martedì 20 maggio 2025

Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti


Si sta aprendo [maggio 1945] infatti già un altro terreno per lo scontro sociale che, accanto alla questione del dualismo di potere, riempirà i contenuti della politica del conflitto in questo periodo: quello dei criteri della Ricostruzione, nei termini dei soggetti sociali che dovranno guidarla e di quelli che dovranno invece fare i sacrifici necessari. Passato infatti il periodo iniziale in cui il padronato sostanzialmente ignora la presenza degli organismi dei lavoratori, già da giugno si avviano a livello centrale e periferico contrattazioni e accordi che mirano a neutralizzarne il peso politico acquisito, riequilibrandolo a favore degli imprenditori. Dal 2 giugno i CLN sono stati depotenziati e trasformati in organismi puramente consultivi, senza alcun potere effettivo.
Tuttavia nei mesi successivi lo spontaneismo e l’organizzazione autonoma nei luoghi di lavoro, prodotti dai venti mesi della Resistenza, continuano a dimostrarsi centrali nel contesto meneghino, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro. Fatta eccezione per la FIOM, dove la maggior forza dei metallurgici e la loro lunga tradizione politica permette una rapida riorganizzazione, gli altri settori formano spontaneamente decine di Comitati di iniziativa sui luoghi di lavoro, premessa alle strutture di categoria sindacale: nel solo mese di maggio si registrano, nelle poche fonti (principalmente l’Unità) attente ad osservare il
fenomeno, la fondazione di Comitati di iniziativa dei tipografi e dei librai, Comitati per la creazione di un sindacato degli idraulici e degli elettricisti, parrucchieri, autisti e persino compositori di musica leggera; a metà mese si ricostituisce anche la Federterra (sebbene questa, come vedremo, conosce uno sviluppo complesso nel milanese), mentre successivamente nascono Comitati di iniziativa presso tessili, chimici, edili, lavoratori del marmo e alimentaristi, sarti, orafi e argentieri, lavoratori della scuola privata e dipendenti pubblici. A giugno nascono i Comitati per la ricostruzione sindacale dei dipendenti degli uffici finanziari, del settore alberghiero, degli addetti allo spettacolo postatelegrafi. <328
La ricostruzione sindacale a Milano inizia dunque all’esterno della Camera del Lavoro, per poi successivamente affiliarsi ad essa. È un processo che esprime quella volontà di far da sé propria della tradizione operaista e che ricorda, osservandola da vicino nelle categorie che per prime danno vita ai Comitati di iniziativa (metallurgici e tipografi), la nascita delle prime società di mutuo soccorso e resistenza. Il vertice camerale, rappresentato in questo momento dal comunista Giuseppe Invernizzi, nonostante la ferrea logica centralizzata, accetta senza intromissioni questa riorganizzazione spontanea che supplisce alla mancanza di quadri e alle insufficienze strutturali dell’immediato dopoguerra. Nota Torre Santos: "Il risultato in ogni modo era una struttura relativamente improvvisata, adattata alla realtà delle singole categorie - e dunque anche all’eredità della clandestinità sulle stesse -, che sarebbe comune ad altre realtà del Nord". <329 Peculiarità già notata a suo tempo da Invernizzi: "Le forme di organizzazione seguite a Milano non sono evidentemente quelle di tutta l’Alta Italia. È a nostra conoscenza che in altre province si sono trovate altre soluzioni ai problemi organizzativi". <330 Al tempo stesso, sono le Commissioni Interne già operanti durante la guerra a svolgere il ruolo che più tardi assumeranno le federazioni di categoria, parallelamente a una funzione di riequilibrio di potere: "L’immediata costituzione fin dai giorni successivi alla Liberazione impone loro l’onere di formulare autonomamente le nuove regole del gioco sindacale all’interno dell’azienda, senza poter fare affidamento su un sistema di contrattazione esterno o su altri punti di riferimento normativi o istituzionali, contando così solo sui rapporti di forza che si trovano ad esprimere. […] Con l’acquisita libertà di organizzarsi, dopo il 25 aprile, la centralità delle commissioni interne si esplicita pienamente: esse si caratterizzano anche come organismi a stretto contatto con i lavoratori, capaci di intervenire sui mille problemi che emergono dalla vita quotidiana di fabbrica". <331
La situazione disastrosa dell’economia, la grande miseria delle classi subalterne urbane e rurali alla fine della guerra, fanno sì che la questione della sopravvivenza resti uno dei temi centrali di continuità nel conflitto sociale anche nel dopo-Resistenza. Questione che in questi primi tempi si cerca di risolvere autonomamente, con un’organizzazione precipua in ogni fabbrica, ma ispirata dai medesimi principi di autosufficienza; in questo la figura del collettore sindacale (spesso coincidente con il collettore di partito, intendendo qui il PCI, l’unico che avesse nella sua tradizione culturale-organizzativa l’esperienza delle cellule), come agente di raccolta delle necessità dei lavoratori e loro rappresentante di fronte al proprietario, è peculiare della cultura operaia presente nelle fabbriche lombarde (in particolare di Milano, Brescia e rispettive province). Così Angelo Fumagalli, classe 1912, nel direttivo della FIOM milanese e operaio della Ercole Marelli di Sesto, ricorda i motivi alla base degli scioperi del dopoguerra: "Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Prima le indennità, disagio, fatica, calore. L’indennità di presenza l’avevamo già conquistata durante la guerra, e da lì era cominciato il discorso. Poi il cottimo, che in alcuni casi superava anche di due volte la paga base. Ma il cottimo, per [gli ultimi] arrivati, non giocava molto: ci voleva del tempo per raggiungere un certo tetto. Allora sotto col passaggio di categoria, gran battaglia per la riqualificazione generale. […] Si era usciti dalla guerra con la fame, una fame vecchia. […] Si esce dalla guerra e il problema non cambia: fame era e fame resta. La prima grossa battaglia è stata quella della mensa, e non è stato facile spuntarla. […] Dopo la guerra erano i bisogni elementari quelli che urgevano. Allora il modo di vivere era semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti". <332
Battaglia per i bisogni elementari dunque, alimentazione su tutto, contro la disoccupazione e per condizioni di lavoro migliori, come ad esempio avviene a Lodi dove i lavoratori industriali dichiarano uno sciopero a tempo indeterminato il cui motivo è la mancanza di generi alimentari. Ma sono vertenze dove molto forte è anche il contenuto politico, legati alla defascistizzazione dei luoghi di lavoro. Da fine maggio ad agosto la città è attraversata da intense ed estese agitazioni sociali, non solo degli operai di fabbrica, ma anche di massaie e impiegati pubblici. Il picco viene raggiunto a metà giugno, quando una grande ondata di conflitti coinvolge tutta la Lombardia e in particolare gli stabilimenti milanesi: si sciopera contro la mancata condanna a morte del dirigente fascista Carlo Emanuele Basile, ma anche per chiedere parità tra salario e costo della vita, calmiere sui prezzi, controllo dei lavoratori su costi di vita e borsa nera, inquadramento dei partigiani nelle forze di polizia. Appare uno strettissimo nesso tra l’epurazione (dei fascisti, identificati con gli affamatori del popolo) e la ricostruzione economica, basata sul principio  dell’autodeterminazione dei lavoratori.
I conflitti di maggio e soprattutto giugno appaiono ancora difficilmente controllabili dalla Camera del Lavoro: per due volte i vertici camerali diramano comunicati in cui invitano i lavoratori a cessare lo sciopero (divenuto quasi generale ed esteso dal capoluogo alla provincia), senza ottenere alcun risultato. "L’azione della Camera del lavoro tenterà di trasformare la spinta dei lavoratori in miglioramenti concreti, che rafforzino sia il ruolo del sindacato tra le sue basi sia la sua forza contrattuale verso la controparte imprenditoriale. Tale impostazione aveva però bisogno di una premessa fondamentale: il sindacato doveva diventare l’interlocutore unico e in questo senso doveva dimostrare la sua capacità di riuscire a controllare il conflitto. E ciò non era semplice nel giugno 1945; il 19 giugno, la Camera del lavoro di Milano invita i lavoratori alla cessazione degli scioperi […]. L’appello non ottiene i risultati previsti, anzi, il 20 giugno è una giornata di forte conflittualità. […] La Camera del lavoro di Milano emette un nuovo appello per la cessazione dei conflitti che per la seconda volta non riesce a fermare un’ondata di scioperi che invece si estende alle province limitrofe […]". <333
I vertici camerali, formati in questo momento da esponenti del mondo operaio (soprattutto nelle sue componenti comunista e socialista), riescono a ottenere importanti risultati e grande credito nella base altamente instabile: accordi sullo sblocco salariale e sul controllo dei prezzi, attraverso la creazione dei Consigli di gestione e il temporaneo rafforzamento dei Cln aziendali; il cosiddetto "Accordo di Milano" siglato in doppia ripresa il 29 maggio e il 23 giugno, da Camera del Lavoro e Unione Industriali, sull’indennità di contingenza. I successi ottenuti causano paradossalmente alta instabilità nelle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro meneghina, a causa soprattutto della prevista divisione in tre zone della provincia di Milano per l’applicazione dell’indennità: le Camere succursali e le ramificazioni periferiche chiedono parità di trattamento e attuazione immediata del programma; la protesta è spia di un contesto non ancora centralizzato e anzi dove le spinte all’autonomia sono molto forti, soprattutto nei confronti del vertice milanese, oggetto della protesta assieme agli industriali: "Catalizzatori delle proteste saranno le commissioni interne, che in questo modo mostrano nuovamente il loro carattere di contropotere nei confronti della Camera del lavoro e la loro vicinanza alla base, espressa in numerose assemblee. Dalle fabbriche, il malessere si estende alle strutture sindacali, in particolare alle Camere del lavoro succursali più importanti, che criticano aspramente l’accordo". <334
[NOTE]
328 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., pp. 49-51
329 Ibidem, p. 52
330 G. Invernizzi, Proposta di una alleanza del lavoro, p. 27, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 52
331 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, pp. 64-65, Ediesse 1999
332 G. Manzini, Una vita operaia, pp. 77-78, Archivio del Lavoro 2007
333 J. Torre Santos, op. cit., pp. 77-78
334 Ibidem, p. 80
Elio Catania, Il conflitto sociale: "motore della Storia" o "tabù" storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

lunedì 12 maggio 2025

Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare


In un rapporto politico del 15 novembre 1940 al Ministero affari esteri redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, egli sottolinea che “(...) le disposizioni repressive contro il comunismo, emanate dopo lo scoppio della guerra, nel 1939, rimangono pienamente in vigore e quindi ogni manifestazione del partito deve considerarsi illegale e clandestina; pur tuttavia le autorità tedesche, all'inizio dell'occupazione, non soltanto non hanno ostacolato la propaganda comunista, ma l'hanno tacitamente favorita, permettendo anche il ritorno in Francia di Thorez e Duclos che erano stati condannati in contumacia dai tribunali militari francesi. Poiché il partito aveva una rispondenza innegabile fra le masse operaie, si sperava probabilmente che la sua attività si sarebbe inquadrata nelle direttive germaniche (…); si è cercato inutilmente di orientare gli operai verso la lettura del nuovo quotidiano 'France au travail' a carattere estremista e sovversivo; ma strettamente controllato dai tedeschi. All'inizio ha funzionato e le masse operaie si sono avvicinate al movimento verso il quale andavano le proprie simpatie e 'France au travail' ha raggiunto una tiratura di oltre 250.000 copie. Senonché ben presto l'attività comunista è sfuggita dalle mani dell'autorità d'occupazione e la sua propaganda si è orientata in senso assolutamente contrario a quello desiderato; a questo punto le autorità tedesche hanno tolto non soltanto ogni appoggio, ma hanno escluso tra l'altro tutti i militanti o simpatizzanti comunisti dalla stampa della zona occupata, hanno cominciato a reprimere in forma sempre più severa ogni tipo di manifestazione marxista. Gli arresti si sono susseguiti agli arresti, la polizia tedesca ha coordinato la propria azione con quella francese e particolari accordi sono stati presi anche con la zona libera per provvedere sempre più efficacemente all'azione repressiva del comunismo. Malgrado ciò l'influenza del partito comunista continua ad esercitare saldamente, soprattutto nelle masse industriali della zona occupata; manifesti, opuscoli, copie dell'Humanité, stampate alla macchia, vengono distribuite ad onta degli arresti e delle severe repressioni.” <190
Dal 20 giugno 1940 a Parigi, la direzione del PCF si ricostituisce con Duclos, Tréand, responsabile dei quadri, e Jean Catelas, deputato nella zona della Somme, e si intraprendono a Parigi, col mandato dell'Internazionale Comunista, delle trattative con i tedeschi, nella persona di Otto Abetz, l'ambasciatore tedesco a Parigi, per ottenere la comparsa legale del giornale l'Humanité. Il PCF non adottò alcun atteggiamento ostile verso l'occupante e durante tutto il periodo delle trattative, fino alla fine di agosto 1940, non vi è nessun attacco nemmeno nei numeri clandestini de l'Humanité. In cambio Otto Abetz libera più di 300 comunisti arrestati sotto la III Repubblica morente. Parallelamente nei comuni limitrofi alla capitale vengono organizzate delle manifestazioni per esigere il reinsediamento dei sindaci decaduti e il riconoscimento degli ex leader sindacali comunisti. Abetz afferma in una nota del 7 luglio 1940 che l'intento dei tedeschi è quello di accattivarsi la fiducia delle masse intrise di marxismo e di far assumere ai comunisti la responsabilità della gestione municipale nei loro vecchi comuni. Tali intenti non furono condivisi da molti militari tedeschi e le trattative alla fine furono un fallimento. Da parte della direzione comunista, gli obiettivi erano quelli di sfruttare tutte la vie legali, nell'illusione di intravedere alcune prospettive offerte dal vuoto politico consecutivo alla sconfitta, e nella visione di una interpretazione ampia del patto Molotov-Ribbentrop. <191
Il testo de “l'Appel du 10 juillet 1940” diffuso dal PCF e firmato da Jacques Duclos e Maurice Thorez (allora a Mosca, dove arrivò nel novembre 1939) oltre a non comprendere nessun attacco contro i tedeschi non precisa che debbano essere sviluppate delle azioni contro le forze di occupazione. Il partito sul momento si occupò della propria ricostruzione, e della difficile situazione economica e della sofferenza degli operai parigini. Paradossalmente il PCF si pose sulla stessa linea politica di Vichy: accetta quindi la sconfitta e si occupa della ripresa economica.
Fino al giugno 1941 il PCF avrebbe definito la guerra come guerra imperialista dalla quale le forze rivoluzionarie dovevano astenersi, la principale lotta da portare avanti era quella contro il capitale e contro la sua classe borghese responsabile del disastro che si è abbattuto sulla Francia.
L'atteggiamento verso i tedeschi a partire dalla fine di agosto 1940 cambia, si rompe definitivamente ogni contatto con l'ambasciata del Reich e da ottobre i tedeschi danno il loro consenso all'operazione lanciata dalla polizia francese contro i comunisti della Senna: più di 300 persone furono arrestate nelle proprie case, per lo più vecchi eletti e militanti sindacalisti, alcune settimane più tardi l'incontro di Pétain con Hitler a Montoire, il 24 ottobre 1940, sancì la collaborazione franco-tedesca.
L’impatto dei comunisti sulla popolazione parigina è stato notevole negli anni dell'occupazione: hanno saputo parlare delle difficoltà insormontabili dei cittadini e hanno dato prova, nell’apatia generale dei primi mesi di occupazione, di una sorprendente attività. I volantini comunisti denunciano le insufficienze di vettovagliamento, reclamano dei sussidi più alti per i disoccupati e per le mogli dei prigionieri, preconizzano la distribuzione di zuppe popolari, protestano contro l’aumento dei prezzi e il blocco dei salari; di fronte al silenzio della stampa autorizzata, la stampa clandestina comunista, la sola importante fino al ’42, esprime e sostiene le rivendicazioni popolari.
Inoltre il partito cerca di inquadrare la popolazione parigina, creando dei “comitati di disoccupati”, oppure a lato dei sindacati legali istituisce dei “comitati di fabbrica”, organizza poi buona parte degli emigrati, in primo luogo gli antifascisti. <192
Promuove le azioni di resistenza: sabotaggi, manifestazioni, attentati, scioperi. In un rapporto politico dell'Ambasciata italiana del novembre 1940 riguardo al partito comunista si riporta che nel settembre 1940, all'inizio delle restrizioni alimentari, in alcuni quartieri popolari (Montmartre, Mouffetard) e nei comuni di Gennevillier, Pantin, la Plaine Saint-Denis, si sono avute delle agitazioni. <193
Per riuscire a sopravvivere sotto l’occupazione occorreva possedere numerose carte rivestite di un timbro ufficiale: la carta d’identità, la carta di alimentazione nonché i documenti ordinari dello stato civile, dei certificati di smobilitazione, di residenza e di lavoro, delle autorizzazioni per potere circolare (la notte, in macchina, in bicicletta). In quanto ai documenti tedeschi, essi erano vantaggiosi in caso di controllo, ma per essere imitati, dovevano essere redatti in carattere gotico. I gruppi della resistenza si dotarono quindi di numerosi atelier per la fabbricazione di tali documenti. Una delle maggiori operazioni della resistenza fu la fabbricazione e l’attribuzione di documenti falsi per coloro che erano perseguitati dall’occupante: ebrei, prigionieri di guerra evasi, spagnoli repubblicani, tedeschi antinazisti e altri stranieri in situazione irregolare, resistenti braccati. Il loro numero andava crescendo di giorno in giorno così che una vera industria di falsificazione nacque e prosperò a Parigi.
I comunisti organizzarono delle manifestazioni per sfruttare i numerosi motivi di scontento, e volendo coinvolgere tutta la popolazione invitarono le mamme e le casalinghe a reclamare con forza e quotidianamente: pane, latte, scarpe, vestiti e a protestare contro l’aumento dei prezzi; gli operai ad esigere migliori condizioni di lavoro e un aumento dei salari. Il partito, per la Commemorazione di Valmy, il 20 settembre 1942 distribuì decine di migliaia di volantini contenenti parole d’ordine destinate alla folla. Il 13 giugno 1943 più manifestazioni hanno luogo, ad intervalli ravvicinati, in alcuni paesi della periferia parigina nonché in città. Il 13 agosto del ’41 a Saint-Lazare sfilò un corteo che sfociò in un conflitto a fuoco con la polizia, ci furono numerosi arresti e cinque persone furono fucilate.
Un’azione di massa contro i nazisti è lo sciopero, proibito sia dall’occupante che dal governo collaborazionista di Vichy, era doppiamente illegale e pericoloso, inoltre era difficile da organizzare poiché il sindacato ufficiale si opponeva. I comunisti, per convincere gli operai a scioperare pongono l’accento sul fatto che i nemici da combattere non erano solo Vichy ed i tedeschi ma anche il capitalista, il padrone che con loro faceva buonissimi affari. La stampa comunista clandestina ripete con fervore che: “Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare”. <194 Il partito, che ha ben presente l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche del 1936, si prefigge come obiettivo finale lo sciopero generale ma questo andava preparato attraverso la ripetizione di scioperi più piccoli e brevi. Gli scioperi hanno delle valide motivazioni come ad esempio il rifiuto dell’obbligo di andare a lavorare in Germania, ma vi furono anche scioperi in giorni simbolici come il primo maggio, il 14 luglio, l’11 novembre. Gli arresti sul lavoro da parte della polizia tedesca furono numerosi soprattutto a partire dal ’42. Gli scioperi furono una pratica di resistenza usata soprattutto dai comunisti. Nel maggio '41, in un rapporto politico il Console [d'Italia] Orlandini parla della preoccupazione delle autorità tedesche verso il movimento comunista che è forte e violento forse più in provincia che a Parigi, nel nord e sulle coste dove organizza scioperi e atti di sabotaggio. <195
Con l'attacco del giugno 1941 all'Unione Sovietica, la propaganda riprende ancora più forza e vigore e l'organizzazione comunista in Francia, disciolta ma mai scomparsa, è la sola vivente e attiva, così si esprimerà sempre Orlandini parlando della situazione politica dopo l'inizio della campagna di Russia. <196 Dopo l’attacco della Wehrmacht all’URSS, divenne ancora più evidente l'importanza di sabotare i nazisti e l'economia di guerra, era quindi necessario ridurre le fabbricazioni francesi a beneficio dei tedeschi, paralizzare il lavoro delle industrie francesi, deteriorare le macchine, frenando i trasporti verso la Germania, creare agitazione sui cantieri. Ogni sabotatore preso sul fatto, rischiava la fucilata, la deportazione e la tortura. Per i comunisti, a differenza di altri movimenti resistenziali, il sabotaggio contro la macchina da guerra tedesca deve interessare chiunque e deve avvenire in ogni momento. Ognuno nel suo ambiente deve passare all’azione, “lavorare significava produrre con coscienza del materiale difettoso”. <197 Il numero di sabotaggi, durante l’occupazione tedesca fu enorme, una buona parte furono effettuati dai tre gruppi comunisti raggruppati nell'Organisation Spéciale', le OS francesi, direttamente collegate al PCF, gli OS che provenivano dagli stranieri legati al PCF tramite la MOI, le OS-MOI, e le giovani formazioni comuniste denominate dopo la guerra, Bataillons de la jeunesse. <198 In seguito i gruppi dell'OS sarebbero diventati i Franc-tireurs e partisans francesi, FTPF, e stranieri, FTP-MOI.
[NOTE]
190 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48 Rapporto redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, pp. 6-7.
191 D. Peschanski, Les avatars du communisme français, de 1939 à 1941, in J.P. Azéma, F. Bédarida, La France des années noires, Paris, Seuil, 2000, pp. 418-420.
192 H. Michel, Paris résistant, Editions Albin Michel, Paris, 1982, pp. 34-35.
193 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici, Politica interna ed estera 1940, b. 46.
194 H. Michel, op. cit., p. 173.
195 MAE, Affari politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48, 13 maggio 1941.
196 Ivi.
197 H. Michel, Paris résistant, op. cit., p. 160.
198 D. Peschanski, La confrontation radicale Résistants communistes parisiens vs Brigades spéciales, in F. Marcot e D. Musiedlak (a cura di), Les Résistances, miroir des régimes d’oppression. Allemagne, France, Italie, 2006, p. 7 actes du colloque international de Besançon organisé du 24 au 26 septembre 2003 par le Musée de la Résistance et de la Déportation de Besançon, l'Université de Franche-Comté et l'Université de Paris X, Besançon: Presses universitaires de Franche-Comté, 2006, p. 341.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013



domenica 27 aprile 2025

Il nome di Guillou comparve nell’istruttoria per la strage di Brescia


Il 28 maggio 1974, alle 10.12, nella centralissima piazza della Loggia di Brescia, dove era in corso un comizio dei sindacati contro la violenza dell’estrema destra costata la vita, nei giorni precedenti, a un ragazzo, Silvio Ferrari, una forte esplosione proveniente da un ordigno collocato in un cestino della spazzatura provocò la morte di otto persone e un centinaio di feriti. In un momento in cui stava già emergendo chiaramente una pista di estrema destra riguardo alla strage di piazza Fontana e visto il contesto dell’attentato (una manifestazione contro la «violenza fascista») le indagini relative a piazza della Loggia si indirizzarono verso gli ambienti della destra eversiva, portando alla formulazione della prima istruttoria. Il processo vide, nel 1979, la condanna degli esponenti di estrema destra Ermanno Buzzi, Angelino Papa e Fernando Ferrari, insieme ad alcuni imputati minori. Buzzi, condannato all’ergastolo, fu assassinato nel carcere di Novara dall’estremista nero Pierluigi Concutelli nel 1981. Il processo di appello stabilì l’assoluzione per insufficienza di prove di Papa, mentre gli altri suoi sodali vennero assolti con formula piena. La Cassazione annullò le precedenti assoluzioni indicendo un nuovo processo che, però, terminò nel 1985 con una ulteriore assoluzione per tutti, per insufficienza di prove. Una seconda istruttoria, nata da alcune confidenze interne al mondo carcerario, portò all’incriminazione di Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. Nei successivi gradi di giudizio furono tutti assolti e la Cassazione rese il giudizio definitivo (1989).
In seguito a quanto emerso nel corso dell’inchiesta condotta da Guido Salvini, anche per la strage di Brescia venne indetta una nuova istruttoria, la terza, che portò alla sbarra e, nel 2008, rinviò a giudizio gli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi (già giudicati nell’ambito della strage di piazza Fontana), il confidente dei servizi Maurizio Tramonte (la fonte «Tritone»), il militante Giovanni Maifredi (morto nel corso del processo), legato a un altro imputato, l’ex generale dei Carabinieri Francesco Delfino, e Pino Rauti. Il processo di primo grado prosciolse tutti gli imputati (2010) e la sentenza fu confermata in appello (2012), dove fu però confermata la colpevolezza dei defunti Buzzi, Digilio e Marcello Soffiati.
La Cassazione, però, interpellata nel 2014, ribaltò la sentenza, dichiarandola annullata e predisponendo un nuovo processo, terminato in via definitiva nel giugno 2017 con la condanna all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.
Il nome di Guillou comparve nell’istruttoria non tanto per la strage di piazza della Loggia in sé, come nel caso di piazza Fontana, quanto per un evento precedente ma considerato legato a essa: la morte di Silvio Ferrari. Ferrari, giovanissimo militante di estrema destra vicino a Ordine Nuovo, scioltasi ufficialmente l’anno prima, era il ragazzo morto nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1974 mentre, in sella al suo scooter, trasportava alcuni candelotti di tritolo che, per qualche motivo mai accertato, provocarono l’esplosione uccidendolo sul colpo. In relazione a questo episodio, nella prima istruttoria sulla strage di piazza della Loggia, fu presentato un documento, una lettera scritta da Yves Guillou nel dicembre 1973 in risposta a una precedente missiva di Ferrari, risalente al novembre precedente:
"Porto Belarte 3/12/1973
A seguito vs. 24/11/1973
Stimato signor Ferrari,
riscontro alla vostra sopra citata a stretto giro postale.
Non sono in condizione di dare una risposta ai quesiti da voi postimi, nella loro globalità.
Posso fornirVi i nominativi dei rappresentanti dell’Etnikos Syndesmos Ellinon Spudaston Italias, presso le università di Firenze, Modena, Ferrara, Parma, Milano e Bologna. Essi corrispondono a:
Università di Firenze: Sr. Kostas Saraglov
Università di Modena: Sr. Iannis Athanasiadis
Università di Ferrara: Giorgio Mitsas
Università di Milano: Sr. Statis Vlachovoulos
Università di Bologna: Sr. Nicolas Spanos
E presso la vostra università Sr. Dimitrios Tzifas.
Per quanto alla richiesta del Sr. B.E. di mettersi in contatto col Sr. Kostas P. suggerisco che la miglior soluzione sia per lui di scrivergli direttamente indirizzando alla Casella Postale n. 473 della Posta centrale di Atene. Lo sconsiglio di utilizzare direttamente alla Scuola Militare A. U. Faccia in ogni modo riferimento alla tessera n. 028 dell’A.I.P. personalmente può indirizzare presso la Cedo in Roma a seguito e all’attenzione della risoluzione della Sua
presente questione. Ricambio i cortesi saluti.
Il Direttore Generale - Y. Guerin Serac" <599
Questa lettera, dunque, proverebbe se non una relazione fattuale con Guillou e l’Aginter Presse, essendo evidente dal tono distaccato che i due non si conoscessero intimamente e essendo il Ferrari deceduto poco tempo dopo, quanto meno una conoscenza da parte del militante bresciano dell’influenza del francese. Ferrari, infatti, sembrò rivolgersi a Guillou per essere indirizzato a una persona, in Italia, che fosse vicina al regime dei colonnelli greci.
Purtroppo, non essendo mai stata rinvenuta la lettera scritta dal giovane, non è dato sapere con certezza cosa cercasse di preciso.
Dalla risposta di Guillou, comunque, si può dedurre un’ulteriore prova a sostegno del rapporto intrattenuto dal francese con Kostas Plevris («Kostas P.»), di cui ho parlato nel capitolo precedente della mia tesi e al quale coincidono le informazioni fornite nella lettera, del quale veniva richiesto l’indirizzo da un tale «B.E.», da identificare, secondo Giannuli <600, nel sopracitato Ermanno Buzzi. Infine, Giannuli interpreta la sigla «A.I.P.» come l’Agenzia Inter Presse, ovvero l’Aginter Presse di Guillou di cui, possedendone la tessera, avrebbe senz’altro fatto parte. Infine, per quanto riguarda la Cedo, presumibilmente si trattò del nome francese del Centro Studi Difesa dell’Occidente (Centre Études Defense de l’Occident) che, proprio nel 1973, operava a Roma sotto la direzione di Sandro Saccucci ed era attivo in una serie di iniziative a favore della presenza occidentale in Africa.
Sia per quanto riguarda la strage di piazza Fontana che per quella di piazza della Loggia, dunque, Guillou e l’Aginter Presse risultano attivi e, in qualche modo, legati all’eversione di estrema destra presente nella penisola italiana. Nel 1974, con la già citata caduta del regime portoghese di Marcelo Caetano, Guillou si spostò in Spagna, dove animò il cosiddetto «gruppo di Madrid» prima di scomparire nel nulla.
[NOTE]
599 A. GIANNULI, E. ROSATI, Storia di Ordine Nuovo, cit., p. 80.
600 Ivi, pp. 79-81.
Veronica Bortolussi, I rapporti tra l’estrema destra italiana e l’Organisation de l’Armée Secrète francese, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2016-2017 

sabato 19 aprile 2025

Mille resistenti ebrei non furono pochi


[...] Gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio: in grandissima maggioranza combattenti partigiani, ma anche esponenti clandestini politici o militari, membri di missioni clandestine alleate nella penisola <7.
Alcuni di loro (come il piemontese Raffaele Jona) si impegnarono anche nel salvataggio e nell’assistenza degli altri ebrei. Resistenti attivi, pur se disarmati, furono inoltre coloro che si dedicarono unicamente a quest’ultima azione. Tra essi vi erano vari attivisti della Delegazione per l’assistenza agli emigranti - Delasem (diretta a Genova da Lelio Vittorio Valobra e poi da Massimo Teglio e animata a Roma da Settimio Sorani), nonché alcuni rabbini (come Nathan Cassuto e Riccardo Pacifici, poi arrestati e morti in deportazione). La rete della Delasem, sostenuta dall’indispensabile apporto di vari non ebrei, compresi alti esponenti cattolici, riuscì a garantire un certo afflusso di fondi dalla Svizzera e una loro distribuzione in varie località per l’acquisto di documenti falsi, generi alimentari, medicine, vestiario di lana, legna per il fuoco ecc. Tale opera permise la sopravvivenza e la permanenza in clandestinità di alcune migliaia di braccati, in particolare ebrei stranieri ed ebrei italiani poveri o totalmente soli.
Vi furono inoltre ebrei italiani che combatterono volontari su altri fronti europei. Infine, molti ebrei non italiani combatterono in Italia (spesso anch’essi quali volontari) sotto la divisa statunitense, inglese, ecc., compresi naturalmente i membri della Brigata Ebraica costituita in Palestina. Peraltro, il totale di un migliaio di resistenti in Italia comprende alcune decine di ebrei stranieri o apolidi <8.
Gli ebrei partecipanti alla lotta armata, operarono quasi sempre nelle formazioni partigiane; pochissimi furono quelli impegnati nelle azioni cittadine: la clandestinità imposta dalla Shoah era incompatibile con le necessità delle azioni clandestine urbane.
Alcuni ebrei ebbero importanti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali della Resistenza: l’azionista Leo Valiani e il comunista Emilio Sereni furono nominati il 29 marzo 1945 membro effettivo e membro supplente per i rispettivi partiti nel Comitato esecutivo insurrezionale, incaricato dal Clnai di sovrintendere all’ormai imminente insurrezione <9. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945 spettò a questi ultimi due, assieme al socialista Sandro Pertini, il compito di confermare la precedente decisione del Clnai di condannare a morte Benito Mussolini. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta provvisoria di governo costituita nel settembre-ottobre 1944 nell’Ossola liberata. Eugenio Artom fu rappresentante del partito liberale nel Comitato toscano di liberazione nazionale. Vari altri svolsero la funzione di ‘commissari politici’ nelle singole formazioni partigiane. Queste presenze erano in qualche modo conseguenza automatica del maggior livello di istruzione del gruppo ebraico italiano <10. Allo stesso tempo ci segnalano la permanenza del ruolo ebraico di “educatore della nazione”, testimoniato per tutto il periodo storico dell’Italia unita, e ci indicano che nella complessa vicenda del passaggio dal fascismo all’antifascismo l’Italia fece di nuovo ricorso proprio anche al gruppo degli ex-perseguitati.
La maggior parte dei resistenti ebrei aderì al partito d’azione e a quello comunista, fece quindi parte delle formazioni “Giustizia e Libertà” o “Garibaldi” <11.
I caduti furono quasi cento, in maggioranza uccisi in combattimento o poco dopo l’arresto (come le triestine Silvia Elfer e Rita Rosani), ma anche nei campi dove erano stati deportati per motivi politici o perché riconosciuti come ebrei dopo l’arresto (come la torinese Vanda Maestro, arrestata assieme a Primo Levi) <12.
Tra i resistenti ebrei vi fu, rispetto all’insieme del movimento partigiano, una maggiore presenza delle classi di età meno giovani e un minore numero di donne combattenti <13; il primo dato segnala ancora una volta la radicalità del contributo ebraico, il secondo testimonia che sulle donne gravava maggiormente la sopravvivenza delle famiglie braccate e che proprio la loro condizione di clandestine impediva di impegnarsi nell’attività di “staffetta”.
Poco o nulla sappiamo intorno alla loro religiosità e ai mille problemi che i più osservanti di essi dovettero affrontare sulle montagne (anche se occorre dire che la maggioranza degli ebrei italiani seguiva relativamente poco le norme alimentari e le altre regole di vita dettate dall’ebraismo) <14.
Mille resistenti ebrei non furono pochi. I certificati di “partigiano combattente” rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, oltre 233.000 <15. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica nella penisola. Va poi tenuto presente che altri uomini abili alla lotta dovettero impegnarsi - al fianco di tante donne - nel proteggere dagli arresti o dalla morte per stenti i loro figli, i loro anziani, i loro malati. Mille furono insomma molti, tanti. Va aggiunto che i resistenti ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare furono sette (Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti, tutti “alla memoria”) <16 su poco più di seicento. Si tratta di una percentuale notevole, che, seppure non può e non deve dare adito a confronti di tipo meccanico (il valore mostrato da uomini e donne di tutte le fedi è sempre superiore a quanto contabilizzato dai medaglieri), tuttavia concorre anch’essa a rendere legittima l’affermazione che gli ebrei italiani parteciparono in misura assai elevata (rispetto alle loro dimensioni numeriche e alla loro condizione specifica) alla liberazione di se stessi e dell'Italia tutta.
Si potrebbe osservare che ciò costituiva un fatto semplicemente ovvio, che gli ebrei non potevano far altro che difendersi combattendo. Questa considerazione è ovviamente vera, ma non esaustiva. Essa non spiega ad esempio perché vari ebrei rientrarono in Italia dai loro luoghi di rifugio o di emigrazione (come il sionista-socialista-pacifista Enzo Sereni, che, arruolatosi in Palestina, si fece paracadutare nell'Italia occupata, per essere però poi arrestato, deportato come politico e ucciso a Dachau). C'era quindi dell'altro e per illustrarlo consentitemi di proporvi le testimonianze dei compagni di lotta del partigiano Gianfranco Sarfatti, comunista, rientrato in Italia dopo aver accompagnato i genitori al sicuro, caduto in combattimento in Valle d’Aosta. A chi gli chiedeva: “Combatti i tedeschi e i fascisti perché sei ebreo?”, lui rispondeva “No, combatto i tedeschi e i fascisti perché spero di arrivare a dare al popolo italiano onore, benessere e dignità”. E ancora: “Ma tu prima di venire qua dov'eri?”, “Ero in Svizzera”, “E come mai sei venuto di qua? Avevi la vita più facile di là, no?”, “Si, ma vedi, ci sono degli ideali” <17.
[NOTE]
7 Sul numero degli ebrei resistenti vedi Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza ligure, in La Resistenza in Liguria e gli Alleati. Atti del convegno di studi, Consiglio regionale della Liguria, Istituto storico della Resistenza in Liguria, Genova 1988, p. 76, nota 2. Sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza in Italia vedi anche Gina Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1970; Liliana Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, in «RMI», vol. XLVI, n. 3-4 (marzo-aprile 1980), pp. 132-46; Santo Peli, Resistenza e Shoah: elementi per un’analisi, in Saul Meghnagi (a cura di), Memoria della shoah. Dopo i “testimoni”, Donzelli, Roma 2007, pp. 35-46.
8 Klaus Voigt, Profughi e immigrati ebrei nella Resistenza italiana, in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 229-253.
9 Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1: Cronistoria del 25 aprile, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 43-44.
10 Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. p. 45.
11 In Piemonte i partigiani ebrei scelsero per un terzo le prime e per un terzo le seconde, le quali invece raccolsero la metà di tutti i combattenti della regione. Cfr. Viviana Ravaioli, Gli ebrei italiani nella Resistenza. Prima indagine quantitativa sui partigiani del Piemonte, in Liliana Picciotto (a cura di), Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, fascicolo speciale de “La rassegna mensile di Israel”, vol. LXIX, n. 2 (maggio-agosto 2003), p. 574.
12 Un primo elenco di 94 caduti è in Michele Sarfatti, Gli ebrei nella Resistenza, in “Bollettino della comunità ebraica di Milano”, a. L, n. 4 (aprile 1995), p. 26.
13 Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. pp. 307-8.
14 Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza cit., p. 87.
15 Lucio Ceva, Considerazioni su aspetti militari della Resistenza (1943-1945), in “Il presente e la storia”, n. 46 (dicembre 1994), p. 55.
16 Liliana [Picciotto] Fargion, Partecipazione ebraica alla Resistenza [Note biografiche dei decorati con medaglia d’oro], in Centro di documentazione ebraica contemporanea, Ebrei in Italia: deportazione, Resistenza, Tipografia Giuntina, Firenze 1974, pp. 47-51; Giuseppe Maras, Medaglie d’oro della guerra di liberazione, in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 735-64.
17 Testimonianze riportate in Michele Sarfatti, Gaddo e gli altri ‘svizzeri’. Storie della Resistenza in Valle d’Aosta, Istituto Storico della Resistenza in Valle d’Aosta, Aosta 1981, pp. 94-95.
Michele Sarfatti, La partecipazione degli ebrei alla Resistenza italiana, La rassegna mensile di Israel, v. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 165-72

sabato 12 aprile 2025

Il generale Vivalda non risparmiò alcune critiche agli Alleati


La storia di Lorenzo Vivalda è inevitabilmente connessa alle scelte operate dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nell’aspro territorio montenegrino il generale guidò i reparti italiani in combattimento contro le truppe tedesche. In quel settore Vivalda fu protagonista delle operazioni della guerra partigiana dal 2 dicembre 1943 al 12 agosto 1944 con incarichi di comando nella Divisione italiana partigiana “Garibaldi”[1]. L’ufficiale non ebbe però la possibilità di tornare in patria con i suoi uomini poiché nel novembre del ’44 fu "rimpatriato dal Montenegro per esuberanza dell’organico dei reparti partigiani […] del Comando divisione italiana ‘Garibaldi’"[2].
Il lessico burocratico dello Stato di Servizio di Vivalda nasconde in realtà una questione di politica militare nota agli specialisti dell’argomento: l’opposizione del generale alla prigionia ad opera dei partigiani jugoslavi del tenente colonnello Ezio Stuparelli e del maggiore Bruno Monsani. Vivalda si spese in più circostanze per la loro liberazione, col risultato di risultare inviso ad alcuni influenti ufficiali dell’EPLJ[3].
Il presente contributo ambisce a diradare le nubi che avvolgono le fasi successive della carriera militare di Vivalda e che celano la storia delle unità ausiliarie del Regio esercito nella guerra di Liberazione[4]. Durante la Campagna d’Italia degli angloamericani numerosi reparti italiani, denominati appunto “unità ausiliarie”, collaborarono con gli Alleati in diverse funzioni al fine di facilitarne le operazioni belliche. Le attività svolte dalle truppe italiane furono innumerevoli: lavori effettuati per ripristinare la viabilità ferroviaria e stradale; rimozione di campi minati; ristrutturazioni di porti ed aeroporti; organizzazione e gestione di campi sosta per autocolonne grazie ad un lavoro di manovalanza costante. Con l’aumento considerevole delle unità e dei materiali sbarcati, divenne sempre più pressante l’organizzazione di nuove basi aeree, navali e logistiche. Era inoltre urgente l’impianto ed il ripristino di linee telegrafiche e telefoniche affiancato da servizi di protezione e guardia svolti per la sicurezza di depositi, delle strutture logistiche, dei ponti ed infrastrutture. Alle unità italiane era delegata la sicurezza delle retrovie e delle linee di operazioni alleate[5].
Il lungo elenco degli esercizi svolti non indica questioni squisitamente pratiche, bensì sottende nodi di ordine politico[6]. Tuttavia, la storia di quei soldati è rimasta per un lungo tempo in un cono d’ombra perché si è preferito analizzare le evoluzioni delle unità combattenti: il I Raggruppamento motorizzato[7], il Corpo italiano di liberazione ed i Gruppi di combattimento[8]. Carlo Vallauri ha rilevato la scarsa equità nel celebrare esclusivamente le glorie di quei tre segmenti delle forze armate italiane a scapito delle unità ausiliarie, quasi dimenticate:
"Da quanto è emerso nei rapporti dei comandi italiani e dalle stesse carte alleate, la funzione svolta ad opera di queste unità va considerata - sotto l’aspetto dell’impiego umano, logistico e del rischio - alla stregua di quella propria dei reparti operanti, in quanto interamente rivolta ad assicurare ai reparti direttamente combattenti al fronte le migliori condizioni di sicurezza, a prezzo di continui rischi. Compiti necessari, dalla manovalanza ai lavori agricoli o di trasporto a quello, pericoloso, dello sminamento. Né va sottovalutato il fatto che la presenza di militari italiani - pur in compiti subordinati - nei territori via via occupati dalle armate avanzanti determina nella popolazione la sensazione di non essere diventata esclusivamente oggetto di conquista da parte di eserciti stranieri. Queste forme di cooperazione sono utili al fine di stabilire, tra le unità inglesi o americane e gli appartenenti alle divisioni o altri nuclei dell’esercito italiano, relazioni di reciproca fiducia"[9].
L’esperienza degli “ausiliari” offre quindi diversi spunti di riflessione sulla fase della cobelligeranza. Bisogna infatti sempre tenere a mente che nel settembre del 1943 imperava l’acuta consapevolezza di una sconfitta militare che relegava le forze armate nazionali in uno stato di depressione morale e materiale. Nonostante le enormi incertezze, i reparti interessati al servizio ausiliario prestarono un indispensabile servizio al proseguimento della guerra alleata in Italia. Nelle settimane successive all’armistizio quelle unità del Regio esercito ricevettero immediati ordini operativi dagli Alleati. Alcuni comandanti dei reparti seppero superare lo sbandamento armistiziale abbracciando il nuovo indirizzo politico e militare. Solo grazie a questa granitica certezza - che Vivalda aveva già maturato in Montenegro - alcune divisioni riuscirono meglio a sopperire all’inattività pregressa[10].
Affidare il comando ad un generale che aveva già fatto esperienza della lotta all’ex alleato tedesco risultò un buon viatico anche agli occhi degli Alleati, tanto più che nel novembre del ’44 le relazioni fra le "popolazioni e gli angloamericani" non erano certo distese, ed anzi avevano
"subito un certo raffreddamento dovuto: 1° alla situazione politica internazionale venutasi a creare dopo le dichiarazioni fatte alla Camera dei Comuni da alte personalità politiche inglesi; 2° Alle requisizioni sempre crescenti di appartamenti da parte degli Alleati; 3° Agli atti di violenza sempre più frequenti commessi da militari Alleati a danno di militari e civili italiani.
Conclusione: Anche nel mese di novembre 1944 alto è stato il contributo dato alla Causa Alleata da tutti i dipendenti reparti ed intenso e fecondo di risultati il loro apporto. Comandanti e truppa, consapevoli dei loro doveri in questa ora grave per il nostro Paese, con volontà ferma e con spirito di sacrificio, hanno superato ostacoli e difficoltà d’ogni genere, sobbarcandosi ad ogni disagio, fermamente decisi a rendere apprezzabile e meritorio il nostro contributo alla Causa Alleata" [11].
Il generale Lorenzo Vivalda fu chiamato a gestire una situazione particolarmente complicata dal 20 novembre 1944 quando cessò "di essere destinato presso il Ministero della Guerra per incarichi speciali ed è nominato facente funzioni di comandante della 230^ divisione" costiera[12], anche perché l’impiego di tale unità non corrispondeva pienamente alle richieste dello Stato Maggiore italiano. Dalle alte sfere militari giungevano continue pressioni finalizzate ad una più incisiva presenza di unità italiane in prima linea, al fianco degli Alleati[13]. La costituzione delle unità ausiliarie fu il risultato di un compromesso tra le sollecitazioni italiane presso i comandi alleati - pressioni intese ad ottenere la partecipazione attiva di unità militari alla lotta contro i tedeschi - e la diffidenza degli Alleati, restii per comprensibili motivi ad accogliere le richieste italiane.
Un documento d’archivio a firma di Paolo Berardi, Capo di Stato Maggiore del Regio esercito, è utile per la ricostruzione della genesi del comando della 230ᵃ Divisione: "In conclusione, il comando militare Puglia-Lucania, provvederà: costituire sotto la data del 20 c.m. il comando 230^ divisione con sede in Bari; sciogliere i comandi raggruppamento lavoratori di Bari e Brindisi nonché l’ufficio lavoratori del presidio di Taranto, le cui funzioni saranno assunte dal nuovo comando di divisione"[14].
All’atto della sua costituzione, la 230ᵃ Divisione inquadrava le seguenti unità: il 403° rgt. pionieri ed il 992° reparto portuali (a Bari); il 404° rgt. pionieri ed il 924° reparto portuali (a Brindisi); il 406° rgt. pionieri ed il 923° reparto portuali (a Taranto); il Comando del 541° rgt. fanteria (ad Ortona) dal quale dipendevano diversi reparti  dislocati nelle province di Pescara, Chieti e Campobasso; il Comando italiano genio presso il II Distretto britannico in Bari[15]; i campi di riordinamento e transito di Bari e di Trani; il LII gruppo della 205ᵃ Divisione; il III btg. del 408° rgt. fanteria (Foggia e Ortona); il 921° reparto portuali (a Barletta); cinque battaglioni di sicurezza e guardia; altri piccoli reparti dei servizi.
Il quadro di battaglia della Divisione alla data del primo gennaio del 1945 era pressoché immutato rispetto a quello esposto. Quasi tutte le unità avevano mantenuto invariate le precedenti dipendenze operative dai vari enti e comandi britannici. Nei primi mesi di quel nuovo anno di guerra il generale Vivalda non risparmiò alcune critiche agli Alleati:
"L’appoggio dei comandi alleati è molto modesto e si limita alla saltuaria assegnazione di qualche automezzo per la vita dei reparti. Maggiore interessamento esplicano gli ufficiali alleati di collegamento che sono riusciti ad ottenere assegnazione di viveri di conforto per reparti che lavorano in disagiate condizioni. Nei confronti degli alleati occorre talvolta usare molto tatto per far comprendere alcune difficoltà insorgenti e l’impossibilità di aderire tempestivamente ad improvvise e pressanti richieste. Nessun incidente ha però, sinora, turbato i rapporti tra comandi alleati e comandi italiani.
Prestazioni eccessivamente onerose e lesive al decoro del soldato: In genere, le autorità alleate hanno sempre mantenuto il senso della misura nelle richieste di prestazioni d’opera. Solo a Brindisi era stato imposto per ragioni contingenti un turno di lavoro notturno di ben 11 ore, turno che in seguito a un mio personale intervento è stato ridotto a nove ore. Nessuna richiesta da parte degli alleati di prestazioni lesive al decoro del soldato" [16].
Durante i mesi invernali del 1945 e fino a tutto aprile ripresero i trasferimenti di diverse unità della Divisione, prevalentemente verso nord, motivati dal disimpegno britannico dalle zone delle retrovie nell’Italia settentrionale e conseguentemente dalle sempre crescenti esigenze di impiego di unità ausiliarie, soprattutto in Toscana e nelle Marche. In questa fase gli ausiliari furono indispensabili per le mansioni logistiche e di mantenimento delle comunicazioni. In mancanza dell’aiuto italiano, gli Alleati avrebbero dovuto gestire in proprio l’incombenza con un significativo aggravio in termini di forze. I principali movimenti riguardarono: i battaglioni guardia 502° e 503°, trasferiti ad Arezzo rispettivamente in data 3 febbraio e 10 gennaio; il Comando del I btg. del 404° rgt. pionieri ed alcune compagnie di tale battaglione, nonché il II btg. dello stesso rgt., accorpati alla 227ᵃ Divisione; il Comando del 406° rgt. pionieri, trasferito ad Arezzo il 2 aprile; il II btg. del 406° rgt. pionieri con quattro compagnie, trasferito ad Ancona il 4 aprile. In quella fase il Comando italiano genio per il II Distretto cambiò il proprio nominativo in 72° Nucleo italiano per Comando genio del II Distretto. Il 25 aprile arrivò a Brindisi da Frosinone il 524° btg. guardia.
Il successo dell’offensiva primaverile ed il dilagare nella pianura padana ed in tutto il nord d’Italia delle forze alleate comportarono alla fine di aprile ed ai primi di maggio mutamenti di giurisdizione e di dipendenze per quasi tutte le grandi unità ausiliarie. Per quanto concerne la 230ᵃ Divisione, fu disposto il trasferimento da Bari a Firenze del Comando della Divisione e l’inquadramento di tutti i reparti già da esso dipendenti nell’ambito della 227ᵃ. Il passaggio delle competenze fra i comandi delle due unità ebbe luogo il 4 maggio ed è registrato dallo stesso Vivalda:
"Il Comando 230^ Divisione si è trasferito tra il 5 e l’11 del mese di maggio da Bari a Firenze, secondo l’ordine […] ricevuto. I compiti e le attribuzioni ad esso devoluti nella zona di Bari, sono stati assunti, a partire dalle ore zero del 4 maggio, dal Comando 227^ Divisione […]. Per disposizioni del 2° Distretto, il Comando 230^ Divisione, giunto a Firenze, ha assunto alle sue dipendenze disciplinari ed amministrative i reparti BR-ITI [forze italiane che collaboravano con i britannici]" [17].
Il 10 maggio il Comando della 230ᵃ si sistemò definitivamente nella Caserma “Costa San Giorgio” a Firenze, già sede del Comando della 231ᵃ. Assunse alcuni reparti dislocati tra Firenze e Livorno, fra gli altri, il 22 maggio ricevette il I rgt. guardia ed il 412° rgt. pionieri, ed il 25 maggio riebbe alle proprie dipendenze il 72° Nucleo italiano per il Comando genio del II Distretto, anch’esso trasferitosi da Bari a Livorno. In sintesi, alla data del 31 maggio, dipendevano dalla Divisione (per un complesso di 205 ufficiali e di 3.890 sottufficiali e truppa): il I rgt. guardia, con tre btg. (502°, 503°, 519°), ciascuno su quattro compagnie; il Comando del 412° rgt. pionieri, con cinque compagnie pionieri e con il II btg. del 402° rgt. pionieri, su sette compagnie; il predetto 72° Nucleo italiano per il Comando genio del II Distretto. [...]
[NOTE]
[1] Cfr. Federico Goddi (a cura di), Lorenzo Vivalda, L’ 8 settembre in Montenegro: la relazione del generale Lorenzo Vivalda, prefazione di Annita Garibaldi Jallet, Firenze, ANVRG, 2017.
[2] Archivio Persomil, 1° originale dello Stato di Sevizio, numero di matricola 7377 “Vivalda Lorenzo”.
[3] Cfr. Carlo Vittorio Musso, Per la libertà dei popoli: memorie garibaldine. Penne nere allo sbaraglio: diario di guerra di Carlo Vittorio Musso, prefazione di Annita Garibaldi Jallet, [S.l.], A.N.V.R.G., 2008, pp. 112-126.
[4] A tal proposito si vedano le interessanti considerazione di Marco Ruzzi: "La storiografia, anche quella militare (o forse soprattutto quella militare) ha preferito stendere un manto di oblio sull’operato di questi soldati, sostanziandolo con treni scaricati, navi svuotate e strade riparate; traducendolo, nella letteratura, con simili affermazioni: ‘l’apporto - umile, ma altrettanto valido - delle unità ausiliarie, iniziato il 23 settembre 1943 con la manovalanza di alcune migliaia di uomini nel porto di Bari e ammontanti, a fine ostilità, ad una forza di 196.000 uomini’", in Marco Ruzzi, Gli Italian Pioneer nella guerra di liberazione: a fianco degli alleati dalla Puglia alla Venezia Giulia, 1943-45, Genova, F.lli Frilli, 2004, p. 184. Alle pagine 133-134 del volume è presente una breve biografia di Lorenzo Vivalda.
[5] Ministero della difesa [compilato da Luciano Lollio], Le unità ausiliarie dell’esercito italiano nella guerra di liberazione: narrazione, documenti, Stato maggiore dell’esercito - Ufficio storico, Roma, 1977, pp. 7-8.
[6] Il fattore di apparati logistici efficienti è fondamentale in qualsiasi esperienza bellica. L’importanza in tale settore durante la Campagna d’Italia è rintracciabile in un’analisi di Giorgio Rochat: La Campagna d’Italia 1944-1945: linee e problemi, in Giorgio Rochat - Enzo Santarelli - Paolo Sorcinelli (a cura di), Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, Milano, F. Angeli, 1986, p. 22.
[7] Resta fondamentale nello specifico il volume di Giuseppe Conti, Il primo Raggruppamento motorizzato, Roma, Ufficio storico SME, 1984.
[8] Per il dibattito storiografico su queste unità combattenti si rimanda all’esaustivo saggio di Nicola Labanca, Militari e Resistenza. Le svolte della storiografia, in Nicola Labanca (a cura di), I gruppi di combattimento: studi, fonti, memorie, 1944-1945: atti del Convegno, Firenze, 15 aprile 2005, Roma, Carocci, 2006, pp. 21-62.
[9] Carlo Vallauri, Soldati: le forze armate italiane dall’armistizio alla Liberazione, Torino, UTET, 2003, pp. 287-288.
[10] In ordine temporale l’ultima tra le non molte ricostruzioni storiche sulle vicende delle truppe ausiliarie è di Giovanni Cecini, Le Unità ausiliarie, in Marco Maria Aterrano (a cura di), La ricostituzione del Regio esercito dalla resa alla liberazione 1943-1945, Roma, Rodrigo, 2018, pp. 113-161.
[11] AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), DS (Diari storici), busta 4220, fascicolo “230ᵃ Divisione. Contributo dell’Italia alla causa alleata”, Comando militare della Puglia e Lucania. Stato Maggiore - Ufficio Operazioni [Periodo 1-30 novembre 1944], Il Generale Comandante Ismaele Di Nisio.
[12] Archivio Persomil, 1° originale dello Stato di Sevizio, numero di matricola 7377 “Vivalda Lorenzo”.
[13] Lo stesso Capo di Stato Maggiore, Paolo Berardi ha sottolineato nelle sue memorie l’importanza per gli alleati di poter disporre di divisioni attrezzate per la montagna. Cfr. Paolo Berardi, Memorie di un capo di Stato Maggiore dell’esercito, Bologna, O. D. C. U., 1954 , p. 73.
[14] AUSSME, DS, b. 4230, fasc. “Comando di Grandi Unità. 230ᵃ Divisione”, n. 8595/Ord. di prot., Oggetto: Costituzione comando, Roma, 12 novembre 1944, P. Berardi.
[15] Il territorio liberato era articolato in due fasce: la zona di operazioni sotto la giurisdizione del XV Gruppo di Armate e le retrovie divise in District britannici e Peninsular Base Section (PBS) statunitense. Cfr. Marco Ruzzi, cit., p. 110.
[16] AUSSME, DS, b. 4220, cit., P.M. 3800 (n. 846 Op.), Oggetto: Contributo delle truppe ausiliarie alla causa degli alleati, 8 febbraio 1945, Lorenzo Vivalda.
[17] Ivi,  n. 240/Ord. di prot., Oggetto: Contributo delle truppe ausiliarie alla causa degli alleati, 18 giugno 1945, Lorenzo Vivalda.
Federico Goddi, Il generale Lorenzo Vivalda al comando della 230ᵃ divisione nella campagna d’Italia (1944-1945), Numero 1 - 2018, Storia , Camicia Rossa  

domenica 6 aprile 2025

In montagna c’era già Bisagno


Biografia:
Edilio Leveratto (Genova, 1927-2002) è stato un antifascista e combattente per la libertà. Dal 1943 fino alla fine della guerra è stato a fianco del comandante Aldo Gastaldi (Bisagno) nelle file dei partigiani della “III Divisione Garibaldina Cichero”. Nell’aprile del 1945 ha subito ferite multiple e la perdita di un occhio nel tentativo di sminare un campo in prossimità di Torriglia (Genova). In seguito gli è stato riconosciuto lo status di Grande Invalido di Guerra.
[...] Testimonianza di Edilio Leveratto [Biondo] del 14 luglio 1999, dal libro “Recco 1940-1945”
Io ero un garibaldino; ero l’aiutante di Bisagno. Sono entrato nella Garibaldi nel dicembre del 1943…Io sono di Sturla, mi sono trasferito a Recco in seguito, venti, trenta anni fa. Subito dopo l’8 settembre eravamo un gruppo di partigiani, anzi non c’erano ancora i partigiani, ma noi c’eravamo già. A Calvari c’era un campo di concentramento dove c’erano gli americani, dopo l’8 settembre questi qui sono scappati e sono andati un po nei partigiani. Dopo gli ufficiali superiori hanno desiderato ritornare e allora sono stati imbarcati e sono stati portati in Corsica; questo io lo so perché prima di andare nei partigiani ero nella formazione OTTO, di Ottorino Balduzzi. L’organizzazione OTTO aveva tutte le radio della zona e il compito che aveva non era grande ma era importante, doveva dare notizie agli alleati, li hanno aiutati ad andare via. C’ero io, Pomodoro, Rizzo, che è morto in questi giorni. L’hanno caricati su un gozzo e li hanno portati in Corsica, dopodiché sono andato via dalla OTTO perché è successo un fatto: a De Ferrari, da Porta Soprana, stavamo portando dei manifesti, io ed un certo “Milan” Franchi. Sennonché ci ha fermato il pattuglione dei tedeschi, sparando siamo riusciti ad andare via tutti e due. Ovviamente abbiamo lasciato lì i manifestini, erano pacchi grossi. Poi ci hanno consigliato di andare via; siccome noi ne abbiamo ammazzato un paio, le pattuglie andavano in giro per la città a vedere se vedevano se c’era qualcuno che conosceva questi due, che avevano sparato. Milan poi è morto, ha preso una fucilata in una gamba, poi gli è andata in cancrena. Io sono andato a Torriglia con un gruppetto di quindici persone. Quando Bisagno è venuto a Rovegno, a disarmare una banda che era lì, c’era una colonia dove ci andavano i figli dei fascisti. Non c’era nessuno e l’hanno usata come sede; quando Bisagno li ha disarmati, ci si è messo lui lì. Ed io in motocicletta in quei giorni sono andato da lui a dire che eravamo un gruppo e che ci saremmo messi con lui. Aveva spostato la Brigata Oreste in Val Trebbia. Quando sono arrivato in montagna era la vigilia di Natale del 1943. In montagna c’era già Bisagno che era andato in montagna da un’altra parte, era entrato nell’entroterra di Chiavari, in un paese che si chiama Cichero e aveva costituito lì il primo gruppo. Io invece sono andato dalle parti di Torriglia, poi però Bisagno ha creato dei comandanti e ha fatto dei distaccamenti e uno di questi è venuto in Val Trebbia, e Torriglia è sul confine con la Val Trebbia e io sono andato direttamente con loro. Prima mi ero messo da solo, poi da soli è difficile stare; anzi proprio da solo non ero, eravamo un gruppetto di una quindicina di persone. Poi è arrivato Bisagno con i suoi, anzi è arrivato Croce, e allora sono andato da Bisagno e gli ho detto che eravamo queste poche persone e mi ha messo con la “volante”che era il primo distaccamento che avrebbe funzionato e lo comandava Sandro. Sandro era un ragazzo di Corso Sardegna e comandava questa volante ed io, dopo un mese che ero lì, sono diventato il vice-comandante. Dopo, più avanti, questa volante ha preso un po’ di presunzione, nel senso che voleva fare un po`quello che voleva, perché si ritenevano in gamba e lo erano; in conclusione ci sono stati problemi con Croce, che era il comandante della zona ed era il comandante di una brigata di Bisagno. Noi, essendo in quella zona lì eravamo sotto Croce; ecco, Croce ha dato l’ordine di disarmarci, perché facevamo cose fuori regola, cioè fuori comando. Inizialmente erano tre le Brigate: Oreste, Arzani e Coduri e tutte erano Cichero. La Garibaldi Coduri operava nel sestrese ed era lontana, però era sempre della divisione Cichero, sennonché a due o tre mesi dalla fine della guerra si è creata una scissione fra i comandi e a questo punto hanno creato la divisione Pinan-Cichero, che era quella che operava verso Tortona, e la Divisione Coduri e la Divisione Cichero, che operava in Val Trebbia. E’ successo questo perché comandava su tutti Bisagno; hanno tentato di levargli il comando e l’unico modo per fargli perdere il comando, il potere, era dividere tutti. Allora di una ne hanno fatte tre ma Bisagno è rimasto a comandare perché oltre che essere comandante della Cichero, era il vice comandante della zona, di conseguenza praticamente comandava sempre tutto lui. Sandro, che era il comandante della volante, poi è andato con Giustizia e Libertà. La Garibaldi avevano disarmato quelli della GL; dicevano perché avevano fatto delle prepotenze, ma anche ammettendo questo, non era il caso di disarmarli, erano partigiani anche loro. Hanno disarmato le brigate GL, che poi le hanno rifatte, però secondo il mio parere erano cose dette tanto per ottenere il disarmo. Poi i rapporti si sono appianati ma non facevamo azioni insieme perché non era il caso, eravamo già in difficoltà da soli. Qui c’era il comandante di una Brigata Nera che era a Camogli, Di Martino, e di conseguenza siccome lo rispettavamo tutti lo lasciavamo stare, non siamo mai venuti a seccarlo. Lui voleva che i suoi uomini lasciassero i fucili a casa e che operassero con le mani. A Recco non ci sono state grandi azioni, però ha tanti partigiani; nella mia formazione c’è per esempio “Santo” (Elvezio Massai). C’era una buona zona antifascista ad Uscio. Nella zona di Uscio, a Pannesi, c’era un nostro distaccamento che lo comandava Scrivia, il comandante dell’Oreste, che poi è diventato comandante della Pinan Cichero. L’avevano messo lì perché poteva puntare su Genova. Poi l’hanno trasferito nel tortonese, dall’altra parte dell’Antola, perché hanno ingrandito la divisione. La divisione è fatta di tre brigate, le tre brigate sono la Jori, la Berto, e la Coduri: la Jori la comanda Croce, Banfi comanda l’Oreste e la Coduri la comanda Virgola, che finita la guerra muore schiacciato da un camion. Parlo dell’inizio. Banfi opera qui nell’entroterra di Chiavari, Croce comanda la Jori che opera su Torriglia e la Coduri. Ognuna di queste tre brigate ha 5 o 6 distaccamenti; Croce ha quello di Santo, che si chiama distaccamento Alpino, Guerra, che lo comanda Scalabrino, il Bellucci, che lo comanda Gino e in un certo periodo l’ho comandato io perché lui era in ospedale, perché gli è venuta la scabbia, e poi Mandorli, che lo comanda un carabiniere di cui non ricordo il nome. I distaccamenti erano 4 o 5 ma i distaccamenti sempre operanti erano Guerra, il Bellucci…Poi hanno fatto una volante che operava su Genova e la comandava Gino che attualmente è un comandante della polizia. La Cichero era più grande rispetto alla GL e molto ben armata: le armi venivano dagli scontri coi tedeschi. Le brigate si sono spostate a secondo della necessità e nella zona più prossima a Recco c’era Banfi, c’era la Brigata Oreste, era S.Stefano come zona e di conseguenza picchiavano loro su Recco. Noi picchiavamo più su un’altra parte, da Sturla parlando di Genova, si scendeva dal Montefasce, e da Bolzaneto dove c’era la brigata Balilla, che era un distaccamento per la verità comandato da questo Gino…E questa Brigata operava su Genova. Combattimenti ne sono successi a Barbagelata, dappertutto…tutte le volte che ci scontravamo con i tedeschi. Spiotta faceva dei rastrellamenti, però i rastrellamenti veri e propri l’ha fatti la divisione Monterosa degli alpini; i rastrellamenti di Spiotta erano roba piccola, roba da quindici, venti uomini, però il grosso rastrellamento l’ha fatto la Monterosa. Ma non ha dato nessun danno, sono riusciti tutti a scappare. Però incendiavano villaggi, hanno incendiato la Scoffera, e ci sono stati degli scontri anche. Poi è successo che la Monterosa mi ha preso prigioniero nell’ottobre del 1944 ed ho operato in maniera che una parte della divisione passasse coi partigiani ed è passata ai partigiani. Poi mi hanno liberato perché mi sono messo d’accordo con un tenente, (Ten. Ebner), gli ho detto di venire con noi, che la guerra stava per finire. Qui c’era praticamente solo la GL, come organizzazione, c’era Ivo, (Manuelli), poi è andato in montagna anche lui e qui non c’era rimasto nessuno, perché gli altri erano già in montagna. La Garibaldi con Recco non ha fatto nulla, per lo meno fino agli ultimi giorni prima della Liberazione, quando sono venuti giù, allora è venuto giù Santo e su Recco ci è sceso lui col distaccamento “Alpino”, lui è l’unico che è venuto giù. Ad Uscio, che era una buona base, nel senso che i ragazzi fornivano viveri, c’erano Umberto e Santo e poi sono venuti giù. Quando io sono stato ferito a Torriglia il 20 aprile mi hanno portato a San Martino il 22, Santo era già sceso a Recco. Gli alleati intanto avevano sbagliato strada; da Chiavari sono andati nella Fontanabuona, lì c’è stato qualche piccolo scontro poi sono arrivati a Recco anche loro passando da Uscio ma a Recco sono arrivati prima quelli di Umberto e quelli di Massai, poi sono arrivati gli alleati, che poi hanno proseguito verso Genova. Ma nel frattempo sono venuti anche di sotto dalla statale…Mi sono domandato perché la chiamavano “terza” brigata Garibaldi; per quel che ne so, era una brigata in Spagna, allora si rifaceva a quella. Dal marzo del 1945 hanno cominciato i lanci, ma noi eravamo già armati, Avevamo messo via molte armi che noi ritenevamo vecchie; siccome la nostra era una guerra un po’ ravvicinata, normalmente avevamo bisogno di automatici leggeri, mentre quello che riuscivamo a catturare dai tedeschi erano molti fucili, ma servivano a poco. Poco prima della fine della guerra hanno buttato anche le divise, ci hanno messo in divisa per venire a Genova.
14 luglio 1999
A cura di Yuri Leveratto, figlio di "Biondo".
Redazione, Testimonianza del partigiano Edilio Leveratto (Biondo), Tuttostoria.net, 29 dicembre 2014

sabato 22 marzo 2025

Michele Sindona entra per la porta principale nell'azionariato dell'Unione


Una delle ultime pagine del Libro dei soci della Banca privata finanziaria riferisce che il primo marzo del 1974, su richiesta della Banca Unione di Milano, 7 milioni e mezzo di azioni, che rappresentano l'intero capitale sociale della Banca sono stati trasferiti a nome della Banca unione <23. Di fatto Privata finanziaria è stata venduta o “incorporata“ nella Banca Unione. In seguito a questo provvedimento seguono altri riferimenti inerenti gli annullamenti di azioni sotto vincolo di cauzione degli ex amministratori o dei consiglieri dell'istituto di via Santa Maria Segreta. La fusione tra i due istituti bancari è l'avvisaglia dell'imminente crack. In seguito alla crisi della valuta statunitense Sindona vede implodere il suo sistema bancario ed è costretto a chiedere la fusione dei due istituti.
L'acquisto della Banca Unione è più tardivo rispetto alla Privata che era già controllata nel '61. Nonostante una carriera prodigiosa, bisogna aspettare il '68 per assumere il controllo della Banca Unione, istituto che per certi versi ricorda la Privata (anche in questo caso si tratta di una banca mista <24) ma con una clientela più selezionata e con una storia che inizia sul finire del secondo decennio del Novecento.
La nascita dell'istituto è legata alla famiglia Feltrinelli e all'attività economica che si era andata sviluppando sul finire dell'ultimo decennio dell'Ottocento con la fondazione della Banca Feltrinelli assieme alla famiglia Colombo, prima, grazie ai proventi del commercio e della lavorazione dei legnami, poi per merito dell'operazione di salvataggio della Edison, che lega indissolubilmente la figura di Carlo Feltrinelli alla prima azienda Elettrica d'Italia e al mondo della produzione dell'industria elettrica <25.
Banca unione viene fondata il 27 ottobre 1919, la prima assemblea si svolge presso i locali della Banca Feltrinelli <26 con un capitale di 20 milioni di lire <27, la famiglia Feltrinelli controlla il 15 per cento del capitale azionario <28, altra importante quota azionaria è controllata da imprese di costruzione (la cui presenza tradisce la transizione da Banca Feltrinelli a Banca Unione, all'interno delle attività della famiglia Feltrinelli). Il maggior azionista (25 per cento) è il Credito Italiano. A partire dal '57 è direttore Enrico Marchesano <29.
Un radicale cambiamento nella composizione del portafoglio azionario è registrato in un dei tre Libri dei soci ancora consultabili <30 che si apre <31 il 13 novembre 1968 con il trasferimento di 56.787 azioni intestate alla signora Antonella Feltrinelli d'Ornesson trasferite alla Moizzi e C di Ernesto Moizzi in via Verdi 7 a Milano.
Da questo momento <32 iniziano a comparire trasferimenti alla Common Market Securities SA domiciliata in Lussemburgo (Comarsec). Nella primavera del '69 continuano le girate, stavolta direttamente alla Banca privata finanziaria <33.
A partire da quest'operazione Michele Sindona entra per la porta principale nell'azionariato dell'Unione, prendendo il posto dei discendenti del fondatore dell'Istituto, liberando il Vaticano dalla scomoda convivenza con l'editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli <34.
La cessione dei titoli da parte di Carlo Feltrinelli è stata oggetto di speculazioni <35 ma il carteggio con Cesare Merzagora, amico della coppia, già in rapporti con Sindona, getta luce sulle modalità con le quali l'avvocato di Patti entrò nel capitale di Banca Unione.
I rapporti di Merzagora con l'entourage di Banca unione sono stretti e lontani nel tempo come dimostra la consistenza documentale di carteggi presenti nel suo archivio con varie personalità legate all'istituto ma anche ad azionisti come nel caso dei d'Ormesson <36.
[NOTE]
23 Libro dei soci di Banca privata finanziaria, 1 marzo 1974, Archivio Banca privata italiana, f.62, b. 15. p. 24.
24 Come recita l'articolo 2 dello statuto della banca “la Società ha per oggetto l'esercizio del Credito. Essa potrà quindi compiere con l'osservanza delle disposizioni di legge vigenti, sia per conto proprio che per conto terzi, tanto in Italia che all'Estero, qualsiasi operazione bancaria, mobiliare ed immobiliare, prestare fideiussioni, avalli, cauzioni, interessarsi e partecipare sotto qualsiasi forma in altre Società, Ditte, Aziende priva ed in qualsiasi affare finanziario, commerciale o industriale.” Statuto della Banca Unione, Archivio Banca Privata Italiana, fascicolo 36, scatola 7 presso Archivio Camera di Commercio di Milano.
25 cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-feltrinelli_%28Dizionario-Biografico%29/ e Carlo Feltrinelli, Senior Service, Milano, Feltrinelli 1999.
26 Libro verbale Assemblea dei soci dal 27.10.19 al 17,02.32, Archivio Banca privata italiana, fascicolo 36, scatola 7, presso Archivio Camera di Commercio di Milano. Lo statuto parla di filiali nelle colonie, questo ad indicare i campi d'azione di una banca (il cui carattere è racchiuso nel motto presente nello stemma dell'istituto “In unione fortitudo”, suggerendo che nella complessità vi è la forza dell'istituto). La durata della società è fissata in avanti, al 31 dicembre del 2000. Viene contemplata la possibilità di aumenti di capitale ma è esclusa “di massima” l'emissione di azioni privilegiate ad aventi diritti diversi da quelli delle precedenti azioni”, ripresa chiaramente quando afferma che “ogni azione dà diritto ad un voto”.
27 Il consiglio di amministrazione è formato da Federico Ettore Bulgarotti, Carmine Albino, Carlo Feltrinelli, Giacomo Feltrinelli, Francesco Pasquinelli, Giovanni Prestini, Federico Tobbler. (alla data della fondazione dell'istituto Carlo Feltrinelli è ancora solo commendatore, nella fondazione di Banca privata finanziaria è grande ufficiale).
28 con 6000 azioni. Il portafoglio è costituito da: Bulgarotti (100 azioni), Carmine Albino (100), Carlo Feltrinelli (6000), la Società anonima “Cantieri milanesi” (2000), Società di costruzioni e di imprese fondiarie (2000), Società costruzioni moderne (2000), Giuseppe Feltrinelli (8000), Società anonima G. Gorio per afffari coloniali (6400), Federico Tobbler (200), Francesco Pasquinelli (500), Giovanni Prestini (1000), Augusto Rovigli (500), Credito Italiano (10.000).
29 cfr, http://www.treccani.it/enciclopedia/enrico-marchesano_%28Dizionario-Biografico%29/
30 Sfortunatamente l'Archivio della Camera di Commercio non possiede tutti i Libri dei soci, manca il secondo e il terzo, ma il quarto ci consente di ricostruire l'entrata di Sindona sino alla dissoluzione del capitale sociale e azionario che porta al crack e al commissariamento (atto questo con cui si chiude il successivo registro).
31 Libro dei soci di Banca Unione, volume n. 4, dal 13/11/1968 al 29/12/1970, Archivio Banca Privata Italiana, fascicolo 33, scatola 6. La stessa cartella contiene un appendice documenti fino al 1982.
32 ibidem, annotazione del 20 marzo 1969 su un passaggio di 3840 azioni, cui segue annotazione in stessa data per 1200 azioni trasferite dalla Moizzi e C di Moizzi Ernesto alla Comarsec.
33 annotazione del 2 maggio (per 200 titoli), 9 Maggio (66 azioni), cui si aggiungono nella stessa data altre 67, e ulteriori 67 azioni, il 28 maggio 200 azioni (forse riconducibili all'entourage di Merzagora).
34 Paolo Panerai-Maurizio De Luca, Il crack: Sindona, la DC, il Vaticano e gli altri amici, Milano, Mondadori, 1975, p. 81. La presenza di Giangiacomo Feltrinelli nell'azionariato dell'istituto era causa di disagio per la Santa Sede legata da lungo periodo alla famiglia per via dei titoli azionari. L'ambasciatore della Santa Sede d'Ormesson, discendente dell'aristocrazia nera francese, si era sposato con Antonella Feltrinelli.
35 Alberto Statera riporta la testimonianza di Massimo Spada: «La Banca Unione era controllata dalla famiglia Feltrinelli. Ma nel 1961 l'istituto per le Opere di Religione, al termine di una trattativa fra l'avvocato Enrico Marchesano e me, aveva acquistato dalla Montecatini una partecipazione inferiore al 20 per cento. A un certo punto, il gruppo Feltrinelli e il gruppo d'Ormesson - un d'Ormesson aveva sposato una Feltrinelli - decisero di vendere le loro quote all'avvocato Sindona». Statera conclude che era stato il Vaticano a chiedere di comprare quelle azioni, cui poi aggiunse quelle rilevate dalla Bastogi, perché si trovava in grandissimo imbarazzo per avere come socio l'extraparlamentare di sinistra Giangiacomo Feltrinelli. Alberto Statera, Storia di preti e di palazzinari, L'Espresso 1977, p. 67-68. Questa tesi è ripresa da Ori che sostiene che attraverso i d'Ormesson viene persuasa la sorella di Giangiacomo Feltrinelli a cedere il suo pacchetto d'azioni a Michele Sindona. Ori sostiene altresì che Sindona rileva il pacchetto della Bastogi e mette insieme il 53% togliendo d'incomodo l'imbarazzante personaggio ai finanzieri vaticani. Angiolo Silvio Ori, I faraoni di Milano, Bologna, 1970, p. 30. In, Benny Lai, Finanze vaticane. Da Pio XI a Benedetto XVI, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012, p. 126, riporta una Conversazione del cardinale Vagnozzi nella quale il prelato dichiara: «S'è supposto che il Vaticano fosse grato a Sindona per averlo liberato da una scomoda convivenza societaria con i parenti dell'editore dell'ultrasinistra. Non è vero. Lo Ior aveva sempre rifiutato di vendere la quota dell'Unione acquistata da Massimo Spada nel 1960, una quota pari al 16 per4 cento». La testimonianza di Bagnozzi avvalora maggiormente la lettera di Merzagora di cui sopra, se non vi fosse stato l'intervento del senatore, Sindona non sarebbe arrivato all'Unione. Il disagio della Santa Sede nel coinvolgimento dello Ior e di Spada a tutta la vicenda del banchiere è più un problema giornalistico che storico. Quel che conta è la stima di Merzagora che gli consente di impossessarsi del pacco dei Feltrinelli attraverso il quale controlla l'istituto.
36 La corrispondenza esaminata nell'Archivio Merzagora, conservato presso L'archivio Storico della Presidenza della Repubblica, copre un arco temporale che va dal finire degli Cinquanta alla metà degli anni Ottanta, decennio ancora non consultabile.
Ottavio D'Addea, Michele Sindona e l'economia italiana, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2016

sabato 15 marzo 2025

Tutto è piatto, uguale

Amsterdam. Foto: Gian-Maria Lojacono

Amsterdam è come nei film: i canali, i ponti, i suonatori di strada, le donne esposte nei sexy shops.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

Altre cose in Olanda mi hanno attirato soprattutto nei paesi: gli zoccoli di legno, il gioco dei bambini col cerchio, i villaggi-canale con le barche ormeggiate da anni, con i gerani rossi e le tendine di pizzo alle finestre.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

I mulini a vento che pompano ancora acqua per prosciugare le campagne, i banchetti di fiori di mille colori e, più di ogni cosa, le biciclette.
Ci sono da noi paesi padani dove tutti hanno una bicicletta.
 

Amsterdam. Foto: Gian-Maria Lojacono

Ma in Olanda c'è qualcosa di più: ci sono enormi parcheggi per biciclette vicino alle stazioni, ma anche box su misura coperti e con serratura e agli incroci semafori per le piste ciclabili con le biciclette rosse e verdi.
 

Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

E ci sono biciclette per famiglie numerose dove i posti per i bambini sono almeno due; si capisce perché la classica bici da città si chiama olandese.
 

In una pinacoteca di Den Haag (L'Aia). Foto: Gian-Maria Lojacono

Le dighe dello Zuiderzee chiudono bracci di acqua che erano mare e quasi oceano; le barche a vela ormeggiate danno ancora l'idea del mare in tempesta.
Quando ghiaccia, tutto diventa una enorme pista di pattinaggio, soprattutto per i bambini.
Tutto è piatto, uguale; le colline più alte sono i cavalcavia.
Capisco van Gogh scappato verso il sole di Arles, i suoi girasoli e le ciucche di assenzio.
Arturo Viale, Viaggi, Alzani - Pinerolo, 1993, pp. 51,52 

Altre pubblicazioni di Arturo Viale: I sette mari. Storie e scie di navi e di naviganti e qualche isola, Book Sprint Edizioni, 2024; Punti Cardinali. Da capo Mortola a capo Sant'Ampelio, Edizioni Zem, 2022; La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; L'ombra di mio padre, 2017; ViteParallele, 2009; Quaranta e mezzo; Storie&fandonie; Ho radici e ali; Mezz'agosto, 1994.
Adriano Maini

domenica 9 marzo 2025

Anche la destra “impolitica” aveva creduto di poter godere dell’indiscriminato appoggio degli Usa


Dopo il mancato raggiungimento del premio di maggioranza nel 1953 - che naturalmente avrebbe evitato problemi di allargamento della base democratica - il risentimento degli Stati Uniti nei confronti della Dc aumentò esponenzialmente. Troppo soft nella lotta al comunismo, troppo succube della Chiesa cattolica e poco saldo nel difendere il libero mercato dalle tentazioni stataliste, il partito di De Gasperi e Fanfani era ormai lontano dai successi del ’48. I contatti dell’ambasciata con la destra vanno letti nel quadro della generale delusione provocata dalla Dc.
Al centro dei colloqui con Covelli e Lauro c’era la possibilità di costruire una destra democratica, occidentale ed europeista. Il voto di fiducia e il sostegno a provvedimenti decisivi come la Ced ne avrebbero accelerato l’evoluzione. Come si è visto, l’ambasciatrice Clare Boothe Luce tentò a più riprese di favorire i consensi del Pnm per i traballanti governi centristi o di favorire, con la dovuta cautela, la nascita di un nuovo partito alla destra della Dc. Tuttavia, un’apertura alla destra monarchica così com’era - nostalgica, antimoderna e visceralmente ostile al quadripartito - non interessava <11.
La mancata evoluzione in senso democratico ed europeista del Pnm, timoroso di perdere il proprio elettorato nostalgico, indispettì i funzionari dell’ambasciata. I monarchici, inoltre, erano irritati per la scarsa attenzione ricevuta dagli Usa, sia dal punto di vista finanziario che propagandistico. Secondo Lauro e Covelli, gli Stati Uniti avrebbero dovuto essere entusiasti di sostenere e sponsorizzare un partito connotato da un acceso anticomunismo.
Dopo la scissione del 1954, com’è noto, il potere contrattuale delle due formazioni diminuì. E l’approccio degli Usa si fece più pragmatico. Esaurite le speranze di una destra di ampio respiro - sia territoriale che ideale - monarchici (e missini) tornavano utili solo per intercettare voti estremisti. Dovevano rimanere, quindi, confinati al Sud e rimarcare la propria nostalgia della Corona e del passato regime. Analizzando la copiosa documentazione prodotta dall’ambasciata, si può dire che i contatti coi monarchici fossero volti a cercare una maggiore stabilità e non, semplicemente, a riacutizzare lo scontro <12.
Insomma, né l’idea di destra monarchica che aveva l’ambasciata, né l’idea di America che avevano i monarchici corrispondevano alla realtà. Entrambe le prospettive non avevano tenuto conto di tutti i fattori e impedivano, in fondo, di comprendere chi c’era dall’altra parte.
Tutto ciò non fece che acuire la frustrazione degli Usa e l’attesa di forze nuove in campo. Su questo un possibile terreno d’intesa sembrò concretizzarsi con la destra “carsica”, lontana dalle logiche di Palazzo e dalle lotte tra partiti. La comunanza di vedute tra l’ambasciatrice e Montanelli, per esempio, è impressionante. In particolare, tra il 1953 e il 1954, traspariva l’insofferenza per la Dc e i suoi alleati, così come l’avanzata delle sinistre suscitava viva preoccupazione. Ma era l’intero arco dei partiti erede del Cln a destare perplessità.
Più complesso era trovare una soluzione condivisa che non fosse una generica attesa di “forze sane”. La predisposizione di una destra culturale, di alcuni imprenditori e di settori della burocrazia a sacrificare la democrazia in nome dell’anticomunismo non nascose una fedeltà atlantica ben superiore alla lealtà costituzionale.
Proposte del genere, mai sostenute dal governo italiano, non incontrarono i favori degli Stati Uniti. D’altra parte, lo stesso Montanelli riconosceva che le «pregiudiziali democratiche» americane erano troppo forti <13. In più occasioni, Clare Boothe Luce aveva affermato che si trattava di un problema interno e che gli Usa avevano fatto già molto. Del resto, gli industriali italiani non godevano di buona fama presso l’ambasciata. A parte gli amici personali, Cini su tutti, la classe imprenditoriale venne più volte accusata di riproporre la mentalità del ventennio e di ostacolare il cammino della libera impresa. Emblematico è il fatto che a muoversi fossero solo imprenditori con un background fascista, nonostante l’insistenza americana verso tutta la categoria.
Dunque, anche la destra “impolitica” - in questo simile a monarchici e missini - aveva creduto di poter godere dell’indiscriminato appoggio degli Usa. Da qui una serie di fraintendimenti e delusioni, derivanti dalle proposte irricevibili formulate dagli italiani e dalla convinzione che l’anticomunismo fosse il criterio e non un criterio con cui gli americani si rapportavano al nostro Paese.
Naturalmente, tale convinzione era assai radicata anche a sinistra. L’idea prevalente era che ogni anticomunismo fosse destinato «alla fine a rivelarsi funzionale al fascismo, a diventare fascismo» <14. In quest’ottica, l’operato degli Stati Uniti non poteva che essere interpretato come una dannosa ingerenza. Tanto che nell’Inchiesta sull’anticomunismo del ’54 gli americani venivano perfino incolpati dell’attentato a Togliatti: «neanche l’hitlerismo era arrivato a una forma così diretta e clamorosa di intervento nella vita di altri Stati e di incitamento al delitto». E ancora: "Ciò che gli imperialisti americani soprattutto hanno assimilato e fatto proprio, completamente e senza residui, è il metodo hitleriano di fondare apertamente sull’anticomunismo tutta una politica estera, la quale tende ad assoggettare al loro dominio tutti i popoli e dare agli Stati Uniti la direzione suprema degli affari e delle ricchezze dell’universo intiero" <15.
La realtà era ben diversa. Tenendo conto dei vari limiti interpretativi richiamati, il lascito dell’azione statunitense - in termini di richieste, pressioni e rifiuti - nei confronti della destra è positivo. Se ne può concludere che la presenza degli Stati Uniti ha influito, peraltro molto meno di quanto comunemente creduto, sia sul nostro antifascismo che sul nostro anticomunismo.
I tentativi di stemperare i caratteri più ideologici dell’antifascismo - ossia l’anticapitalismo e la percezione di una perenne minaccia fascista - si sono declinati da un lato nella proposta di una destra europeista e democratica e, dall’altro, nell’accento sulla libera impresa. Piuttosto scarse sono state le risposte dei partiti politici e della società di fronte a queste sollecitazioni <16.
Per quel che riguarda l’anticomunismo del blocco centrista, «non produsse mai l’attenuarsi o il venir meno nel partito cattolico e nei suoi alleati di una larga, effettiva, pregiudiziale antifascista» <17.
Va ricordato che gli Usa non premettero mai per la legittimazione della destra nostalgica. Grazie alla fermezza di Washington, chi aveva cercato di percorrere strade alternative non ha trovato una sponda all’ambasciata. Sicché l’anticomunismo italiano, puntellato ma non estremizzato da quello americano, ha scoraggiato improbabili soluzioni autoritarie che avrebbero minato i fondamenti della nostra giovane democrazia. Anzi, ne ha preservato l’essenza stessa lottando, oltre che col comunismo, con la discutibile equivalenza tra democrazia e antifascismo.
[NOTE]
11 È opinione anche di una personalità certo non vicina alle posizioni dell’ambasciata come Colby, si veda W. Colby, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano, 1996, p. 86.
12 Su questo punto adottiamo una chiave interpretativa diversa da quella proposta da Nuti, secondo cui l’approccio dell’ambasciata - e in particolare della Luce - non era volto ad allargare la maggioranza, ma a mantenere l’avversario
sotto pressione, si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 18.
13 Così Montanelli descriveva l’atteggiamento degli Usa il 20 maggio 1954, si vedano S. Gerbi, R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, Torino, 2006, p. 300; S. Lupo, Partito e antipartito, cit., p. 110.
14 Il riferimento principale è L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo. Appunti e ricordi 1935-1945, Einaudi, Torino, 1947. Si veda E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia, cit., p. 233.
15 Inchiesta sull’anticomunismo, «Rinascita», a. XI, n. 8-9, agosto-settembre 1954, p. 524. Il paragrafo è significativamente intitolato "L’anticomunismo americano continua e perfeziona Mussolini e Hitler".
16 Sulla diffusione del modello americano in Italia resta insuperata l’analisi di P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 319-322. Per approfondimenti si veda D. Ellwood, A. Lyttelton (a cura di), L’America arriva in Italia, «Quaderni storici», a. XX, n. 58, aprile 1985.
17 E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia, cit., p. 242.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010