giovedì 11 agosto 2022

Romagnoli viene destinato alla squadra GAP comandata da «Aldo» Bruno Gualandi


Renato Romagnoli nasce a Bologna il 20 dicembre 1926. Figlio unico, vive in un’abitazione alla periferia della città, nella borgata Sostegnazzo della frazione Arcoveggio, con il nonno paterno Virgilio, la madre Cecilia Farnè e il padre Arturo. Quest’ultimo, disoccupato, può contare soltanto sui tre mesi di salario annui che gli derivano dall’impiego nella lavorazione della barbabietola nello zuccherificio locale. È, dunque, sulla madre, «operaia della manifattura tessile che ha sostituito una scomparsa pileria, e costretta anche al lavoro a domicilio, dopo le pesanti ore della fabbrica, al fine di procurare l’indispensabile alla quotidiana sopravvivenza» <211, che grava il peso maggiore della famiglia. Abituato ad esprimersi in dialetto, sia in ambito familiare che nei rapporti con i suoi coetanei, Renato, con l’inizio della scuola elementare, incorre in quello che per lui è un duro ostacolo da affrontare, ossia la lingua italiana, «una rarità dalle sue parti» <212: "[…] sono più avanti gli scolari che provengono dalla città a paragone dei bambini che abitano nei borghi isolati, praticamente in campagna. L’inesistenza di un qualsiasi humus culturale nelle famiglie del suburbio fa sì che i limiti di istruzione dei genitori ricadano sui figlioli […]" <213.
Superate le difficoltà iniziali, però, Renato si dimostra uno studente capace, tanto che la madre, malgrado ciò costituisca un grosso impegno per le misere condizioni economiche in cui versa la famiglia, si convince della necessità di fargli proseguire gli studi, in modo da garantirgli un futuro migliore in ambito lavorativo. Il passaggio dalla scuola primaria all’istituto di avviamento professionale Aldini Valeriani, tuttavia, non è indolore, e il primo anno di scuola media si conclude con una bocciatura: "Non parto dal medesimo nastro d’avvio. Fin dal primo giorno sento, avverto, un abisso tra la mia preparazione, anche nelle materie in cui eccellevo e altri compagni di classe. […] Lo capisco subito, chi non soffre la mancanza di continuità, proviene dai quartieri meno diseredati del centro cittadino, mentre, la forbice dell’ignoranza si allarga a dismisura partendo dalle zone popolari e aumenta man mano si va in periferia e ci s’inoltra nella campagna" <214.
Renato ha 13 anni quando scoppia la Seconda guerra mondiale. Per quel che riguarda la sua conoscenza della situazione internazionale e degli accadimenti bellici, escludendo l’educazione fornitagli dalla scuola e dal regime fascista, in lui «l’ignoranza è completa, regna sovrana, privo d’informazioni di ogni tipo: familiari; radiofoniche; giornalistiche» <215: "Niente radio e giornali, voci sottintese il tramite, l’educazione scolastica, il substrato, il silenzio della famiglia […] E gli slogan a lettere cubitali sui muri delle case devono pur servire. Essi […] entrano nelle teste conquistano le menti. […] La propaganda è nelle cose, negli atti giornalieri, nell’organizzazione delle persone: figli della lupa; balilla; avanguardisti; giovani fascisti ecc. con le necessarie e puntuali varianti al femminile, la beviamo con il latte a colazione e condisce con gli altri pasti ogni momento dell’esistenza […]" <216.
Dopo aver lavorato, nel corso dell’estate del 1941, in una litografia, il conseguimento della licenza di avviamento professionale, unitamente ai vuoti provocati dalle chiamate alle armi che comportano un aumentato bisogno di manodopera, consente a Romagnoli di trovare impiego come operaio, dopo una breve parentesi in un’officina di modeste dimensioni, nella fabbrica Cevolani, che produce torni semiautomatici ad alta tecnologia e pezzi di precisione per l’industria bellica. La fabbrica rappresenta per Renato un «genuino maestro» <217. Egli inizia ad ascoltare con attenzione i discorsi degli operai più anziani, da cui emergono «parole nuove» <218. Ciò che apprende risulta «tanto diverso da ciò che la scuola gli aveva insegnato ma così verosimile, aderente alla realtà in cui si trovava immerso» <219: "Difficile l’itinerario dei pensieri: la guerra era certamente la causa prima delle crescenti privazioni […] Un fatto era certo, però, miseria e difficoltà non toccavano tutti […] La fabbrica gli rivelò in tutta la sua crudezza l’amara verità della condizione operaia […] Al suo sviluppo interiore, a quel punto, mancava soltanto un aiuto di orientamento, capace di fornirgli una conoscenza più precisa dei fatti e delle cose, di farlo uscire dalla ridda delle sensazioni per indicargli la strada della sicurezza e della certezza" <220.
Per Romagnoli, quindi, al fine di una maggiore comprensione dei problemi politici, risulta significativo il rapporto con Primo Cavicchi <221, il quale «parla ad orecchie pronte ad ascoltare, aspettavano con impazienza parole nuove, fuori dal coro, sfonda quindi una porta apertasi da sola, con le elucubrazioni personali, ma restavo sulla soglia, temendo di sbagliare percorso, nel prendere il giusto cammino» <222. L’azione pratica di Renato, inizialmente, si limita alla scrittura di slogan propagandistici: "Disegno scritte sui muri, gesso e vernice la materia impegnata. W la pace-abbasso la guerra-basta con il fascismo. Poi vedo aggiungere un w il socialismo, è un fuori programma, cosa vuol dire? E qui è venuta la lezione, di cui capisco il giusto, ma condivido il fine. Significa giustizia, in sostanza uguaglianza. Niente padroni a mangiare il frutto del nostro sudore […] L’inverno 42/43, produce la svolta decisiva nella mia vita" <223.
Nei giorni seguenti alla caduta del fascismo, Romagnoli partecipa a scioperi, cortei e picchettaggi. Proprio perché imputato di concorso in ostruzionismo, avendo ostacolato il corso dei lavori alla fabbrica Cevolani, la notte del 27 luglio 1943 viene arrestato nella propria dimora e condotto, in attesa di processo, al carcere minorile di via del Pretello: "Amarezza per il risultato, rapida fine dell’impegno militante, pizzico d’orgoglio d’essere considerato tanto importante da meritare la galera, quasi una promozione sul campo. Se l’esperienza bisogna pagarla, questa è da manuale, ricca d’insegnamenti. Ammoniva a non esporsi gratuitamente, l’infantilismo verbale paga poco e serve meno" <224.
Con la firma dell’armistizio, essendo venuta meno l’autorità che aveva ordinato l’arresto, cade la motivazione giuridica per mantenere lo stato di detenzione, così che Renato viene rimesso in libertà il 17 settembre. La nuova occupazione, che Romagnoli trova allo zuccherificio, dura poco, in quanto lo stabilimento resta gravemente danneggiato dal bombardamento aereo su Bologna del 25 settembre, dovendo interrompere forzatamente la lavorazione.
Nel frattempo, Primo Cavicchi, quell’unico «filo prezioso» <225 che lega Renato all’organizzazione comunista, è costretto, repentinamente, a riparare in montagna, per sottrarsi alla chiamata alle armi. Rimasto di fatto isolato, Renato, pur portando avanti attività di volantinaggio, sente il bisogno di partecipare più intensamente alla lotta, «aspettava con ansia il momento del salto di qualità» <226. Ad affrettare i tempi per un suo balzo in avanti verso la clandestinità contribuisce l’ingiunzione, giuntagli ad inizio 1944, a presentarsi dinanzi al Tribunale militare regionale per essere giudicato dei crimini commessi nel corso degli scioperi seguiti al rovesciamento del fascismo. Scartata l’idea di presentarsi al processo, Renato prende contatto con un conoscente della famiglia, Sirro Fantazzini <227, persona idonea a fargli da tramite per raggiungere una formazione partigiana: "Egli assunte le informazioni ritenute utili, si prende l’impegno di dare una risposta nel breve periodo. […] Passano i giorni velocemente: contatti; spiegazioni; accertamenti; indicazioni su pericoli e disagi con cui avrei dovuto misurarmi e fare i conti. Si tasta il polso sulla fermezza della determinazione d’entrare da militante in una formazione armata" <228.
La partenza viene fissata per il 3 marzo 1944. Romagnoli, con funzione di staffetta di collegamento, entra a far parte del battaglione Tino Fergnani, un raggruppamento di partigiani bolognesi insediato nella vallata veneta del Vajont. Il nome di battaglia da lui adottato è «Italiano». Dopo circa un mese di «rigida vita di tipo militare, fatta di turni di guardia, di addestramento con il fucile, di lunghe camminate per recare ordini» <229, Renato, ancora diciassettenne e di aspetto fisico piuttosto minuto, viene giudicato non idoneo a proseguire l’esperienza montanara. «Italiano» accetta la decisione del comando del battaglione, solo dietro la precisa assicurazione di ottenere un nuovo posto di combattimento in città, a fianco dei gappisti bolognesi.
Entrato nei ranghi della 7ª GAP <230 di Bologna, Romagnoli viene destinato alla squadra comandata da «Aldo» Bruno Gualandi <231, insediata nella base di via Crocetta 6. Con il compimento delle prime azioni di sabotaggio contro gli automezzi tedeschi e fascisti, «Italiano» deve, necessariamente, misurarsi con il sentimento della paura: "[…] la paura è l’elemento permanente che accompagna l’uomo in guerra. Chi si pone al di fuori di questo comportamento è un esaltato che non sa valutare il pregio di essere persona pensante e fruire di questo vantaggio per sé e gli altri. […] Al contrario, il coraggio vero era quello di agire nonostante la consapevolezza, il rischio ed i timori interiori facessero da freno alle intenzioni" <232.
Parimenti, l’attuazione di colpi di mano, volti a giustiziare i nemici a sangue freddo, lo costringono a fare i conti con un inevitabile tormento interiore: "Non bastavano la carica ideale, la preparazione militare, la scalata progressiva nell’importanza dei compiti affidati, l’esempio di coloro che «già l’avevano fatto», o il «vederlo fare», perché premere il grilletto di una pistola contro un obiettivo umano prestabilito costava una somma di valutazioni enorme, tale da rendere quell’azione gravosa quanto mai, e implicante una trasformazione psicologica e morale che non poteva non lasciare tracce indelebili in colui che la compiva. […] la prima volta, poi, sembra che qualcosa si rompa dentro, come se si spezzasse una radicata norma di comportamento comune a ogni essere normale, e diviene essenziale la trasformazione degli ideali e delle considerazioni politiche in odio implacabile […] I fucilati, gli impiccati, gli arsi vivi, i torturati, partigiani combattenti o inermi cittadini colpiti dalle infami rappresaglie, rappresentano la molla dell’odio, la spinta ad agire freddamente; il gappista deve colpire con spietatezza il nemico anche se in vita sua nemmeno una mosca ha toccato" <233.
"Ci vuole tirocinio, presa di coscienza, certezza che non ci sia altra strada, fino a giungere al sentimento della “mala pianta” dell’odio per il nemico, per riuscire a premere il grilletto dell’arma che imbracci. […] Di fronte al proprio io che si rifiuta a nulla vale pensare che bisogna uccidere per non essere uccisi, che si porta la morte perché vinca la vita. Il fatto che rimane è quell’arma puntata che sputa fuoco e morte solo se si preme il grilletto e ci vuole tanta forza a cercare nei ricordi dei tuoi morti, nei massacri degli innocenti che il nemico ha compiuto, tanta coscienza del buon diritto, per poter svolgere quella estrema azione, dimenticando in quel momento la propria filosofia della ragione di vita e facendo violenza a se stessi prima che al nemico da colpire" <234.
Su incarico del CUMER, il 9 agosto 1944, «un giorno meraviglioso nella vita della mia brigata e della Resistenza tutta» <235, la 7ª GAP realizza con successo l’assalto alla prigione di San Giovanni in Monte: "Si trattava di riuscire, con uno strattagemma [sic], a farsi aprire il portone del vecchio carcere giudiziario, immobilizzando il corpo di guardia e, in pochi minuti, aprire le celle ridando la libertà ai detenuti politici e anche a tutti gli altri" <236. Questo l’espediente utilizzato per penetrare nel carcere: dei 12 gappisti che partecipano all’azione, 4, compreso Romagnoli, fingono di essere prigionieri, mentre gli altri 8, vestiti da ufficiali tedeschi e fascisti, si fanno schiudere le porte con la scusa di consegnare i catturati.
Il 7 novembre 1944 «Italiano», essendo tra i circa 230 combattenti acquartierati nei locali dell’ospedale Maggiore, nella vana attesa di dar corso alle operazioni pre-insurrezionali in coerenza all’avanzata anglo-americana verso Bologna, si trova coinvolto nella già menzionata battaglia di porta Lame. Questo il punto di vista di lui, gappista semplice, costretto ad assistere per ore all’attacco nemico ai danni della base di via Azzogardino: "La tensione andava crescendo nei gruppi appostati nelle posizioni difensive: i comandanti faticavano a contenere il disagio dei loro uomini per quell’inoperosa attesa. La mancanza di indicazioni prima, il ritardo nel predisporre l’attacco poi, non furono compresi e condivisi; fra tanto nervosismo e impazienza sarebbe bastato un nonnulla e le armi avrebbero incominciato a sparare quasi da sole. Abituati a preparare e a disporre collettivamente il da farsi, mal si conciliava nei gappisti quell’interminabile tempo trascorso ad aspettare decisioni gerarchiche intorno a un avvenimento che li toccava tanto da vicino […]" <237.
Al momento dell’intervento in soccorso degli assediati, ignorando che essi siano già riusciti a sottrarsi alla pressione nemica mediante un ripiegamento andato a buon fine, «Italiano» è nel gruppo incaricato di creare un diversivo: "[…] appena ebbero sparato alcuni colpi per attirare l’attenzione del nemico, vennero investiti da un nutrito fuoco di mitraglia e dovettero mettersi al riparo […] L’obiettivo tattico era comunque stato raggiunto: i fascisti continuarono a sparare nella loro direzione tralasciando di occuparsi dei partigiani che, non visti, penetrarono nella base assediata" <238.
La mattina dell’8 novembre Romagnoli viene inviato in via Zamboni in missione di vigilanza, allo scopo di proteggere la tipografia deputata a stampare l’edizione straordinaria de «L’Unità» clandestina, volta ad informare la cittadinanza e a celebrare la vittoria partigiana a porta Lame. Il ritardo, da parte del comando di brigata, nel predisporre un adeguato piano in materia di reinserimento dei partigiani nelle vecchie strutture di dislocazione operativa, però, costringe numerosi gruppi di reduci della battaglia del 7 novembre a rimanere ammassati pericolosamente nel quartiere della Bolognina, in attesa che venga indicata loro una via d’uscita. Romagnoli e altri 18 gappisti, alloggiati provvisoriamente in un palazzo in piazza dell’Unità, il 15 novembre incappano in un rastrellamento tedesco della zona. L’opera di sganciamento messa in atto riesce solo parzialmente: Renato esce illeso dallo scontro della Bolognina, ma sono 6 i gappisti morti.
Con il rinvio definitivo dell’offensiva finale, sancito dal proclama Alexander <239, le formazioni partigiane bolognesi si vengono a trovare a ridosso della linea del fronte e sono costrette ad agire nel pieno delle retrovie tedesche. L’inverno 1944-1945 rappresenta, dunque, il periodo di maggior crisi operativa della 7ª GAP, falcidiata da gravi vuoti tra le sue file, dovuti alle recenti battaglie sostenute, all’azione repressiva tedesca e fascista, all’allentamento del rigore cospirativo e alla nociva azione di delatori e spie. Per far fronte a quest’ultimo problema, viene istituita una squadra di polizia partigiana, ossia una formazione di 7 gappisti che, insediatasi nella base di via Paolo Costa 14/2 e comandata da «Italiano», inizia ad operare all’inizio di dicembre del 1944. Suo compito primario è ingaggiare una lotta senza quartiere a danno delle spie, mirante a «colpire l’ingranaggio perverso della delazione nelle sue varie espressioni» <240: "Le azioni più complesse e difficili furono quelle il cui obiettivo non poteva essere raggiunto che nelle ore serali, e all’interno delle abitazioni. Mentre nelle ore diurne agivano di regola gruppi di gappisti non superiori a due unità, che si mescolavano facilmente tra la gente che affollava le strade, di sera e durante la notte ci si doveva muovere in formazione, armati al meglio delle possibilità per essere in grado di disporre di un grosso volume di fuoco nell’eventualità di uno scontro con reparti nazifascisti; nelle ore notturne, infine, si doveva svolgere anche il compito di pattugliamento della città, che si voleva mantenere praticamente sotto il controllo dei partigiani, affermando tale diritto con i fatti" <241.
In seguito allo sfondamento, avvenuto il 9 aprile 1945, della linea difensiva tedesca approntata lungo il fiume Senio e alla rapida avanzata alleata verso Bologna, ai gappisti di Romagnoli giunge l’ordine di spostarsi in una stanza di via Fondazza e di attendere disposizioni ulteriori, le quali, però, anche a causa della cattura dell’ufficiale di collegamento Sante Vincenzi <242, tardano ad arrivare. Scesa in strada al mattino del 21 aprile, la squadra di polizia partigiana si trova dinanzi ad una Bologna già evacuata da tedeschi e fascisti, e si imbatte in una pattuglia di soldati alleati: "Ancora gesticolando, risposero che avrebbero fatto da battistrada e mentre i soldati della pattuglia, polacchi si capì dal dire, rimasero fermi, i gappisti andarono avanti con estrema disinvoltura, in un atteggiamento di sicurezza che voleva dimostrare, forzando la realtà conosciuta, come la situazione fosse completamente nelle mani della Resistenza. In tali condizioni, con i polacchi dietro a debita distanza, giunsero nell’attuale Piazza Maggiore, cuore della città, che occuparono simbolicamente, visto che […] non vi era nemmeno l’ombra dell’odiato nemico da affrontare" <243.
Nell’immediato dopoguerra, sulla base dei progetti di immissione dei partigiani nell’esercito e nella polizia come controparte attiva dell’epurazione fascista in seno al settore delle forze armate <244, Renato «si ritrovò poliziotto, inquadrato nei ranghi della P.S.» <245, venendo, però, licenziato nel dicembre 1945 [...]
[NOTE]
211 Romagnoli, Gappista, cit., p. 23.
212 Ibid., p. 20.
213 Ibid., p. 21.
214 Renato Romagnoli, Da balilla a partigiano. Stralci di un diario mai scritto, ANPI, Bologna 2011, pp. 52-53.
215 Ibid., p. 66.
216 Ibid., p. 68.
217 Romagnoli, Gappista, cit., p. 27.
218 Ibid., p. 32.
219 Ivi.
220 Ibid., pp. 32-34.
221 Primo Cavicchi, nato nel 1925. Fu operaio saldatore a Bologna. Fu partigiano a Belluno dal novembre 1943 fino ai primi di maggio del 1945, in Storia e Memoria di Bologna, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
222 Romagnoli, Da balilla a partigiano, cit., p. 100.
223 Ibid., p. 101.
224 Ibid., p. 117.
225 Romagnoli, Gappista, cit., p. 47.
226 Ibid., p. 48.
227 Sirro Fantazzini, nato nel 1900, comunista a partire dal 1921. Subì per molti anni la persecuzione, il carcere e il confino fascista. Nel corso della Resistenza, operò come partigiano sull’Appennino tosco-emiliano, in Storia e
Memoria di Bologna, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
228 Romagnoli, Da balilla a partigiano, cit., p. 126.
229 Romagnoli, Gappista, cit., p. 56.
230 La brigata assunse il nome di 7ª GAP Gianni in seguito alla morte di uno dei suoi membri, Massimo Meliconi, alias «Gianni», avvenuta alla metà di luglio del 1944.
231 Bruno Gualandi, nato nel 1922, militò nella 7ª GAP di Bologna. Prese parte alla battaglia di Porta Lame, come comandante dei 75 uomini concentrati nella palazzina lungo il canale Navile. Fu membro del CUMER, in Storia e Memoria di Bologna, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
232 Renato Romagnoli, La Resistenza a Bologna spiegata agli studenti, ANPI, Milano 2011, pp. 99-100.
233 Romagnoli, Gappista, cit., pp. 84-85.
234 Romagnoli, La Resistenza a Bologna spiegata agli studenti, cit., p. 108.
235 Ibid., p. 85.
236 Romagnoli, Gappista, cit., p. 99.
237 Ibid., pp. 129-130.
238 Ibid., p. 134-135.
239 Il proclama Alexander fu un annuncio pronunciato via radio, in data 13 novembre 1944, dal generale inglese Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia e, di lì a poco, maresciallo e comandante supremo delle forze alleate del Mediterraneo. Rivolgendosi agli aderenti alla Resistenza italiana nell’Italia settentrionale, Alexander richiese la sospensione di ogni operazione organizzata su vasta scala e l’attestazione su posizioni difensive.
240 Renato Romagnoli, Autunno inverno ’44. Repressione nazifascista e polizia partigiana, ANPI, Bologna 2005, p. 44.
241 Romagnoli, Gappista, cit., p. 206.
242 Sante Vincenzi (1895-1945). Comunista, più volte arrestato, scontò anni di carcere e confino. Nel corso della Resistenza, operò nel bolognese. Divenne componente del CUMER, con funzione di ufficiale di collegamento. Inviato presso gli Alleati, cadde in mano fascista e venne ucciso nella notte tra 20 e 21 aprile 1945, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
243 Romagnoli, Autunno inverno ’44, cit., p. 82.
244 Sulla continuità dello Stato, nel corso della transizione dal fascismo alla Repubblica, negli apparati amministrativi, militari e giudiziari, e sulla reale portata della promessa di assorbimento dei partigiani nell’esercito e nella polizia, cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
245 Renato Romagnoli, L’incredibile persecuzione: …e il partigiano scontò la “colpa” d’essersi battuto per la libertà, ANPI, Bologna 1995, p. 17.

Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019