp. 61-87. Sull’epurazione nei ministeri si veda: Guido Melis, Note sull’epurazione nei ministeri (1944-1946), «Ventunesimo secolo», 2003, n. 4, pp. 17-52. Sui prefetti si veda Valeria Galimi, L’épuration des préfets dans la transition après la guerre en Italie, in Fonctionnaires dans la tourmente, a cura di Marc Bergère e Jean Le Bihan, coll. Equinoxe, Genève 2009, pp. 263-281. Sul ruolo di giudici e legali nel processo di epurazione si veda Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione, a cura di Giovanni Focardi e Cecilia Nubola, Il Mulino, Bologna
2015. Per il caso veneto si veda Marco Borghi, Tra fascio littorio e senso dello stato: funzionari, apparati, ministeri nella Repubblica sociale italiana, 1943-1945, Cleup, Padova 2001 e Carlo Monaco, Dei doveri che il pubblico ufficio mi impone: burocrazie statali e ceti di governo nel Veneto dal fascismo al dopoguerra, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari di Venezia, Dottorato in Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea, XXI ciclo [2010].
Andrea Martini, Il collaborazionismo femminile a Verona tra guerra e Liberazione (1943-47) in (a cura di) Nadia Olivieri, Santo Peli e Giovanni Sbordone, I tanti volti del 1943-45. Storia, rappresentazione e memoria, Venetica, n. 32, 2015