mercoledì 31 agosto 2022

Il carattere interclassista, meramente antifascista e nazionale, farà diventare il PCI un partito di massa durante gli anni della guerra


Il proclama dell’8 settembre 1943 vedrà l’Italia dichiarare l’armistizio di fronte all’invasione anglo-americano, dopo una guerra a fianco della Germania non più proseguibile, con un paese stremato dallo sforzo bellico e dai bombardamenti alleati. Già dal giorno seguente vedrà la sua nascita ufficiale il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), una organizzazione costituita dai principali movimenti antifascisti italiani desiderosa di combattere contro il sopravvissuto fascismo peninsulare e contro il nazismo. I principali contraenti del patto in questione erano il Partito Comunista Italiano (che aveva nel frattempo cambiato la propria denominazione dal precedente Partito Comunista d’Italia), la Democrazia Cristiana, il Partito d’Azione, il Partito Liberale Italiano, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e Democrazia del Lavoro. Un patto essenziale nella storia della futura Repubblica Italiana, che inquadra i principali protagonisti della Resistenza partigiana, che da questo accordo tra forze politiche anche molto diverse tra loro, si snoderà fino al termine del conflitto bellico.
La figura di Togliatti è essenziale anche in questa delicata fase, ed è proprio sulla scia dei costituendi accordi in seno al CLN che Togliatti viene fatto rientrare in Italia, non prima però del 27 marzo 1944. Nella finestra di tempo che intercorre tra la formazione del CLN e il ritorno del segretario comunista in Italia, vi sono una serie di consultazioni diplomatiche riguardanti sia il rapporto tra Stalin e Togliatti, sia il livello di inclusione del PCI nelle dinamiche della Liberazione e della lotta antifascista. Gli indirizzi consigliati da Stalin in questa fase sono ancora in fase di dibattito; se da una parte la convinzione che l’entrata nel neonato governo Badoglio potesse essere un errore viene addebitata allo stesso leader sovietico <1 l’opinione più accreditata è quella che vede Stalin consigliare a Togliatti di far parte dello stesso esecutivo, da un lato per incrementare l’insufficiente peso della diplomazia sovietica nella gestione della liberazione italiana, dall’altro per evitare che l’Italia liberata diventasse un soggetto di uso e consumo anglo-statunitense, con un conseguente indebolimento strategico del ruolo mediterraneo della nazione. L’appoggio ad un governo fortemente allineato agli interessi delle democrazie occidentali deve stupire meno dell’appoggio dato dal PCI ad una Italia ancora formalmente monarchica, con un Umberto di Savoia nel ruolo di Luogotenente del Regno e un governo retto da un generale monarchico. In questo senso la decisione segnerà un altro fondamentale passo di avvicinamento, da parte del PCI, alle dinamiche democratiche e borghesi che segneranno la storia della Repubblica Italiana nel dopoguerra e l’evoluzione strategico-ideologica del PCI. In tal direzione, l’accordo per l’appoggio di un governo di transizione da parte del PCI vede la mediazione di Enrico De Nicola, e la prospettiva, a guerra conclusa, di far scegliere gli italiani sulla forma statuale da adottare al termine del conflitto, scegliendo tra la monarchia e la repubblica. Un governo temporaneo, insomma, retto dall’unica necessità che poteva tener uniti i contraenti del CLN, ovvero quella di liberarsi del nemico fascista.
Anche nella conduzione bellica e non solo nella gestione diplomatica si nota continuamente in Togliatti la volontà di giungere ad un compromesso politico capace di concentrare l’attenzione sullo sforzo bellico in una strategia unitaria, strategia che comporterà la formazione di un governo basato sull’intesa del CLN il 22 aprile 1944, con Salerno scelta come sede dell’esecutivo fino alla liberazione della capitale. Il presidente in carica è ancora Pietro Badoglio, ma la Vicepresidenza viene affidata a Palmiro Togliatti in persona. Fausto Gullo, altro comunista, è Ministro all’agricoltura, e la partecipazione del PCI a questo governo viene completata dal Sottosegretario alla Guerra Mario Palermo e da quello alle finanze Antonio Pesenti.
Dal 18 giugno 1944 sarà la volta del secondo governo del presidente Ivanoe Bonomi, sempre formato dai contraenti del CLN, con la conferma di Gullo e Pesenti, il trasferimento al Sottosegretariato alla guerra di Mario Palermo e l’aggiunta di Guido Molinelli alla Sottosegreteria del Ministero dell’industria, del commercio e del lavoro. La breve parentesi del secondo governo Bonomi viene sostituita dal terzo governo guidato sempre dal leader del Partito Democratico del Lavoro. La sua durata va dal 12 dicembre 1944 al 21 giugno 1945, e vede la partecipazione della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano, del Partito Liberale Italiano e del Partito Democratico del Lavoro. Togliatti torna Vicepresidente, affiancato dai comunisti Eugenio Reale (Sottosegretario agli affari esteri), Fausto Gullo (nuovamente Ministro dell’agricoltura), Antonio Pesenti (Ministro delle finanze), Mario Palermo (Sottosegretario alla guerra).
Il successivo governo Parri, in carica dal 21 giugno 1945, vedrà una maggior partecipazione partitica al governo e la prima nomina di Palmiro Togliatti a Ministro di grazia e giustizia, un ruolo che Togliatti ricoprirà anche nel successivo, primo governo di Alcide De Gasperi, supportato dal PCI nonché ultimo governo monarchico italiano, in carica fino al 14 luglio 1946.
Abdicato dal ruolo ministeriale nel governo De Gasperi II (che vede comunque il supporto del PCI e la partecipazione di numerosi comunisti di primo piano quali Eugenio Reale, Fausto Gullo ed Emilio Sereni), Togliatti rimarrà fuori dai quadri ministeriali anche nel De Gasperi III, ultimo governo a vedere l’appoggio comunista al proprio operato.
II) Lotta per la democrazia e nella democrazia.
Una partecipazione relativamente lunga, che vede il PCI entrare nella concreta gestione del potere italiano sia durante la Resistenza che durante la primissima fase postbellica. Una Resistenza d’altro canto che il PCI e i suoi aderenti vivono da protagonisti, con le “Brigate d’assalto Garibaldi”, create dal comitato militare del partito il 20 settembre 1943 a Milano e poste sotto la direzione di Piero Secchia e Luigi Longo. Fin dalla dichiarazione di guerra alla Germania, dalle alte sfere del partito l’indicazione è chiara: lottare per la legalità, per il ripristino dell’ordine democratico e lottare contro ogni forma di “attesismo” o sentimento eversivo, combattendo fianco a fianco con tutte le altre forze impegnate nella guerra antifascista. <2
In tal senso, è emblematico l’appoggio del PCI all’ordine del colonnello alleato Graham Chapman contro gli scioperi nell’Italia liberata, con punizioni prevedenti anche la pena di morte per gli scioperanti. <3 Lo stesso rimando alle Brigate Internazionali nel nome e alla figura di Garibaldi (ripresa poi dal successivo Fronte Popolare nelle elezioni postbelliche) fa capire quale sia l’alveo ideologico e il portato storico che la formazione delle brigate antifasciste del PCI reca con sé, ed è interessante attenzionare anche i nomi delle singole brigate in questo senso, quasi nessuna recante insegne, nomi o simboli riconducibili alla stagione del bolscevismo rivoluzionario. Abbondano invece le brigate recanti nomi riconducibili alla storia italiana, alla lotta antifascista e al periodo risorgimentale; è il caso della Brigata Fratelli Bandiera, della Carlo Pisacane, della Ippolito Nievo. Altri raggruppamenti sono stati dedicati a Nino Bixio, Ciro Menotti e ai Fratelli Cairoli, nomi incontrati, tra le altre cose, anche nell’esperienza radiofonica di Radio Mosca e nei proclami patriottici di Togliatti fatti dalla stessa emittente. Dall’impostazione rigidamente legalitaria all’orgoglio mostrato ancora oggi nell’aver “rimesso in piedi l’Italia” <4 da parte delle numerose associazioni di combattenti, si capisce come la stagione resistenziale sia vista anche come l’occasione di una rivoluzione non nel senso marxista del termine, bensì come un ritorno ad uno status quo repubblicano e democratico, come la ripresa di una stagione storica quale il Risorgimento, che nella lotta antifascista trova quasi un suo colpo di coda, un riagganciarsi alla tradizione storica che ha sempre contraddistinto l’Italia, in una lotta contro l’invasore che trova quasi giustificazione nell’eterno antagonismo con il nemico tedesco, per una Resistenza che contribuisce a far tornare alla tradizione di sempre e ad emancipare allo stesso tempo l’Italia.
E’ proprio il carattere interclassista, meramente antifascista e nazionale che farà diventare il PCI un partito di massa durante gli anni della guerra, nonché uno dei principali fondatori, anche grazie allo sforzo delle Brigate Garibaldi, dello Stato postbellico. <5 Anche se nella base, come vedremo, l’alleanza con il governo Badoglio e la partecipazione ai governi successivi causerà non pochi problemi all’interno del partito, vi è la comune sensazione che la partecipazione del PCI alla ricostruzione democratica del paese sia avvenuta senza particolari rotture, quasi come confortata da una ineluttabilità ormai scontata, iscritta nelle carni del destino comunista italiano. <6
E’ una impostazione questa piuttosto superficiale, che non tiene conto della differenza anche significativa intercorrente tra le esigenze e i programmi del vertice partitico e le aspettative della base, aspettative e tendenze che tra rotture, crisi e differenze di vedute vengono continuamente plasmate dal grande disegno democratico e repubblicano che Togliatti e il PCI stanno portando a compimento. Non è vero che non vi sono rotture, contestazioni o problematiche; è vero che, grazie all’abilità e anche alla durezza nei confronti dell’opposizione della segreteria Togliatti, come si vedrà nei successivi paragrafi, queste tendenze occuperanno sempre un ruolo minoritario e non inficeranno il quadro generale e le prospettive politiche di un partito che, durante la Resistenza, mette a frutto decenni di esperienza antifascista e la propria abilità nel forgiare una prassi nazionalpopolare applicata alla lotta antifascista, superando permanentemente, almeno dal punto di vista prospettico, l’orizzonte rivoluzionario.
Una prospettiva che nella Resistenza e nella sua eredità non trova né un primo segnale né una blanda o passiva conferma, bensì la prima, grande applicazione pratica e palingenetica di massa della democrazia di stampo togliattiano. In questo consiste la “democrazia progressiva” di Togliatti, un regime politico nuovo capace di liquidare il fascismo e procedere al rinnovamento economico e sociale del paese, pur ammettendo chiaramente di volere una Repubblica capace di permanere stabilmente nell’alveo della democrazia. <7
La traduzione politica di questo concetto risiede nella completa rinuncia non solo ad una reale trasformazione in senso leninista dello stato italiano, ma anche nella rinuncia ad una prassi ideologica o anche solo ad una dialettica mirante al raggiungimento di una posizione di chiara supremazia politica per il proletariato nei confronti delle altre classi.
Al contrario, sarà sempre forte la nostalgia in Togliatti per le stagioni di governo ciellenistico, la nostalgia per quel patto di moderazione e collaborazione nazionale che verranno meno con la fine della stagione resistenziale e l’inizio della separazione dei blocchi internazionali causata dalla guerra fredda. Anche gli accordi stipulati tra il 1944 e il 1947 altro non hanno fatto che confermare la sussistenza di un apparato di stato fondamentalmente borghese, in cui la logica resistenziale e ciellenistica cancella de facto qualsiasi ingerenza rivoluzionaria nella formulazione del nuovo stato. Una rivoluzione sì, se si bada al significato etimologico del termine, ovvero quello di un rivolgimento e di un ritorno ad una concezione democratica dello stato, concezione interrotta dalla stagione fascista, che non diventa quindi una degenerazione inserita in un percorso mirante al sovvertimento del sistema economico vigente o dei rapporti sociali in atto nel sistema capitalistico, bensì una mera parentesi, antistorica e antitradizionale, in seno ad una società italiana che si riappropria, con il fronte antifascista, della democrazia perduta.
Un ritorno inteso e fatto abilmente intendere come un nuovo inizio, dove non via sia più spazio per il fascismo o le derive autoritarie, con una Costituzione della quale Togliatti si fa padre, e della quale contribuirà a conservare l’impianto aggregatore, moderato e interclassista che ne fa il patto di tutti gli italiani per una nuova stagione democratica.
[NOTE]
1 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 67
2 Enzo Collotti, Renato Sandri, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2001, pag. 431
3 Arturo Peregalli, L’altra Resistenza, il PCI e le opposizioni di sinistra, Genova, Graphos, 1991, pag. 52
4 www.anpi.it/donne-e-uomini/1902/palmiro-togliatti
5 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 65
6Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, cfr. Paolo Spriano,
Storia del Partito Comunista Italiano, Torino, Einaudi, 1967, vol. IV-V
7 Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul PCI, una interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 87
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016