lunedì 29 agosto 2022

E tuttavia iniziano a filtrare nella seconda metà del decennio analisi e riflessioni sulla realtà socio-economica dei luoghi del Terzo Mondo


"Appena conquistata, e dissipatasi l’euforia per la sovranità acquisita o ritrovata, l’indipendenza non poteva nascondere l’enormità delle incombenze che restavano da portare a termine. La decolonizzazione era evidentemente un processo globale che andava al di là dell’atto formale, sollevando lo stato dall’assoggettamento politico. Restava dunque da costruire uno stato, definire una strategia di sviluppo e acquisire una legittimità internazionale. Compiti, questi, tanto temibili quanto lo erano la mancanza di transizione, la scarsità di quadri e l’assenza di concertazione, che non sempre permisero ai dirigenti che avevano guidato le lotte nazionali di evitare il doppio scoglio della sottomissione compiacente agli orientamenti impressi dall’ex potenza coloniale e del massimalismo rivoluzionario estraneo alle tradizioni popolari" <162.
Sono parole dello storico Bernard Droz e ben fotografano la situazione di molti paesi che, usciti dal periodo coloniale, si rendono ben presto conto di tutte le difficoltà di arrivare a essere uno Stato moderno. Il momento del termine del dominio coloniale è naturale spartiacque per una comunità di popolo che diventa in questo modo, a dar retta alla retorica, artefice del proprio destino di nazione indipendente.
Si potrebbe in questo senso idealizzare - a cadere vittime del “solito” immaginario determinato da fotografie da rotocalco, spezzoni cinematografici, la settimana Incom <163 - la decolonizzazione e identificarla con la cerimonia dell’alza-bandiera. A una data prefissata, normalmente a mezzanotte <164, nella piazza principale della capitale di una Colonia scende per l’ultima volta il vessillo del paese occidentale colonizzatore e sale per la prima volta la bandiera della ormai ex colonia, che, non di rado, per riaffermare un’identità pre-coloniale decide anche di cambiare il nome <165. Il tutto con la nostalgia che già affiora nei partenti - tutti rigorosamente vestiti, nonostante il lutto, in bianco e con uniformi di taglio coloniale - e la gioia dei “locali” finalmente liberi, senza tutela alcuna, di crearsi il proprio destino in un clima di generale entusiasmo. Un’immagine fuorviante. Se è vero che la maggioranza dei paesi riesce a giungere all’indipendenza senza spargimento di sangue, rimane il fatto che, con la decolonizzazione - che già dal nome è una negazione di qualcosa e chiarisce piuttosto chiaramente che si tratta di operazioni guidate dall’alto se non delle vere e proprie concessioni – da un lato aumentano tantissimo le difficoltà di loro, i cui gruppi dirigenti fanno fatica a formare un qualcosa che possa assomigliare ad una amministrazione <166 se non a uno Stato (e il cui corollario è una sequela piuttosto martellante di Colpi di Stato <167). Dall’altro lato contribuisce a che l’informazione delle condizioni di vita esistenti in buona parte di questi paesi inizia a filtrare a noi tramite agenti d’informazione e collegamento che sono l’espressione della Chiesa nel Terzo Mondo: i missionari.
Nel vuoto di potere che si viene a creare acquisiscono uno spazio notevole e svolgono due ruoli in uno: sono i sostituti o facenti veci di un potere centrale evanescente <168, dato che il sostanziale mantenimento delle strutture coloniali <169 aveva comportato una drammatica sperequazione tra le poche città e le infinite campagne <170 e sono per i fedeli cattolici, i più efficaci reporter di informazioni e notizie su quanto sta avvenendo consolidando l’impressione dell’abisso esistente tra noi e loro, abbondantemente documentato in quegli anni <171.
È loro la voce che arriva a diocesi, parrocchie e oratori e che dipinge tantissime realtà del Terzo Mondo in cui miseria e arretratezza sono i naturali progenitori della tragedia della fame. In questo c’è il supporto pieno della Chiesa che già dalla fine degli anni ’50, intravedendo il termine del colonialismo, spinge per dare nuova verve all’opera delle missioni in una funzione che è anche di contenimento del comunismo <172. Ne è uno strumento chiaro l’Enciclica Fidei Donum espressamente indirizzata verso un nuovo sviluppo dello spirito missionario della Chiesa con una duplice lettura: la solidarietà dei popoli e il fronte da opporre alla minaccia comunista. In concreto si trattava della “spedizione” per un limitato, ma non breve, periodo di tempo di sacerdoti diocesani in terra di missione. Una formula che non otterrà immediatamente dei risultati eccelsi da un punto di vista quantitativo <173. Tuttavia, una maggiore attenzione verso le realtà periferiche oltre a un non disprezzabile aumento - in assoluta controtendenza - delle vocazioni missionarie a partire proprio dagli anni ‘60 <174 è elemento fondamentale di quell’aumento di interesse verso la realtà delle missioni nel Terzo Mondo, anche se resta il dubbio se l’interesse fosse più per le prime o per il secondo. Come detto, fondamentale canale di passaggio di notizie, immagini, impressioni è la stampa missionaria, incardinata in Italia soprattutto attorno a tre testate di grande diffusione come “Le missioni cattoliche” (poi “Mondo e Missione”), “Nigrizia” e “Missioni della Compagnia di Gesù” (in seguito “Popoli”). Pubblicazioni che non si cristallizzano, ma subiscono anch’esse i condizionamenti di quello spirito del tempo in cui l’immagine dello stesso Terzo Mondo è un aspetto fondamentale.
Prendiamo “Le Missioni cattoliche”, forse la più “istituzionale” tra le riviste missionarie, espressione del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). La centralità di temi quali la missione evangelizzatrice, l’attacco al marxismo <175, l’attenzione ai problemi interni della struttura ecclesiastica176 rimane intatta. E tuttavia iniziano a filtrare nella seconda metà del decennio, soprattutto per l’effetto del Concilio Vaticano II <177, analisi e riflessioni sulla realtà socio-economica dei luoghi del Terzo Mondo <178, sull’importanza del laicato missionario <179, sulla richiesta di maggiore attenzione da parte della politica <180. Un mensile più attento alla realtà dei luoghi di missione, in questo caso l’Africa, è, ben prima del Concilio, “Nigrizia”, che già dal nome indica un significativo spostamento verso loro <181, anche se il punto di vista e la visuale appare ancora piuttosto centrata sul noi <182: basti pensare che ancora nel 1963 sullo stesso mensile dei comboniani a proposito dell’essere missionario si leggeva come «l’impiego di mezzi umani e l’istituzione di opere temporali: ospedali, scuole, partiti e sindacati possono distogliere il missionario dal suo diretto ministero apostolico» <183.
Un caso a parte “Missioni della Compagnia di Gesù”, realisticamente più orientato alla realtà della terra di missione e non a dispute interne o riflessioni, pur presenti e in qualche caso innovative rispetto al coevo panorama missionario <184. In ogni numero trova spazio uno speciale intitolato “Il paese di turno” in cui si mira a rappresentare sia la realtà sociale e politica sia quella religiosa. Nell’ottobre di ogni anno in coincidenza con la giornata missionaria esce poi un numero speciale dedicato a un argomento particolare ma sempre attinente la chiesa locale <185, mentre una rubrica fissa è quella dedicata al cinema e non solo quello missionario, a sottolineare la sensibilità verso i meccanismi di coinvolgimento dell’opinione pubblica. Non così dissimile, ma ancora più portato al versante intellettuale e di introspezione spirituale sui problemi generali della chiesa e delle missioni, è infine il mensile “Fede e Civiltà” dei Saveriani. Una pubblicazione sicuramente meno accessibile al grande pubblico che privilegia numeri monografici sui grandi temi della missionologia, ma anche, con l’innesto del Concilio nel dibattito intellettuale della Chiesa, ad analisi e interpretazioni sui paesi del Terzo Mondo e sull’importanza delle chiese locali <186.
Questa breve panoramica indugia sulle principali fonti dell’epoca che contribuiscono non solo a trasmettere informazioni, immagini, avvenimenti politici, culturali, sociali di quell’ampio contenitore che prende il nome di Terzo Mondo, ma soprattutto si incaricheranno, come vedremo, di trasmettere all’interno del “mondo cattolico” le prime iniziative di assistenza e aiuto, principalmente rivolte a fronteggiare l’“eterna piaga della fame”, spettro e presenza nera per la cristianità fin dall’Apocalisse di Giovanni.
La riscoperta della fame, problema in parte narcotizzato dal colonialismo, riesce a sensibilizzare singoli e gruppi dell’alveo cattolico <187 è una campagna informativa continua negli anni, determinante per creare un terreno fertile di fronte al caso di assoluta emergenza, come si vedrà in occasione della grande mobilitazione in occasione della carestia indiana del 1966. Al di là dei richiami di principio ai valori della pace, della bontà, della solidarietà dello stesso Pio XII <188, sarà Giovanni XXIII, d’intesa con l’unica agenzia delle Nazioni Unite ad avere la sua sede in Italia, a Roma, la FAO [Food and Agricoltural Organization, nda] <189 ad avviare una grande campagna contro la fame in occasione della X Conferenza Internazionale nei saloni della FAO a Roma nel maggio del 1960 <190. In quell’occasione il Papa sottolineerà come «i bisogni del fratello lontano» non possono essere ignorati in virtù dell’appiattimento delle distanze <191.
[NOTE]
162 Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Bruno Mondadori, Milano, 2010, p. 245.
163 Penso soprattutto al reportage del 1960 sulla fine dell’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia. Scattata ufficialmente a partire dal 1 luglio di quell’anno viene non in poche corrispondenze dipinta con venature di rimpianto ma anche di condiscendenza verso lo “stile italiano” (lasciando trasparire il luogo comune del colonialismo italiano diverso da quello degli altri, il mito italiani brava gente, eccetera). Così ne scrive Nane Serpellon sul mensile missionario dei gesuiti in un piccolo ma riuscito esempio di “occidentalismo di ritorno”: «Dieci anni di governo italiano hanno incoraggiato questa lenta popolazione africana al lavoro; l’hanno educata all’autodisciplina. La tradizione e la mentalità africane non sono state represse, ma sviluppate e integrate dalla cultura latina», Nane Serpellon, Tanti auguri Somalia, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, giugno-luglio 1960, p. 15. Con accenti non molto diversi si esprime Manlio Lupinacci sul “Corriere della Sera” in un articolo intriso di paternalismo e che esprime grossi dubbi sul fatto che i somali (e per estensione gli africani tutti dei paesi di recente indipendenza) siano in grado di edificare uno Stato: «Sono convinto nel profondo del mio spirito che tutti gli uomini sono idonei a essere uomini liberi e a formare società di uomini liberi: purché la storia ve li prepari». Nei suoi dubbi («È ancora bianca la libertà e temo che l’indipendenza finirà per considerarla straniera») e rimpianti (in un altro brano parla di «stretta al cuore» pensando al passato coloniale italiano chiuso per sempre) Lupinacci riassume la sua visione occidentale di Stato ordinato e liberale inaccessibile a suo dire alle «società di tribù» africane. Vedi Manlio Lupinacci, Ammainabandiera, in “Corriere della Sera”, 1 luglio 1960.
164 Come non ricollegarsi in questo senso a Salman Rushdie e al fulminante avvio di uno dei suoi romanzi più belli: «Io sono nato nella città di Bombay … tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l’ora? Anche l’ora è importante. Diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi … Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza io fui scaraventato nel mondo», Salman Rushdie, I Figli della Mezzanotte, Mondadori, Milano, 2009, p. 9.
165 Il caso più noto oltre a essere anche il primo è quello della Costa d’Oro che, primo paese dell’Africa “nera” a conoscere l’indipendenza nel 1957. Esattamente il 6 marzo di quell’anno (e ovviamente un minuto dopo la mezzanotte) il Ghana diventa indipendente o per usare le parole del presidente Kwame Nkrumah a separarsi «dall’ex potere imperiale». Vedi Raymond F. Betts, La decolonizzazione, cit. (citazione a p. 85).
166 Chiara Robertazzi, cui certamente non sono imputabili simpatie clericali, così dipinge la situazione in Congo nel 1960, all’alba della sua indipendenza: «Il Congo non ha a tutt’oggi neppure un medico, un ingegnere, un avvocato, un professore, un farmacista; i generali sono stati creati al momento della ribellione della Force Pubique, con rapidissime promozioni dai gradi più bassi. Esistono invece quattro vescovi africani e varie centinaia di preti, sempre tuttavia scarsi rispetto al numero dei vescovi e dei preti europei, il che dimostra solo che le missioni cattoliche, cui come abbiamo già detto era stato concesso il monopolio dell’istruzione, seguivano direttive più lungimiranti di quelle dell’amministrazione coloniale», Chiara Robertazzi, Il Congo specchio dell’Africa, in “Problemi del socialismo”, anno 3, n. 10, ottobre 1960. Per una storia del Congo dalla dall’indipendenza all’ascesa al potere di Mubutu vedi Gruppo U3M (a cura di), Il Congo di Lumumba e Mulele, Jaca Book, Milano, 1969. La documentazione in sede ONU relativa al Congo per il periodo 1960-1964 in Maria Vismara, L’azione politica delle Nazioni Unite. 1946-1976, Vol. 1, Tomo 2, CEDAM, Padova, 1983, pp. 1137-1341. Pochi mesi dopo la stessa Robertazzi poneva giusti interrogativi a proposito dei problemi successivi alla conquista dell’indipendenza: «Formalmente tutti riconoscono che la decolonizzazione politica è insufficiente ad assicurare una reale autonomia ai paesi ex coloniali fino a che ad essa non si accompagni una decolonizzazione economica. Non si tratta solo di imprimere un ritmo più rapido di sviluppo [..] ma di riorientare tutta l’economia del paese non più in funzione degli interessi coloniali ma di quelli delle popolazioni africane», Chiara Robertazzi, Decolonizzazione e neocolonialismo in Africa, cit. Un problema che certamente non è delimitabile al solo Congo.
167 Sono ad sempio ben 13 i Colpi di Stato tra il 1964 e i primi mesi del 1966 nella sola Africa. Vedi Corrado Pizzinelli, In due anni e mezzo tredici colpi di Stato, in “Famiglia cristiana”, n. 19, 8 maggio 1966, pp. 40-46.
168 Le riflessioni della Robertazzi (Chiara Robertazzi, Decolonizzazione e neocolonialismo in Africa, cit.) trovano un’ideale sponda in quanto osserva Gildo Baraldi - che ha speso una vita all’interno del movimento della “cooperazione” italiana - mezzo secolo dopo: «Un po’ per mancanza di competenze specifiche, un po’ per precise scelte politiche delle potenze coloniali, l’interno è ignorato e viene meno quella che non chiamerei “presenza dello stato” quanto una realtà amministrativa coloniale. Cosa succede allora? Che in alcuni casi in modo addirittura esplicito, in altri negandolo ma di fatto facendolo, la gestione della brousse dell’interno viene delegata all’unica autorità di fatto presente che sono i missionari. Questi missionari accettano di buon grado questo ruolo anche perché ne fanno di fatto il centro di vita dell’interno e favorisce l’attività di evangelizzazione», testimonianza di Gildo Baraldi [a.85].
169 Sottolineava Calchi Novati in un’opera apparsa nel 1963 a proposito delle strutture di potere nell’Africa ex-francese: «È probabilmente dubbio che l’Africa occidentale potesse definirsi una società divisa in classi, sia per la rudimentalità dei mezzi di produzione che per la scarsa coscienza di classe dei soggetti appartenenti al medesimo gruppo, ma ad assumere le redini dello Stato fu certo una classe di borghesi burocratici in embrione inseriti nell’apparato dello stato o nel circuito del grande commercio internazionale, destinata a trovare nel potere politico e nel rafforzamento dei principi del capitalismo semi-coloniale la sua unica via di sopravvivenza», Giampaolo Calchi Novati, L’Africa nera non è indipendente, Edizioni di Comunità, Milano, 1964, p. 143.
170 Baraldi sintetizza: «I nuovi stati, le nuove autorità nazionali, salvo alcune eccezioni come l’Algeria e il Marocco, raggiungono l’indipendenza attraverso processi pilotati dalle potenze (ex) coloniali. Vengono perciò messi al potere dei governi plasmati dalle potenze coloniali il cui compito nei fatti – poi ognuno ne dà l’interpretazione politica che vuole – è quello di continuare a perseguire gli interessi economici della potenza coloniale nella capitale», testimonianza di Gildo Baraldi [a.85].
171 In molti casi vengono riportati degli indici numerici sulla fame, sull’aspettativa di vita adulta e infantile, sui livelli salariali e soprattutto sull’assistenza medica (che abbiamo già incontrato nell’analisi della Robertazzi). In un numero del 1960 di “Fede e Civiltà” sono riportati alcuni dati dell’ONU che riassumo per punti: a) suddividendo la popolazione mondiale il 60% si trova in situazione di miseria, mentre il 20% è nell’abbondanza; b) la mortalità infantile che in Svezia è pari al 2% in Africa è in media del 35%; c) 800 milioni di individui vivono con 67 lire al giorno [teniamo presente che un quotidiano costava nel 1960 40 lire, nda]; d) la vita media se in Inghilterra e Stati Uniti è pari a 70 anni, in Cina è di 43 e in India di 32 anni; e) Negli Stati Uniti c’è un medico ogni 729 abitanti mentre in Kenia ce c’è uno ogni 9924 e in Indonesia ogni 61.000. Vedi Uomini come noi, in “Fede e Civiltà”, anno 58, n. 3, marzo 1960, p. 106. A margine di questo riepilogo la rivista informa i lettori sull’iniziativa tedesca di Misereor (su cui vedi Walter Kiefer - Heinz Theo Risse, Misereor. Un’ avventura dell’amore cristiano, EMI, 1966).
172 Ecco il messaggio natalizio del 1954 in cui stigmatizza piuttosto duramente le potenze coloniali. Di particolare interesse il passaggio in cui si accenna agli «incendi, a danno del prestigio e degli interessi dell’Europa, sono, almeno in parte, il frutto del suo cattivo esempio», Jean-Marie Mayeur, La Chiesa cattolica in Id. (a cura di), Storia del Cristianesimo, Guerre mondiali e totalitarismo (1914-1958), Vol. 12, (Edizione italiana a cura di Giuseppe Alberigo), Borla/Città Nuova, Roma, 1997, p. 328; e quello del 1955 in cui si mette in guardia da conflitti tra paesi europei ed extraeuropei (il concetto di Terzo Mondo è di là da venire nonostante quello fosse l’anno di Bandung) che possono «favorire un terzo che ambedue gli altri gruppi in fondo non vogliono, e non possono volere», Ivi, p. 329.
173 Il missionario fidei donum è un sacerdote diocesano distaccato per un periodo di 4 o 5 anni, che, pur rimanendo formalmente ancorato alla diocesi d’origine, effettua il suo servizio presso una missione sottostando naturalmente all’obbedienza al vescovo della missione. Nel 1964, a 7 anni dall’Enciclica, si calcolò che erano andati in missione come fidei donum non più di 150 nuovi sacerdoti (in tutto il mondo), Piero Gheddo, I “sacerdoti Fidei donum”, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, maggio 1964, p. 237-238. In una recente ricerca per i 50 anni della Fidei Donum Dario Nicoli identifica tre fasi storiche ben distinte (relativamente ai sacerdoti fidei donum): la prima che arriva fino al 1968 che vede poche intese molto dipendenti dallo spirito d’iniziativa della diocesi italiana; la seconda che copre il periodo 1969-1982 di forte espansione e l’ultimo di lento e contenuto declino, in particolar modo dalla seconda metà degli anni ’90. Vedi Dario Nicoli, Presentazione della ricerca sui 50 anni di esperienza Fidei Donum in Italia, in “Notiziario dell’ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le chiese”, n. 42, gennaio 2008, pp. 150-152 [Atti del convegno di spiritualità per sacerdoti, Montesilvano (PE), 5-8 novembre 2007]. In particolare prendendo i dati totali e per decennio la ricerca di Nicoli ci dice che su 1672 partenze tra il 1957 e il 2006, 217 sono comprese nel decennio che va dal 1957 al 1966. Un dato quasi doppiato dal periodo successivo (1967-1976) che vede ben 423 partenze, il picco più alto dell’intero cinquantennio (dati degli altri decenni presi in considerazione: 1977-1986: 317; 1987-1996: 354; 1997-2006: 361), vedi Dario Nicoli, Il movimento Fidei Donum. Tra memoria e futuro, EMI, Bologna, 2007, p. 169.
174 Di fronte alla crisi delle vocazioni missionarie «sembra che alcuni paesi negli anni 1970-1980 prendano la via opposta, poiché la Spagna e l’Italia hanno raddoppiato il numero dei loro missionari tra il 1963 e il 1987: in questo ultimo anno hanno raggiunto rispettivamente le cifre di 22.000 e 19.000», Jean François Zorn, Crisi e mutamenti della missione cristiana, in Jean-Marie Mayeur (a cura di), Storia del Cristianesimo, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Vol. 13, (edizione italiana a cura di Andrea Riccardi), Borla/Città Nuova, Roma, 2002, p. 316. Base dei dati tratti dall’Agenzia vaticana Fides, 4 luglio 1992. In particolare si segnala che i soli 2 istituti missionari (Comboniani e Missionari della Consolata) a registrare un incremento di vocazioni tra il 1962 e il 1977 sono italiani.
175 Vedi i primi due numeri del 1961 di “Le Missioni Cattoliche” con due servizi speciali dedicati alla Russia e alla Cina: Centro Studi Russia Cristiana (a cura di), La Chiesa Ortodossa in Russia al cui interno segnalo l’articolo Lotta contro Dio e sopravvivenza della fede, in “Le Missioni Cattoliche”, anno 90, gennaio 1961, pp. 16-30 (l’articolo citato pp. 26-30); l’articolo molto lungo sulla Cina è opera di Padre Amelio Crotti, missionario espulso dalla Cina. Crotti rilegge la storia recente del “paese di mezzo” centrando la sua analisi sull’attacco operato da Mao verso le forme religiose pre-esistenti e l’impossibilità di arrivare realmente alla condivisione del marxismo da parte di un popolo per il quale «famiglia e terra sono cose sacre», Amelio Crotti, Il popolo cinese di fronte al comunismo, in “Le Missioni Cattoliche”, anno 90, febbraio 1961, pp. 58-72 (citazione a pagina 67). E ancora: Luigi Muratori, Cuba e il regime di Fidel Castro, in “Le Missioni cattoliche, anno 92, maggio 1963, pp. 244-266. Vi si dipinge un regime ferocemente dittatoriale e in buona parta già abbandonato dal popolo, già stanco a cinque anni dalla rivoluzione.
176 Fondamentale in questo ambito il rapporto con le chiese locali. Di grande importanza in questo senso il Congresso Eucaristico Internazionale del 1964, per la prima volta tenutosi in un paese non cristiano, l’India. Vedi Augusto Colombo, La chiesa indiana alla vigilia del Congresso di Bombay, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, novembre 1964, pp. 461-464.
177 Vedi: il numero speciale del dicembre 1962 interamente dedicato al Concilio nell’ottica naturalmente missionaria con una serie di articoli (alcuni di grande interesse come quello del Giappone moderno di fronte alla Chiesa o dei problemi liturgici nelle missioni con un contributo di un vescovo indonesiano) scritti di pugno da esponenti delle chiese locali, Numero Speciale per il Concilio Vaticano II, in “Le Missioni cattoliche”, anno 91, dicembre 1962; Piero Gheddo, La prima sessione del Concilio: aspetti missionari, in “Le Missioni cattoliche”, anno 92, marzo 1963, pp. 140-158, un inserto molto centrato sulle prime discussioni conciliari, soprattutto in tema di riforme liturgiche (in modo da conformarle alle culture dei vari popoli (un tema caro allo spirito missionario, per ovvie ragioni). Nel dicembre 1963 esce un altro numero speciale interamente dedicato alla seconda sessione del Concilio che altro non è se non una mappa delle diverse chiese locali e missionarie.
178 A partire dal 1964 iniziano a uscire degli speciali in cui il taglio non è più solo religioso ma è accortamente miscelato con una certa attenzione ai problemi socio-politici. Cito i primi: Augusto Colombo, India 1964. Una difficile via al progresso, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, novembre 1964, pp. 480-499. È un interessante reportage sul subcontinente all’indomani della morte di Nehru e dell’ascesa al potere di Shastri; Bernardo Bernardi, La questione razziale nel Sud Africa, in “Le Missioni cattoliche”, anno 93, dicembre 1964, pp. 532-554; Luigi Muratori, Missione nuova per il Giappone d’oggi, in “Le Missioni cattoliche”, anno 94, gennaio 1965, pp. 32-48
179 Viene data una buona visibilità alla nascita e ai primi passi della Federazione degli Organismi di Laicato Missionario [FOLM, nda] costituitisi a Milano il 3 settembre 1966. In particolare alla fine del 1967 viene dedicato un intero numero al Laicato missionario in Italia curato da Cesare Bonivento (con un intervento di Domenico Bosa). Vedi Il laicato missionario in Italia, in “Le Missioni cattoliche”, anno 96, novembre 1967, pp. 538-554 e Paolo Linati, FOLM. Federazione di Organismi di Laicato Missionario, Ivi, pp. 555-560.
180 In sordina viene pubblicato agli inizi del 1965 un trafiletto in cui si dà conto della proposta di legge di Pedini e altri per la dispensa dal servizio militare per i cosiddetti volontari della libertà. Sarà la progenitrice della legge 1033 approvata l’anno dopo. Vedi Italia: proposta di legge per i “volontari della libertà”, in “Le Missioni cattoliche”, anno 94, aprile 1965, pp. 191-192.
181 Curioso annotare un dibattito acceso da una lettera di Vittorino Chizzolini a proposito del nome. Nell’ottobre del 1961 egli scrive «non penso che oggi si possa più usare il termine “Nigrizia”, che sottolinea l’aspetto razziale, ecc. che cosa diremmo noi se gli africani, sia pure con la migliore delle intenzioni, pubblicassero una rivista dal nome “I visi pallidi”?», Vittorino Chizzolini, I visi pallidi, in “Nigrizia”, anno 79, ottobre 1961.
182 Sia su “Nigrizia” sia su “Le Missioni cattoliche”, il solco è sempre quello della tradizione missionaria ed evangelizzatrice. Tutti gli articoli scritti dai o sui missionari hanno immancabilmente delle foto con loro impegnati in opere di assistenza alla popolazione locale; sono valorizzate le donazioni citando i nomi dei donatori e infine le opere di cooperazione missionaria, che a partire dal 1965 diventano sul mensile del PIME una rubrica dal titolo I missionari chiedono. “Le Missioni cattoliche, anno 92, maggio 1963, pp. 244-266. Vi si dipinge un regime ferocemente dittatoriale e in buona parta già abbandonato dal popolo, già stanco a cinque anni dalla rivoluzione.
183 Tra il 1962 e il 1963 esce un lungo articolo a puntate dal titolo Il missionario del nostro tempo (nei numeri di novembre e dicembre 1962 e gennaio 1963) con molte riflessioni figlie del cambiamento in nuce, ma anche con delle linee chiaramente riconducibili al dovere evangelizzatore. Nell’ultima parte dell’articolo si legge: «Il missionario di oggi a differenza di quello di ieri, dispone di mezzi eccezionali per arrivare a tutti gli uomini. Si pensi alla stampa, ai mezzi di comunicazione, alla facilità di comunicazioni. Ma questi mezzi sono costosi e sembrano contraddire allo spirito di povertà e di semplicità del Vangelo. D’altra parte l’impiego di mezzi umani e l’istituzione di opere temporali: ospedali, scuole, partiti e sindacati possono distogliere il missionario dal suo diretto ministero apostolico», Il missionario del nostro tempo (3), in “Nigrizia”, anno 81, gennaio 1963, p. 8.
184 Sugli studenti del Terzo Mondo che vengono a studiare in Italia vedi Silvio Zarattini, Le missioni vengono a noi, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, marzo 1960, pp. 6-9; sull’idea missionaria vedi Walter Gardini, Che cosa sono le missioni, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 46, ottobre 1960, pp. 6-12 (l’autore pubblicherà due anni dopo un libro dal titolo Problemi missionari d’oggi; sulla necessità di adeguarsi ai moderni strumenti di comunicazione di massa vedi le intelligenti riflessioni (che riprendo in seguito) di Silvio Zarattini, L’opinione pubblica, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 48, n. 5, maggio 1962, p. 15; sull’unione delle chiese Jean Danielou, L’unità dei cristiani e l’avvenire del mondo, in “Missioni della Compagnia di Gesù”, anno 48, marzo 1962, pp. 8-11
185 Tradizione che termina nel 1964. Tra quelli più significati: lo speciale del 1960 dedicato alle Missioni, e quello del 1963 all’Africa del Concilio con una connotazione molto positiva sul futuro del continente di cui si parla soprattutto del caso del Madagascar.
186 In uno di questi corposi volumi, dedicato al Burundi, nel 1964 si accenna un po’ di sfuggita alla presenza in Italia del vescovo di Ngozi Andrea Makarakiza che, come vedremo, sarà fondamentale per l’avvio della costruzione di un ospedale a Kiremba con l’aiuto della diocesi bresciana. Vedi Vittorino Martini, Il Burundi nel “ciclone” dello spirito santo, in “Fede e Civiltà”, anno 62, n. 8, ottobre 1964, pp. 1-61. Si tratta di un numero molto curato che presenta la realtà geografica, storica e culturale del paese insieme a una mappatura dettagliata della suddivisione di fedi religiose nel paese con il numero di parrocchie e di fedeli. Non è un “caso” l’interesse per questo piccolo paese dell’Africa centrale, ove si pensi che parliamo comunque di un paese a maggioranza cristiana: «il popolo più cristiano d’Africa; più del 50% del Burundi è cattolico», così all’inizio degli anni ’70 il noto vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, intervento al 2° convegno di studio promosso dal Movimento Laici per l’America Latina (MLAL), vedi La liberazione dell’Uomo, in “Quaderni ASAL”, n. 3-4, 1972, p. 145.
187 Nel 1960 “Le Missioni cattoliche” pubblica un servizio speciale dedicati al problema della fame (Piero Gheddo, Popoli ricchi e popoli affamati, in “Le Missioni cattoliche”, anno 89, aprile 1960, pp. 138-150). Sempre nel 1960 un lungo numero speciale di “Gentes”, mensile della gesuitica Lega Missionaria Studenti, sul tema (Giulio Di Laura, I due terzi degli uomini hanno fame, in “Gentes”, anno 34, n. 6, giugno 1960, pp. 571-598). Negli stessi anni “Italia Missionaria” avvia una rubrica dal titolo “Mani Tese” che darà il la all’omonima associazione. Iniziano a formarsi gruppi che si occupano di contrastare la fame nel mondo. Gruppi e organizzazioni che saranno in prima linea contro la grande carestia indiana del 1966 e la cui genesi vedremo meglio nel corso del prossimo capitolo.
188 L’instancabile Piero Gheddo ci propone nel suo libro sulla fame nel mondo un messaggio di Pio XII ai membri della FAO prevede per i popoli progrediti «duri risvegli se non si danno cura, fin d’ora, di assicurare ai meno fortunati i mezzi per vivere umanamente», Piero Gheddo, La fame nel mondo, EMI, Bologna, 1965, pp. 80 e 81.
189 La Fao rimane la principale Agenzia delle Nazioni Unite di stanza a Roma. Questo in virtù del pregresso IIA (Istituto Internazionale dell’Agricoltura), dalle cui ceneri sorse la FAO dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Vedi Luciano Tosi, Alle origini della FAO. Le reazione tra l’Istituto Internazionale dell’Agricoltura e la Società delle Nazioni, Franco Angeli, Milano, 1989, pp. 233-276; vedi Claudia Gioffré, F.A.O., in Marcello Flores (a cura di), Diritti Umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Vol. 1, UTET, Torino, 2007, pp 571-573.
190 Vedi il Rapporto della prima riunione del comitato consultivo della Campagna mondiale contro la fame, in Josué De Castro, Il libro nero della fame, Morcelliana, Brescia, 1963, pp. 177-190. Lo stesso De Castro rivestirà il ruolo di presidente per il primo periodo del Comitato consultivo.
191 Le parole esatte del “Papa buono”: «Nessuno, in un mondo in cui le distanze non contano più, può addurre a scusa che i bisogni del fratello lontano non gli sono noti», in Per la campagna contro la fame mobilitate le risorse di 80 paesi, in “La Stampa”, 5 maggio 1960.
Antonio Benci, Il prossimo lontano. Alle origini della solidarietà internazionale in Italia (1945-1971), Tesi di Dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2013