sabato 30 novembre 2024

Decisero di portarsi verso le linee alleate in quel momento in grande movimento

Palena (CH). Foto: Zitumassin. Fonte: Wikipedia

Nella prima decade di dicembre [1943] la banda [Bandiera Rossa] fu costretta a lasciare Palena che a seguito degli incalzanti eventi bellici - l’avanzata dell’8a armata verso Ateleta, l’affluire di un gran numero di forze tedesche impegnate nella difesa delle linee del fronte, ed i pesanti bombardamenti alleati su tutta la zona - fu giudicata troppo rischiosa per un’ulteriore permanenza. Gli uomini della banda si diressero quindi verso nord, prima a Civitella, poi a Palombaro, Guardiagrele e Rapino in cui giunsero il 18 e che abbandonarono subito perché «il movimento tedesco sulla camionabile […] era ingente e costituiva un pericolo tanto che molti contadini della zona si erano allontanati e sparpagliati alle falde della Majella», ed infine Pretoro dove sostarono per 5 giorni <1882. Durante questo periodo di peregrinazioni non mancarono gli avvicendamenti: il giorno 16 il Ciavarella ed il Fatatà decisero di lasciare i compagni per «portarsi verso le linee alleate in quel momento in grande movimento e superando le alture di Ricca Scalegna scesero verso il Sangro all’altezza di Valle Cupa, si portarono verso gli avamposti alleati» <1883, e così in comando dei gruppi passò al Novelli <1884; per contro a Pretoro si unì alla banda il capitano del genio Domenico Passalacqua la cui grande esperienza tecnica «incoraggiò molto gli uomini» <1885. Durante la pur breve sosta a Pretoro, i partigiani non rimasero inattivi: il 20 dicembre uno dei gruppi affrontò in località Sant’Angelo una pattuglia tedesca di razziatori in uno scontro violento che portò al ferimento del partigiano Vittorio La Salandra <1886 e di un soldato tedesco, e «alla morte di due bovi […] nonché la cattura di due giovenchi e di sette sacchi a pelo»; in contemporanea un altro gruppo minò e fece saltare una postazione antiaerea tedesca posta sulla cima di «Torre Di Colle» <1887. Informati di un prossimo rastrellamento tedesco attivato in seguito alle loro azioni, i partigiani sfuggirono alla cattura rifugiandosi a Lettomanoppello, poi a San Valentino e quindi a Roccamorice dove trascorsero il Natale. In quei giorni si procedette ad un nuovo riassetto della banda con la formazione di tre squadre: una con a capo il Novelli stanziata nella zona di San Valentino, un’altra distaccata nell’area di Manoppello alla guida del Passalacqua, e la terza costituita da soli 6 elementi diretta dal Galletti con funzione di raccordo tra le precedenti due <1888. In attesa degli eventi ritenuti di rapida risoluzione <1889 individuarono quale «settore operativo le pendici dei colli che degradavano sulla camionabile Popoli-Pescara» <1890.
Nel mese di gennaio i due gruppi divennero operativi nell’area, alternandovi scontri armati col nemico ad azioni di sabotaggio. Il 10, il gruppo del Novelli si incontrò improvvidamente con due auto cisterne tedesche dirette a Caramanico e nell’impossibilità di nascondere le armi si decise per aprire il fuoco contro i mezzi che esplosero «in modo pauroso»: nell’azione un partigiano e due tedeschi rimasero feriti <1891. Seguirono due azioni di sabotaggio: il 15 da parte della squadra del Passalacqua che danneggiò in contrada Madonna delle Grazie sei baracche approntate dai tedeschi quali depositi di materiale bellico; mentre il 19 il Novelli e i suoi distrussero una linea telefonica provvisoria abbattendone i sostegni, per un raggio di oltre cento metri in contrada Madonna del Monte <1892. Il 21 gennaio, il Galletti e due suoi compagni <1893, di ritorno dal gruppo di San Valentino a cui aveva comunicato «come erano stati predisposti i collegamenti e quali erano le vie più sicure di comunicazione fra i due gruppi», furono sorpresi presso Lettomanoppello da una pattuglia tedesca: ne seguì una fuga rocambolesca con tanto di guado del torrente Lavino, durante la quale uno dei partigiani - l’ex prigioniero «Enrico Ecwith» - fu catturato dai tedeschi «e non si seppe come andò a finire», mentre gli altri due riuscirono a mettersi in salvo <1894. Con notizie via via più confortanti dal fronte <1895, il Novelli decise di mettere a segno un’azione contro un deposito di munizioni e vettovaglie tedesco installato nel pianoro delle Coste di Plaja. Pianificato il colpo con diversi appostamenti, ed organizzati i suoi uomini in un nucleo operativo e uno di copertura, nella notte del 28 gennaio raggiunse il deposito provocandovi un incendio che distrusse due capannoni <1896.
All’alba del 6 febbraio il Passalacqua ed il suo gruppo attaccarono con lancio di bombe a mano un’autocolonna tedesca diretta verso Pescara, sotto il ponte della ferrovia nei pressi della stazione di Manoppello. Il 16 febbraio il gruppo di Novelli sostenne una faticosa marcia sulle montagne del Marrone con l’intento di danneggiare le postazioni di artiglieria antiaerea «site nel versante nord presso le Officine Elettriche di San Martino»: dopo un appostamento durato un giorno entrano in azione posizionando due mine che nella successiva esplosione danneggiarono «due pezzi da 881» <1897.
Intanto il Ciavarella, rientrato a Roma il 12 febbraio per riferire delle sue missioni oltre il fronte al Comando della Bandiera Rossa, venne arrestato in seguito ad un’«oscura macchinazione» il 13 marzo mentre si accingeva a partire per rientrare dai suoi compagni in Abruzzo. Nottetempo arrestato e condotto a via Tasso, fu sottoposto a «sevizie inaudite» ma rimase «fermo e deciso nel suo silenzio [ed] uscì da quel triste luogo» - si legge nella relazione del Novelli - «solo la sera del 24 Marzo, per essere condotto, insieme a tanti altri Eroi, alle Fosse Ardeatine ed essere trucidato».
[NOTE]
1882 Cfr. Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1883 Secondo la dichiarazione di Rossi Costantino, capo della banda Rossi, assente dal carteggio esaminato, attiva «nella zona di Monte Carico e delle Mainarde», il Ciavarella si trattenne nell’area per breve tempo dando «prove di arditezza e di coraggio non comuni e pur sapendo a quali rischi andava incontro, si decise al passaggio [delle linee del fronte], con cosciente e superiore sprezzo del pericolo», ivi, Raggruppamento Bande Bandiera Rossa, dichiarazione di Rossi Costantino del 24 aprile 1949.
1884 Cfr. ivi, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1885 Ibidem.
1886 Secondo la dichiarazione di Novelli Bruno dell’8 gennaio 1949, La Salandra Vittorio, riportò una ferita riportata all’occhio che lo costrinse ad allontanarsi dalle zone operative, dopo aver partecipato «a diverse azioni nelle zone del Sangro, di Palena e di San Valentino», ivi, Raggruppamento Bande Bandiera Rossa. Secondo il Nuccitelli Alvise, il La Salandra si aggregò alla banda della «Vittoria» «presentatoci dalla signora La Sorsa nostra partigiana, addetta al servizio di collegamento», per restarvi solo due mesi e poi aggregarsi con la stessa La Sorsa alla banda del Ciavarella. Ivi, dichiarazione di Nuccetelli Alvise del 6 gennaio 1948. Cfr. ivi, anche dichiarazione di La Sorsa Cordelia e dichiarazione di Daniele Italo. La Salandra Vittorio, nato a Foggia il 3 novembre 1918, caporale, ha svolto attività partigiana nella banda dal 08/09/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1887 Ivi, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1888 Cfr. ibidem.
1889 Secondo la ricostruzione del Novelli, «le notizie che giungevano dal fronte erano quanto mai incoraggianti perché l’8[a] Armata combatteva ormai sulla linea Guardiagrele, Orsogna, Arielli, Villa Grande, Ortona e dal movimento delle forze tedesche e dei furibondi bombardamenti che avvenivano in tutta la zona costiera e sui contrafforti della Maiella, si arguiva che da un giorno all’altro l’8[a] Armata avrebbe raggiunto Pescara riuscendo così a forzare il dispositivo tedesco ed inoltrarsi verso Roma», ibidem.
1890 Ibidem.
1891 Cfr. ibidem.
1892 Cfr. ibidem. Nell’azione restò ferito il Savoca Salvatore. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1893 Il Sarra Gaetano e un ex prigioniero alleato di cui a breve si dirà nel testo.
1894 Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Bandiera Rossa, relazione di Novelli Bruno.
1895 «Da Orsogna giungevano notizie sempre più incoraggianti circa l’avanzata della 8a Armata e l’eco della battaglia si faceva più vicino ed attanagliava con sempre maggiore aggressività il dispositivo della resistenza tedesca che per altro aumentava di giorno in giorno, con l’affluire sulle linee di sempre maggiori forze. I bombardamenti si susseguivano di notte e di giorno e di notte il pericolo per i nostri costretti a vivere alla macchia era maggiore perché i movimenti tedeschi si effettuavano quasi sempre di notte e nei luoghi a volte più impensati», ibidem.
1896 Cfr. ibidem.
1897 Ibidem.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

domenica 17 novembre 2024

La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse


Gianni Cervetti riporta le riflessioni raccolte tra gli operai registrando problemi di orientamento rispetto al rapporto con la violenza e con le forze dell’ordine: "A Bologna, parlando con i compagni e con molte persone presenti alla manifestazione promossa in risposta agli scontri dell’11 marzo, erano evidenti incertezze e dubbi tra gli operai e nelle organizzazioni sindacali. L’atteggiamento poi da assumere nei confronti della polizia e del suo operato era quasi una cartina di tornasole: ci si chiedeva se la polizia deve essere considerata un organo e uno strumento dello Stato democratico o addirittura un nemico da battere, magari non con la violenza, ma con la denuncia della sua estraneità allo Stato democratico" <926. Queste riflessioni ancora presenti all’interno della classe operaia danno in qualche modo la stura delle difficoltà del Pci e della Cgil nel far digerire alla propria base la nuova strategia politica di collaborazione inaugurata dopo le elezioni del 1976. Gli interrogativi espressi sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle forze dell’ordine sono indicative anche della concezione e del retaggio culturale della classe operaia.
L’intervento conclusivo è tenuto da Giorgio Napolitano che esprime le posizioni della segreteria: "La nostra Repubblica va difesa contro chiunque l’attacca e la insidia ed in questa difesa non ci devono essere esitazioni, anche quando la minaccia viene da movimenti e gruppi che si autodefiniscono proletari, rivoluzionari, di ultrasinistra e che però, in sostanza, mirano a colpire ed a travolgere le istituzioni democratiche e che ormai proclamano d’altronde apertamente come loro nemico fondamentale lo schieramento operaio e il Pci" <927.
La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse e l’individuazione precisa dei gruppi violenti isolandoli e contrastandoli. L’obiettivo diventa quello di dividere le diverse formazioni estremiste, aprendo al loro interno delle contraddizioni e provando a recuperarne una parte. Per rispondere alla strategia degli attacchi autonomi contro il Pci nelle scuole e nelle università, il partito decide di costruire un movimento giovanile unitario basato su grandi temi politici come il rifiuto della violenza e dell’intolleranza, l’alleanza tra giovani e movimento operaio.
PCI e CGIL di fronte alla violenza diffusa
In queste concitate settimane Torino è al centro dell’opinione pubblica. La città si prepara al primo processo contro i capi storici delle Br che rifiutano di difendersi. I brigatisti minacciano apertamente gli avvocati che accetteranno il mandato d’ufficio accusandoli di collaborazionismo. Il 4 aprile intanto il tribunale di Bologna respinge le istanze presentate dall’Ordine degli avvocati torinesi, in quanto le minacce subite dai difensori non vengono ritenute gravi, né credibili e quindi non perseguibili. Ma non si tratta di semplici minacce verbali. Nel giro di una settimana si susseguono infatti episodi delittuosi. Il 20 aprile un commando composto da 3 persone spara numerosi colpi di pistola contro Dante Notaristefano, ex segretario della Dc torinese, ma la mira è sbagliata e il dirigente democristiano è illeso <928. Il 22 aprile Antonio Munari, capo officina della Fiat viene invece colpito alle gambe a poche centinaia di metri dalla Fiat Mirafiori. Entrambi gli attentati vengono rivendicati dalle Brigate rosse <929. Ma non è finita. Il 28 aprile, un altro truce e simbolico delitto scuote la città di Torino. Le Br uccidono, nell’androne del suo studio, il presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi Fulvio Croce. Cinque colpi pistola alla testa e al torace spezzano la vita di un uomo la cui colpa è quella di aver designato i difensori d’ufficio dei brigatisti al processo fissato per il 3 maggio <930. La notizia del delitto sconvolge l’intera città e irrompe durante la seduta del Consiglio regionale. Il Presidente Dino Sanlorenzo interrompe i lavori esprimendo durissime parole di condanna: "Esprimiamo la più forte condanna nei confronti di questo nuovo episodio di terrorismo politico nella lunga serie di attentati che hanno colpito Torino. Dall’uccisione del brigadiere Ciotta fino agli attentati contro le sedi di partiti e associazioni, all’aggressione al capo-officina della Fiat e all’esponente democristiano Notaristefano, ben trenta sono gli episodi criminosi avvenuti solo nell’ultimo mese a Torino e in Piemonte. Tutto ciò indica che Torino sta diventando il nuovo epicentro di una forma di terrorismo estremamente pericoloso e preoccupante per la particolare odiosità e vigliaccheria che la contraddistinguono. Essa si rivolge contro i cittadini che altra colpa non hanno se non quella di rivestire cariche pubbliche o di svolgere determinate funzioni" <931. Le forze politiche si appellano alla cittadinanza affinché non si lasci intimorire e chiedono a chi venga chiamato di assolvere con senso civico alle funzione di giudice popolare. Ma la paura di una rappresaglia da parte delle Br è altissima e nei giorni successivi sulla scrivania di Guido Barbaro, presidente della Corte d’Assise, si accumulano pile di certificati medici che chiedono l’esonero per sindrome depressiva. Per il giudice istruttore Gian Carlo Caselli è “la traduzione in termini clinici della paura” <932. A causa dell’impossibilità di comporre il collegio la Corte è costretta a rinviare a tempo indeterminato il processo, mentre la magistratura tenta di dare una risposta compatta al delitto. Il Consiglio superiore della magistratura chiede esplicitamente al governo l’assunzione di un decreto legge sospensivo della custodia cautelare in casi di terrorismo in cui si legge: "I termini massimi della custodia preventiva sono sospesi in caso di impossibilità di regolare svolgimento del giudizio e, nei procedimenti avanti la Corte d’assise, anche in caso di impossibilità di formazione del collegio, sempre che tali impossibilità derivino da fatti di eccezionale gravità ovvero da comportamento dell’imputato o del difensore tendente ad impedire lo svolgimento del giudizio" <933.
La questione relativa all’accettazione o meno delle funzioni di giudice popolare è al centro di un’aspra polemica tra alcuni importanti intellettuali e il Pci. Eugenio Montale, ad esempio, intervistato da «Il Corriere della Sera» risponde: "Se fosse stato estratto il mio nome non credo avrei accettato. Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose, ma non metafisica, né sostanziale" <934.
Alessandro Galante Garrone, magistrato ed ex comandante partigiano, risponde all’intervista di Montale scrivendo di non essere convinto dal catastrofismo del poeta: “la Repubblica non è in agonia e non è irrimediabilmente sconfitta perché attorno ad essa si stringe la grandissima maggioranza degli italiani” <935. Al fianco di Galante Garrone si schiera Italo Calvino sostenendo che “lo Stato consiste soprattutto di cittadini democratici che non si arrendono” <936.
Norberto Bobbio dal canto suo scrive che la ragione lo spinge a ritenere impossibile che la fine della Repubblica possa essere evitata: "Le Br sono riuscite a impedire lo svolgimento del processo di Torino perché si sono dimostrate, rispetto al potere deterrente, che è o dovrebbe essere l’estrema risorsa dello Stato, più credibile dello Stato stesso" <937. Il filosofo prende le distanze dai «fanatici» che vogliono la catastrofe e dai «fatui» che pensano che alla fine tutto si sarebbe accomodato. Ma il pessimismo, è secondo Bobbio un dovere civile perché solo il pessimismo radicale della ragione avrebbe potuto ridestare «qualche fremito» in coloro che non si stavano accorgendo di quanto stava avvenendo. Giorgio Amendola risponde accusando Bobbio di avere una concezione aristocratica della lotta politica. Scrive il dirigente comunista: "Nel paese si manifestano ben più che i fremiti evocati da Bobbio e ogni giorno contro il terrorismo emerge il coraggio politico di chi vuole salvaguardare le conquiste della Resistenza. Preannunciare una sconfitta sicura quando la battaglia è ancora in corso significa, a mio parere, non essere pessimisti, ma semplicemente disfattisti. […] non è il momento di fuggire o di capitolare di fronte al terrorismo. È il momento della più ferma intransigenza per respingere con coraggio il ricatto della violenza. Purtroppo il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana" <938. Anche il giudizio di Giorgio Bocca è molto duro: "A Torino le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura" <939.
Il governo dal canto suo reagisce inasprendo le misure di polizia <940 nel momento stesso in cui risponde negativamente alla richiesta degli agenti di costituire un sindacato all’interno delle tre Confederazioni dopo che migliaia di assemblee hanno deciso le tappe per la nascita dell’organizzazione <941. Netta la presa di posizione in questo senso del commissario Ennio Di Francesco del Coordinamento per il sindacato di polizia che ribadisce la necessità democratica della costituzione di un sindacato libero per gli agenti: "Sindacato di polizia, breve parola che è sintesi sociale di anni di lotte. Come tutti i movimenti di pensiero in termini di riscatto della dignità umana e di democrazia anche questo è passato attraverso inevitabili tappe di dura repressioni, di sottili lusinghe.[…] Ma tutto questo non sarebbe valso a nulla o peggio, in cilena disciplina, non potremmo neppure parlarne oggi se non si fosse realizzata quella sensibilizzazione di voi tutti lavoratori accanto al problema del sindacato di polizia. Così sia pure attraverso momenti di iniziale diffidenza ci siamo incontrati, lavoratori tra i lavoratori, nelle fabbriche, nei quartieri. […] in questo quadro di crescita democratica i poliziotti intendono dire no alla loro utilizzazione quale braccio secolare del potere, da utilizzare nei conflitti sociali, dalla cui comprensione è stato sinora tenuto gelosamente lontano nella gabbia del corpo separato, dà il senso più profondo del perché del sindacato di polizia" <942.
Il sangue è oramai una costante nelle piazze italiane e a Roma conosce in quei mesi di aprile e maggio una nuova fiammata. Il 21 aprile la polizia interviene all’università occupata da alcuni giorni. Gruppi di autonomi sparano e uccidono l’agente Settimio Passamonti <943. Nella notte, accanto alla chiazza di sangue viene lasciato un truce e orrendo messaggio: «qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è «vendicato». È una spirale di odio ormai irreversibile.
[...] Il 20 maggio è Massimo D’Alema a intervenire su «Rinascita» per spingere i gruppi extraparlamentari a prendere le distanze dagli autonomi: "Non è più possibile sostenere che, stando a fianco a chi è armato con una P38, non è facile rendersi conto se si tratta di un autonomo o di un agente provocatore. Finalmente si comincia a sgomberare il campo da stupidaggini irresponsabili tipo compagni che sbagliano o da fumose giustificazioni sociologiche della violenza. […] la posizione diffusa in molti gruppi e militanti della sinistra di non sentire la democrazia, questa democrazia italiana, come cosa propria, ha radici profonde nel rifiuto di ogni democrazia organizzata. […] gli autonomi sono una banda squadristica dai torbidi collegamenti e vanno combattuti e isolati" <950.
Nel stesso tempo le Br allargano il campo dello scontro contro lo Stato lanciando una campagna di azioni contro la stampa e colpendo quei giornalisti che a loro giudizio hanno contribuito a dare una visione fuorviante e mistificatoria del brigatismo. Il primo giornalista a essere colpito in tale ottica è il vicedirettore de «Il Secolo XIX» di Genova, Vittorio Bruno, ferito alle gambe il 1° giugno 1977. Il giorno dopo è la volta del direttore de «Il Giornale» Indro Montanelli, mentre il 3 giugno a Roma viene colpito Emilio Rossi, direttore del telegiornale del primo canale. Nel volantino di rivendicazione di quest’ultima azione le Br spiegano come nell’ambito di quella campagna ancora non hanno sparato per uccidere ma ciò non significa non essere pronte a farlo. Con l’attentato a Rossi si conclude la prima parte della campagna contro la stampa che riprenderà in autunno.
[...] La replica di Berlinguer arriva il giorno dopo con una lunga lettera su «La Stampa» in cui il segretario del Pci spiega di aver parlato di «nuovo squadrismo» e di «nuovi fascisti» riferendosi solo ai gruppi autonomi armati, in relazione alle violenze di questi ultimi: "Coloro che con l’etichetta dell’autonomia scatenano le aggressioni, le violenze, le devastazioni più cieche e gratuite usando armi proprie e improprie; coloro che dichiarano di voler agire come partito armato contro ogni istituzione della nostra società civile; coloro che programmaticamente scelgono come bersaglio dei loro attacchi teppistici e delle loro azioni criminali il movimento operaio organizzato e quindi anche il Pci, i suoi dirigenti, i suoi militanti, i suoi giornalisti; coloro che non esitano a imporre la loro prevaricazione persino a chi da essi dissente nell’area dell’estremismo; ebbene, costoro non possono rappresentare una corrente con cui, fosse pure da distanze abissali, sia possibile tentare di stabilire un dialogo. Con tutti gli altri sì" <959.
A Bologna, durante la tre giorni organizzata dalla sinistra extraparlamentare, va in scena un duro confronto fra i leader dell’Autonomia, intenzionati a rovesciare la logica legalitarie di alcune componenti studentesche per trasformare il convegno in un momento di lotta contro le istituzioni democratiche, e i militanti di Lotta continua che invece sono intenzionati a denunciare la repressione dello Stato restando quindi nella logica tematica del convegno. È questo l’ultimo confronto pubblico e di massa, prima delle definitive derive e disgregazioni <960. Uno degli effetti del convegno è infatti la dimostrazione che le distanze fra le due parti sono ormai divenute insanabili.
[NOTE]
926 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Cervetti, p. 332.
927 Ivi, Intervento di Napolitano, p. 361.
928 Due giovani e una donna sparano otto colpi di rivoltella contro l’ex segretario della Dc, in «La Stampa», 21 aprile 1977.
929 Le Br feriscono un capofficina Fiat con otto colpi di pistola alle gambe, in «La Stampa», 23 aprile 1977.
930 Assassinato il presidente degli avvocati di Torino: sono state le Brigate rosse?, in «La Stampa», 29 aprile 1977.
931 Il discorso del Presidente del Consiglio regionale del Piemonte Dino Sanlorenzo del 28 aprile 1977 è in Una Regione contro il terrorismo, cit., p. 60.
932 G. Caselli, D. Valentini, Anni spietati. Torino racconta violenza e terrorismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 81.
933 Il testo del decreto legge proposto dal Consiglio superiore della magistratura è riportato in E. R. Papa, Il processo alle Brigate rosse: Brigate rosse e difesa d’ufficio: documenti (Torino, 17 maggio 1976 -23 giugno 1978), Torino,
Giappichelli Editori, 1979, p. 43.
934 Intervista ad Eugenio Montale, in «Il Corriere della Sera», 3 maggio 1977.
935 A. Galante Garrone, Il coraggio di essere giusti, in «La Stampa», 8 maggio 1977.
936 I. Calvino, Al di là della paura, in «Il Corriere della Sera», 11 maggio 1977.
937 N. Bobbio, Il dovere di essere pessimisti, in La Stampa, 15 maggio 1977.
938 Intervista a Giorgio Amendola in «L’Espresso», 5 giugno 1977.
939 G. Bocca, A Torino vince la paura. Mancano i giudici: rinviato il processo delle Br, in «la Repubblica», 4 maggio 1977.
940 Proteste dei partiti e precisazioni del governo. La polizia sparerà solo per legittima difesa, in «la Repubblica», 24 aprile 1977; Misure di polizia. Intercettazioni telefoniche, fermo preventivo e carceri più severe, in «la Repubblica», 5 maggio 1977.
941 L’intervento di Fedeli al Consiglio sindacale, in «la Repubblica», 9 gennaio 1977; Il progetto Dc nega agli agenti il sindacato libero, in «la Repubblica», 6 aprile 1977; «Ordine pubblico», ottobre 1977.
942 As Cgil nazionale, Problemi pubblica sicurezza. Sindacato polizia. Realizzare il sindacato di polizia nell’interesse del paese. Intervento di Ennio Di Francesco al Congresso confederale della Cgil, 16 giugno 1977, fascicolo 19, b. 29.
943 Un agente assassinato, in «la Repubblica», 22 aprile 1977.
950 M. D’Alema, Liberare il movimento dall’infezione della violenza, in «Rinascita», 20 maggio 1977.
959 E. Berlinguer, Chi sono i nuovi fascisti, in «La Stampa», 23 settembre 1977; Cfr., anche E. Berlinguer, Con chi non è possibile dialogare, in «l’Unità», 23 settembre 1977.
960 G. Bocca, Un fatto inedito nella vita politica del paese, in «la Repubblica», 27 settembre 1977.
Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017

giovedì 7 novembre 2024

La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale Emilia si realizzò il 20 aprile

Mirandola (MO), Piazza della Costituente. Foto: Boardvital111. Fonte: Wikipedia

Nella mattinata del 22 aprile 1945 le avanguardie della Brigata «Remo» entrarono in azione contro le retroguardie tedesche in ritirata. Mirandola fu così liberata definitivamente domenica 22 aprile come risulta dalla relazione del Comando Piazza di Mirandola che riproduciamo integralmente, anche se ci pare lecito avanzare in nota alcune riserve: «Il 1° Battaglione patrioti operante nella zona di Mirandola, il 22 aprile 1945, all'approssimarsi delle truppe alleate, sotto la guida della nota missione inglese, serrava le file e prima dello scadere della mezzanotte raggiungeva a piccoli gruppi questa città, deciso di strapparla al nemico per evitarne la distruzione. Durante la marcia di avvicinamento a Mirandola uno di tali gruppi catturava 3 agenti della Questura repubblicana fascista che furono prontamente eliminati. Alla periferia della città le nostre avanguardie si scontravano con reparti fascisti in ritirata che venivano subito agganciati in combattimenti; ma, data la preponderanza numerica del nemico, le nostre pattuglie, dopo breve sparatoria, si sganciavano dall'avversario ripiegando in posizione più favorevole e attendendo il grosso del Battaglione. «Poco dopo l'intero Battaglione entrò in città stessa costituendo posti di blocco nei punti periferici di maggior traffico. Il nemico, impegnato ripetutamente in duri combattimenti, veniva scacciato prima dalla città e poscia ostacolato nella sua ritirata; i nostri reparti, costituendo i posti di blocco, infatti, attaccavano coraggiosamente le colonne in ritirata falciandole e disperdendole. Numerosi attacchi nemici furono respinti e la città venne tenuta fino all'arrivo degli Alleati sebbene bersaglio di un bombardamento durato molte ore» (11). La relazione prosegue elencando le azioni di rastrellamento compiuto nella notte fra il 22 e il 23 e nella giornata del lunedì, nel corso delle quali caddero i partigiani «Hans» (un soldato tedesco passato alla Resistenza) ed Erminio Ori di Mirandola.
Se questa relazione compresa nel "Diario storico della Brigata «Remo»" suscita alcune perplessità, altre e ben più serie ne propone la versione dei fatti (piuttosto discordante dalla prima) quale ci viene fornita da una relazione stesa in data imprecisata da alcuni componenti del nucleo mirandolese del Partito d'Azione: a meno che essa - pagando un debito evidente a quel patriottismo di partito al quale abbiamo accennato - non intenda riferire, amplificandone all'estremo il significato, uno dei tanti episodi attraverso i quali si operò la liberazione di Mirandola (12).
Anche nel Finalese si accese in quei giorni intensa la lotta armata, - e non solo nella zona di Massa, in cui la Resistenza sia pure con alterne vicende era stata tuttavia abbastanza costantemente presente come abbiamo ricordato fin dall'autunno-inverno del '43-44, bensì anche da parte delle forze che anche dopo l'esodo verso la montagna di parecchi giovani militanti (a proposito del quale già s'è detto avanti) continuarono a mantenere una sia pur debole e scarsamente attiva struttura organizzata della Resistenza nel centro urbano di Finale Emilia e che dovettero pagare col sacrificio più duro da esse tributato alla lotta di liberazione - cioè con la morte dei partigiani Edoardo Banzi e Giustino Veronesi - questo estremo e pure anch'esso importante sussulto di ribellione contro fascisti e tedeschi (13). La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale si realizzò il 20 aprile, allorchè di fronte all'evidente precipitare degli avvenimenti le varie squadre armate furono comandate di prendere posizione nei loro posti di combattimento, già in precedenza indicati tenendo conto di quelle che potevano essere le località da tenere sotto controllo. Comandati da Albino Superbi e da Luigi Battaglioli, una trentina circa di partigiani armati del Battaglione «Omero» si dislocarono pertanto nelle zone che fronteggiavano il Panaro, soprattutto nelle vicinanze immediate del centro urbano, avendo due obiettivi: anzitutto ostacolare per quanto fosse possibile la ritirata dei tedeschi e, seminando fra questi il panico con attacchi improvvisi e imboscate micidiali, trasformare una ritirata più o meno ordinata in una vera e propria fuga; in secondo luogo impedire o almeno ridurre al minimo la devastazione di Finale e la perdita di vite umane fra i civili. A tal fine nella notte sul 22 fu dato fuoco al ponte di legno che i tedeschi avevano gettato sul fiume, impedendo in tal modo che colonne nemiche potessero affluire a rinforzo dei reparti che già stanziavano nella città (14).
Per tutta la giornata del 22 aprile, mentre le armate alleate incalzavano le truppe tedesche dalla pianura bolognese fino verso la sponda meridionale del Panaro, fra l'altro sparando numerosi colpi di artiglieria nella zona a nord del fiume (ciò che rendeva ancor più pericolose le operazioni partigiane, sottoposte ad una duplice insidia) la Resistenza armata continuò nel Finalese la sua azione di disturbo contro le preponderanti forze tedesche, nel corso della quale cadde in località Mulino di Massa il partigiano Giustino Veronesi; infine la mattina del 23, alle ore 11, dopo che il grosso dei tedeschi si era ormai ritirato e mentre le forze partigiane tentavano di stabilire un contatto con gli alleati (15), fu data la disposizione di issare ovunque bandiera bianca onde evitare che il paese fosse fatto segno di ulteriori attacchi da parte delle artiglierie e dell'aviazione americana. Alcuni gruppi isolati di retroguardia della Wehrmacht tentarono di reagire a questo colpo di mano e cercarono di strappare i drappi bianchi issati sulle case, ma in generale il nemico percepì anche da questo gesto di una intera popolazione, un gesto ad un tempo di difesa e di sfida, che la partita anche a Finale era perduta, e si mise in rotta opponendo tuttavia ancora qua e là una sporadica resistenza che costrinse i partigiani ad assaltare un carro armato e a snidare alcune postazioni di mitragliatrici (16).
All'imbrunire del 23 aprile finalmente le truppe americane varcavano il Panaro e anche Finale Emilia poteva cominciare a vivere le sue prime ore di libertà.
[NOTE]
(11) Abbiamo tenuto ovviamente presente - per l'implicita autorevolezza che deriva dalla sua ufficialità - questa relazione del Comando Piazza di Mirandola: essa ci appare tuttavia assai lacunosa, approssimativa e in certi punti addirittura scarsamente attendibile: ad esempio, non si riesce da essa a capire se lo «scadere della mezzanotte» si riferisca alla notte fra il 21 e il 22 aprile, come altre fonti sostengono, oppure alla notte fra il 22 e il 23 aprile come parrebbe di dover dedurre a prima lettura del testo; e ancor più problematica diventa l'attendibilità del documento allorchè si afferma addirittura che il battaglione «Pecorari» procedette all'occupazione di Mirandola «sotto la guida della nota (sic!) missione inglese»: è infatti ben accertato e documentato da centinaia di testimonianze che i rapporti fra le forze partigiane e le missioni alleate furono sì di collaborazione assai stretta, anche se talvolta increspata da reciproche «diffidenze» politiche, ma non certo di subordinazione o di rinuncia alla loro autonomia da parte delle formazioni patriottiche che invece seguirono sempre la corretta linea gerarchica di dipendenza dai comandi militari della Resistenza.
(12) Riproduciamo qui intanto il testo della relazione (conservata con numero di protocollo 369 presso l'Archivio I.S.R.M. deposito Borsari, cart. C/2), al quale ci pare comunque necessario far seguire una nota critica circa la sua attendibilità. «Il 22 aprile 1945 al Comando Piazza alle ore 13,45 Cocchi Giuseppe, capo della squadra del Partito d'Azione si assunse l'incarico di raccogliere quanti più uomini possibili per prendere alle ore 18 possesso della caserma GNR perchè, secondo i patti di resa, a quell'ora i militi avrebbero dovuto consegnare le armi e allontanarsi in borghese. Alle 14 Cocchi e Pozzetti Bruno in perlustrazione davanti alla caserma suddetta, constatando che solo pochi militi erano ancora presenti, decisero di prenderne immediatamente possesso e invitarono la popolazione ad armarsi con le armi ex repubblichine. Venne sull'istante costituito un nucleo di armati che man mano ingrossò le file al numero di una quarantina. La caserma venne tenuta pur sotto le minacce di un cannoncino e di due autoblinde tedesche. Senonchè per ragioni di sicurezza viene dato ordine a Castellini di trasferirsi con parte di armi ed armati in un cortile del centro cittadino. Alle ore 18,30 Mirandola si può dire praticamente nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione. Alle 22,30 il Comando Piazza prese il comando diretto del gruppo che venne organizzato in tre squadre e una pattuglia di collegamento. Capo pattuglia fu uno del Partito d'Azione, Castellini, che guidò il gruppo fino all'indomani, giorno dell'arrivo delle truppe alleate». Anche per spiegare le ragioni dei nostri interrogativi sull'attendibilità del documento, vogliamo soffermarci solo su due evidentissime inesattezze: in primo luogo si parla di una «squadra del Partito d'Azione» comandata da Giuseppe Cocchi, mentre è del tutto accertato che tranne che nei primissimi tempi della lotta di liberazione nella Bassa modenese non esistevano affatto formazioni «di partito» (nè del P.d'A, nè del P.C.I., nè di alcun altro partito antifascista) ma tutte le forze partigiane erano organizzate in una formazione unitaria: nella fattispecie, le forze militari della Resistenza operanti nella Bassa erano tutte inquadrate nella Brigata «Remo». In secondo luogo, il documento afferma testualmente: «Mirandola si può dire praticamente è nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione»! A parte il fatto che - per motivi richiamati altrove - il nucleo mirandolese del P.d'A. aveva perduto la più gran parte della sua consistenza già nella primavera-estate del 1944, vien da chiedersi: dove erano allora e cosa facevano in quelle ore cruciali il C.L.N., il Comando di Piazza, il Comando del battaglione «Pecorari», e infine il Comando della Brigata?
(13) Dobbiamo a questo punto «fare i conti» e ancora una volta criticamente con un documento già altrove ricordato, una relazione sull'attività svolta dal distaccamento del battaglione «Omero» dislocato a Finale Emilia, stesa il 21 maggio dal capitano Gaetano Salvi che firma come «comandante del distaccamento». Il documento è nell'Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5). Questo scritto rappresenta in qualche modo una testimonianza da cui non si può prescindere, stante la grave povertà di altre fonti dirette, e tuttavia non può essere preso in considerazione se non con grande cautela tenendo conto della qua e là trasparente e al limite persino ingenua finalità di autoincensamento da parte dell'autore, inteso sì a ricostruire i fatti ma soprattutto ad esaltare oltre misura il ruolo ch'egli effettivamente svolse in quelle vicende. Ad assumere questa posizione in parte dubitativa ci induce anche il rapporto fra le cose scritte dal Salvi e le testimonianze orali che si son potute raccogliere nell'autunno del 1973 da uomini - quali Albino Superbi «Allegro» (commissario del distaccamento) e Luigi Battaglioli - che furono indubitabilmente reali protagonisti della Resistenza nel centro di Finale fin dal settembre '43.
(14) «Relazione del movimento partigiano di Finale Emilia». (Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5).
(15) Secondo la relazione Salvi citata, fu lo stesso Salvi a stabilire questo collegamento: «Alle ore 14 dello stesso giorno, il Comandante dei Partigiani Cap. Salvi, sotto il fuoco rabbioso degli ultimi centri tedeschi riuscì a mettersi in contatto con gli Americani»; i già ricordati Albino Superbi e Luigi Battaglioli hanno da parte loro dichiarato di essere riusciti essi stessi a raggiungere le truppe alleate avanzate e ad informare queste del fatto che il centro di Finale era ormai stato evacuato dal nemico, ciò che risparmiò una prevedibile azione distruggitrice da parte degli alleati.
(16) Si veda la citata «relazione Salvi». Fu nel corso di queste operazioni che cadde il partigiano Edoardo Banzi e furono feriti i partigiani Ermes Caselli (al quale dovette esser amputata una gamba) e Ferruccio Pignatti.
F. Canova - O. Gelmini - A.Mattioli, Lotta di liberazione nella Bassa Modenese, a cura dell'A.N.P.I di Modena, 1974