Si sta aprendo [maggio 1945] infatti già un altro terreno per lo scontro sociale che, accanto alla questione del dualismo di potere, riempirà i contenuti della politica del conflitto in questo periodo: quello dei criteri della Ricostruzione, nei termini dei soggetti sociali che dovranno guidarla e di quelli che dovranno invece fare i sacrifici necessari. Passato infatti il periodo iniziale in cui il padronato sostanzialmente ignora la presenza degli organismi dei lavoratori, già da giugno si avviano a livello centrale e periferico contrattazioni e accordi che mirano a neutralizzarne il peso politico acquisito, riequilibrandolo a favore degli imprenditori. Dal 2 giugno i CLN sono stati depotenziati e trasformati in organismi puramente consultivi, senza alcun potere effettivo.
Tuttavia nei mesi successivi lo spontaneismo e l’organizzazione autonoma nei luoghi di lavoro, prodotti dai venti mesi della Resistenza, continuano a dimostrarsi centrali nel contesto meneghino, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro. Fatta eccezione per la FIOM, dove la maggior forza dei metallurgici e la loro lunga tradizione politica permette una rapida riorganizzazione, gli altri settori formano spontaneamente decine di Comitati di iniziativa sui luoghi di lavoro, premessa alle strutture di categoria sindacale: nel solo mese di maggio si registrano, nelle poche fonti (principalmente l’Unità) attente ad osservare il
fenomeno, la fondazione di Comitati di iniziativa dei tipografi e dei librai, Comitati per la creazione di un sindacato degli idraulici e degli elettricisti, parrucchieri, autisti e persino compositori di musica leggera; a metà mese si ricostituisce anche la Federterra (sebbene questa, come vedremo, conosce uno sviluppo complesso nel milanese), mentre successivamente nascono Comitati di iniziativa presso tessili, chimici, edili, lavoratori del marmo e alimentaristi, sarti, orafi e argentieri, lavoratori della scuola privata e dipendenti pubblici. A giugno nascono i Comitati per la ricostruzione sindacale dei dipendenti degli uffici finanziari, del settore alberghiero, degli addetti allo spettacolo postatelegrafi. <328
La ricostruzione sindacale a Milano inizia dunque all’esterno della Camera del Lavoro, per poi successivamente affiliarsi ad essa. È un processo che esprime quella volontà di far da sé propria della tradizione operaista e che ricorda, osservandola da vicino nelle categorie che per prime danno vita ai Comitati di iniziativa (metallurgici e tipografi), la nascita delle prime società di mutuo soccorso e resistenza. Il vertice camerale, rappresentato in questo momento dal comunista Giuseppe Invernizzi, nonostante la ferrea logica centralizzata, accetta senza intromissioni questa riorganizzazione spontanea che supplisce alla mancanza di quadri e alle insufficienze strutturali dell’immediato dopoguerra. Nota Torre Santos: "Il risultato in ogni modo era una struttura relativamente improvvisata, adattata alla realtà delle singole categorie - e dunque anche all’eredità della clandestinità sulle stesse -, che sarebbe comune ad altre realtà del Nord". <329 Peculiarità già notata a suo tempo da Invernizzi: "Le forme di organizzazione seguite a Milano non sono evidentemente quelle di tutta l’Alta Italia. È a nostra conoscenza che in altre province si sono trovate altre soluzioni ai problemi organizzativi". <330 Al tempo stesso, sono le Commissioni Interne già operanti durante la guerra a svolgere il ruolo che più tardi assumeranno le federazioni di categoria, parallelamente a una funzione di riequilibrio di potere: "L’immediata costituzione fin dai giorni successivi alla Liberazione impone loro l’onere di formulare autonomamente le nuove regole del gioco sindacale all’interno dell’azienda, senza poter fare affidamento su un sistema di contrattazione esterno o su altri punti di riferimento normativi o istituzionali, contando così solo sui rapporti di forza che si trovano ad esprimere. […] Con l’acquisita libertà di organizzarsi, dopo il 25 aprile, la centralità delle commissioni interne si esplicita pienamente: esse si caratterizzano anche come organismi a stretto contatto con i lavoratori, capaci di intervenire sui mille problemi che emergono dalla vita quotidiana di fabbrica". <331
La situazione disastrosa dell’economia, la grande miseria delle classi subalterne urbane e rurali alla fine della guerra, fanno sì che la questione della sopravvivenza resti uno dei temi centrali di continuità nel conflitto sociale anche nel dopo-Resistenza. Questione che in questi primi tempi si cerca di risolvere autonomamente, con un’organizzazione precipua in ogni fabbrica, ma ispirata dai medesimi principi di autosufficienza; in questo la figura del collettore sindacale (spesso coincidente con il collettore di partito, intendendo qui il PCI, l’unico che avesse nella sua tradizione culturale-organizzativa l’esperienza delle cellule), come agente di raccolta delle necessità dei lavoratori e loro rappresentante di fronte al proprietario, è peculiare della cultura operaia presente nelle fabbriche lombarde (in particolare di Milano, Brescia e rispettive province). Così Angelo Fumagalli, classe 1912, nel direttivo della FIOM milanese e operaio della Ercole Marelli di Sesto, ricorda i motivi alla base degli scioperi del dopoguerra: "Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Prima le indennità, disagio, fatica, calore. L’indennità di presenza l’avevamo già conquistata durante la guerra, e da lì era cominciato il discorso. Poi il cottimo, che in alcuni casi superava anche di due volte la paga base. Ma il cottimo, per [gli ultimi] arrivati, non giocava molto: ci voleva del tempo per raggiungere un certo tetto. Allora sotto col passaggio di categoria, gran battaglia per la riqualificazione generale. […] Si era usciti dalla guerra con la fame, una fame vecchia. […] Si esce dalla guerra e il problema non cambia: fame era e fame resta. La prima grossa battaglia è stata quella della mensa, e non è stato facile spuntarla. […] Dopo la guerra erano i bisogni elementari quelli che urgevano. Allora il modo di vivere era semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti". <332
Battaglia per i bisogni elementari dunque, alimentazione su tutto, contro la disoccupazione e per condizioni di lavoro migliori, come ad esempio avviene a Lodi dove i lavoratori industriali dichiarano uno sciopero a tempo indeterminato il cui motivo è la mancanza di generi alimentari. Ma sono vertenze dove molto forte è anche il contenuto politico, legati alla defascistizzazione dei luoghi di lavoro. Da fine maggio ad agosto la città è attraversata da intense ed estese agitazioni sociali, non solo degli operai di fabbrica, ma anche di massaie e impiegati pubblici. Il picco viene raggiunto a metà giugno, quando una grande ondata di conflitti coinvolge tutta la Lombardia e in particolare gli stabilimenti milanesi: si sciopera contro la mancata condanna a morte del dirigente fascista Carlo Emanuele Basile, ma anche per chiedere parità tra salario e costo della vita, calmiere sui prezzi, controllo dei lavoratori su costi di vita e borsa nera, inquadramento dei partigiani nelle forze di polizia. Appare uno strettissimo nesso tra l’epurazione (dei fascisti, identificati con gli affamatori del popolo) e la ricostruzione economica, basata sul principio dell’autodeterminazione dei lavoratori.
I conflitti di maggio e soprattutto giugno appaiono ancora difficilmente controllabili dalla Camera del Lavoro: per due volte i vertici camerali diramano comunicati in cui invitano i lavoratori a cessare lo sciopero (divenuto quasi generale ed esteso dal capoluogo alla provincia), senza ottenere alcun risultato. "L’azione della Camera del lavoro tenterà di trasformare la spinta dei lavoratori in miglioramenti concreti, che rafforzino sia il ruolo del sindacato tra le sue basi sia la sua forza contrattuale verso la controparte imprenditoriale. Tale impostazione aveva però bisogno di una premessa fondamentale: il sindacato doveva diventare l’interlocutore unico e in questo senso doveva dimostrare la sua capacità di riuscire a controllare il conflitto. E ciò non era semplice nel giugno 1945; il 19 giugno, la Camera del lavoro di Milano invita i lavoratori alla cessazione degli scioperi […]. L’appello non ottiene i risultati previsti, anzi, il 20 giugno è una giornata di forte conflittualità. […] La Camera del lavoro di Milano emette un nuovo appello per la cessazione dei conflitti che per la seconda volta non riesce a fermare un’ondata di scioperi che invece si estende alle province limitrofe […]". <333
I vertici camerali, formati in questo momento da esponenti del mondo operaio (soprattutto nelle sue componenti comunista e socialista), riescono a ottenere importanti risultati e grande credito nella base altamente instabile: accordi sullo sblocco salariale e sul controllo dei prezzi, attraverso la creazione dei Consigli di gestione e il temporaneo rafforzamento dei Cln aziendali; il cosiddetto "Accordo di Milano" siglato in doppia ripresa il 29 maggio e il 23 giugno, da Camera del Lavoro e Unione Industriali, sull’indennità di contingenza. I successi ottenuti causano paradossalmente alta instabilità nelle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro meneghina, a causa soprattutto della prevista divisione in tre zone della provincia di Milano per l’applicazione dell’indennità: le Camere succursali e le ramificazioni periferiche chiedono parità di trattamento e attuazione immediata del programma; la protesta è spia di un contesto non ancora centralizzato e anzi dove le spinte all’autonomia sono molto forti, soprattutto nei confronti del vertice milanese, oggetto della protesta assieme agli industriali: "Catalizzatori delle proteste saranno le commissioni interne, che in questo modo mostrano nuovamente il loro carattere di contropotere nei confronti della Camera del lavoro e la loro vicinanza alla base, espressa in numerose assemblee. Dalle fabbriche, il malessere si estende alle strutture sindacali, in particolare alle Camere del lavoro succursali più importanti, che criticano aspramente l’accordo". <334
[NOTE]
328 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., pp. 49-51
329 Ibidem, p. 52
330 G. Invernizzi, Proposta di una alleanza del lavoro, p. 27, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 52
331 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, pp. 64-65, Ediesse 1999
332 G. Manzini, Una vita operaia, pp. 77-78, Archivio del Lavoro 2007
333 J. Torre Santos, op. cit., pp. 77-78
334 Ibidem, p. 80
Elio Catania, Il conflitto sociale: "motore della Storia" o "tabù" storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017
Tuttavia nei mesi successivi lo spontaneismo e l’organizzazione autonoma nei luoghi di lavoro, prodotti dai venti mesi della Resistenza, continuano a dimostrarsi centrali nel contesto meneghino, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro. Fatta eccezione per la FIOM, dove la maggior forza dei metallurgici e la loro lunga tradizione politica permette una rapida riorganizzazione, gli altri settori formano spontaneamente decine di Comitati di iniziativa sui luoghi di lavoro, premessa alle strutture di categoria sindacale: nel solo mese di maggio si registrano, nelle poche fonti (principalmente l’Unità) attente ad osservare il
fenomeno, la fondazione di Comitati di iniziativa dei tipografi e dei librai, Comitati per la creazione di un sindacato degli idraulici e degli elettricisti, parrucchieri, autisti e persino compositori di musica leggera; a metà mese si ricostituisce anche la Federterra (sebbene questa, come vedremo, conosce uno sviluppo complesso nel milanese), mentre successivamente nascono Comitati di iniziativa presso tessili, chimici, edili, lavoratori del marmo e alimentaristi, sarti, orafi e argentieri, lavoratori della scuola privata e dipendenti pubblici. A giugno nascono i Comitati per la ricostruzione sindacale dei dipendenti degli uffici finanziari, del settore alberghiero, degli addetti allo spettacolo postatelegrafi. <328
La ricostruzione sindacale a Milano inizia dunque all’esterno della Camera del Lavoro, per poi successivamente affiliarsi ad essa. È un processo che esprime quella volontà di far da sé propria della tradizione operaista e che ricorda, osservandola da vicino nelle categorie che per prime danno vita ai Comitati di iniziativa (metallurgici e tipografi), la nascita delle prime società di mutuo soccorso e resistenza. Il vertice camerale, rappresentato in questo momento dal comunista Giuseppe Invernizzi, nonostante la ferrea logica centralizzata, accetta senza intromissioni questa riorganizzazione spontanea che supplisce alla mancanza di quadri e alle insufficienze strutturali dell’immediato dopoguerra. Nota Torre Santos: "Il risultato in ogni modo era una struttura relativamente improvvisata, adattata alla realtà delle singole categorie - e dunque anche all’eredità della clandestinità sulle stesse -, che sarebbe comune ad altre realtà del Nord". <329 Peculiarità già notata a suo tempo da Invernizzi: "Le forme di organizzazione seguite a Milano non sono evidentemente quelle di tutta l’Alta Italia. È a nostra conoscenza che in altre province si sono trovate altre soluzioni ai problemi organizzativi". <330 Al tempo stesso, sono le Commissioni Interne già operanti durante la guerra a svolgere il ruolo che più tardi assumeranno le federazioni di categoria, parallelamente a una funzione di riequilibrio di potere: "L’immediata costituzione fin dai giorni successivi alla Liberazione impone loro l’onere di formulare autonomamente le nuove regole del gioco sindacale all’interno dell’azienda, senza poter fare affidamento su un sistema di contrattazione esterno o su altri punti di riferimento normativi o istituzionali, contando così solo sui rapporti di forza che si trovano ad esprimere. […] Con l’acquisita libertà di organizzarsi, dopo il 25 aprile, la centralità delle commissioni interne si esplicita pienamente: esse si caratterizzano anche come organismi a stretto contatto con i lavoratori, capaci di intervenire sui mille problemi che emergono dalla vita quotidiana di fabbrica". <331
La situazione disastrosa dell’economia, la grande miseria delle classi subalterne urbane e rurali alla fine della guerra, fanno sì che la questione della sopravvivenza resti uno dei temi centrali di continuità nel conflitto sociale anche nel dopo-Resistenza. Questione che in questi primi tempi si cerca di risolvere autonomamente, con un’organizzazione precipua in ogni fabbrica, ma ispirata dai medesimi principi di autosufficienza; in questo la figura del collettore sindacale (spesso coincidente con il collettore di partito, intendendo qui il PCI, l’unico che avesse nella sua tradizione culturale-organizzativa l’esperienza delle cellule), come agente di raccolta delle necessità dei lavoratori e loro rappresentante di fronte al proprietario, è peculiare della cultura operaia presente nelle fabbriche lombarde (in particolare di Milano, Brescia e rispettive province). Così Angelo Fumagalli, classe 1912, nel direttivo della FIOM milanese e operaio della Ercole Marelli di Sesto, ricorda i motivi alla base degli scioperi del dopoguerra: "Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Prima le indennità, disagio, fatica, calore. L’indennità di presenza l’avevamo già conquistata durante la guerra, e da lì era cominciato il discorso. Poi il cottimo, che in alcuni casi superava anche di due volte la paga base. Ma il cottimo, per [gli ultimi] arrivati, non giocava molto: ci voleva del tempo per raggiungere un certo tetto. Allora sotto col passaggio di categoria, gran battaglia per la riqualificazione generale. […] Si era usciti dalla guerra con la fame, una fame vecchia. […] Si esce dalla guerra e il problema non cambia: fame era e fame resta. La prima grossa battaglia è stata quella della mensa, e non è stato facile spuntarla. […] Dopo la guerra erano i bisogni elementari quelli che urgevano. Allora il modo di vivere era semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti". <332
Battaglia per i bisogni elementari dunque, alimentazione su tutto, contro la disoccupazione e per condizioni di lavoro migliori, come ad esempio avviene a Lodi dove i lavoratori industriali dichiarano uno sciopero a tempo indeterminato il cui motivo è la mancanza di generi alimentari. Ma sono vertenze dove molto forte è anche il contenuto politico, legati alla defascistizzazione dei luoghi di lavoro. Da fine maggio ad agosto la città è attraversata da intense ed estese agitazioni sociali, non solo degli operai di fabbrica, ma anche di massaie e impiegati pubblici. Il picco viene raggiunto a metà giugno, quando una grande ondata di conflitti coinvolge tutta la Lombardia e in particolare gli stabilimenti milanesi: si sciopera contro la mancata condanna a morte del dirigente fascista Carlo Emanuele Basile, ma anche per chiedere parità tra salario e costo della vita, calmiere sui prezzi, controllo dei lavoratori su costi di vita e borsa nera, inquadramento dei partigiani nelle forze di polizia. Appare uno strettissimo nesso tra l’epurazione (dei fascisti, identificati con gli affamatori del popolo) e la ricostruzione economica, basata sul principio dell’autodeterminazione dei lavoratori.
I conflitti di maggio e soprattutto giugno appaiono ancora difficilmente controllabili dalla Camera del Lavoro: per due volte i vertici camerali diramano comunicati in cui invitano i lavoratori a cessare lo sciopero (divenuto quasi generale ed esteso dal capoluogo alla provincia), senza ottenere alcun risultato. "L’azione della Camera del lavoro tenterà di trasformare la spinta dei lavoratori in miglioramenti concreti, che rafforzino sia il ruolo del sindacato tra le sue basi sia la sua forza contrattuale verso la controparte imprenditoriale. Tale impostazione aveva però bisogno di una premessa fondamentale: il sindacato doveva diventare l’interlocutore unico e in questo senso doveva dimostrare la sua capacità di riuscire a controllare il conflitto. E ciò non era semplice nel giugno 1945; il 19 giugno, la Camera del lavoro di Milano invita i lavoratori alla cessazione degli scioperi […]. L’appello non ottiene i risultati previsti, anzi, il 20 giugno è una giornata di forte conflittualità. […] La Camera del lavoro di Milano emette un nuovo appello per la cessazione dei conflitti che per la seconda volta non riesce a fermare un’ondata di scioperi che invece si estende alle province limitrofe […]". <333
I vertici camerali, formati in questo momento da esponenti del mondo operaio (soprattutto nelle sue componenti comunista e socialista), riescono a ottenere importanti risultati e grande credito nella base altamente instabile: accordi sullo sblocco salariale e sul controllo dei prezzi, attraverso la creazione dei Consigli di gestione e il temporaneo rafforzamento dei Cln aziendali; il cosiddetto "Accordo di Milano" siglato in doppia ripresa il 29 maggio e il 23 giugno, da Camera del Lavoro e Unione Industriali, sull’indennità di contingenza. I successi ottenuti causano paradossalmente alta instabilità nelle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro meneghina, a causa soprattutto della prevista divisione in tre zone della provincia di Milano per l’applicazione dell’indennità: le Camere succursali e le ramificazioni periferiche chiedono parità di trattamento e attuazione immediata del programma; la protesta è spia di un contesto non ancora centralizzato e anzi dove le spinte all’autonomia sono molto forti, soprattutto nei confronti del vertice milanese, oggetto della protesta assieme agli industriali: "Catalizzatori delle proteste saranno le commissioni interne, che in questo modo mostrano nuovamente il loro carattere di contropotere nei confronti della Camera del lavoro e la loro vicinanza alla base, espressa in numerose assemblee. Dalle fabbriche, il malessere si estende alle strutture sindacali, in particolare alle Camere del lavoro succursali più importanti, che criticano aspramente l’accordo". <334
[NOTE]
328 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., pp. 49-51
329 Ibidem, p. 52
330 G. Invernizzi, Proposta di una alleanza del lavoro, p. 27, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 52
331 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, pp. 64-65, Ediesse 1999
332 G. Manzini, Una vita operaia, pp. 77-78, Archivio del Lavoro 2007
333 J. Torre Santos, op. cit., pp. 77-78
334 Ibidem, p. 80
Elio Catania, Il conflitto sociale: "motore della Storia" o "tabù" storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017