domenica 25 maggio 2025

Quando Dario Fo e Franca Rame abbandonarono Canzonissima


Gli attori milanesi Dario Fo e Franca Rame, sensibili ai problemi della realtà operaia, nel corso della conduzione del varietà canoro del sabato sera Canzonissima (Programma Nazionale, 1958-1963) nel 1962, scrivono uno sketch su un costruttore edile che si rifiuta di dotare di misure di sicurezza la sua impresa. Giocata su battute semplici, la satira fa però emergere con evidenza la drammaticità della condizione lavorativa. La commissione di censura non ne coglie - o, al contrario, la coglie fin troppo bene - la forza dirompente; tuttavia le notizie sulla gag scatenano le proteste della parte più reazionaria dell’Italia e il plauso di quella progressista. Dario Fo e Franca Rame abbandonano la trasmissione e l’opinione pubblica si divide, con numerose prese di posizione sui giornali per l’una come per l’altra parte. Vi sono anche interrogazioni parlamentari sulla funzione di servizio pubblico della televisione.
Nella prima monografia (del 1977) della collana “Il Castoro” dedicata a Dario Fo, Lanfranco Binni non manca, con parole piuttosto esplicite, di soffermarsi, all’interno di un’attività per lo più teatrale, sulla collaborazione televisiva di Fo. A creare dissenso all’interno della festosità rassicurante della trasmissione è già la sigla, dove la società italiana si presenta per gruppi e cori, reggendo in mano cartelli: sono disoccupati, emigrati, operai in sciopero, carcerati, giovani che intonano la gioiosa "Su cantiam":
"Nell’Italia che ancora non ha ben compreso la portata reale del primo centro-sinistra, già la sigla della trasmissione opera un’azione di rottura, provocando simpatie a sinistra e attacchi da destra. Per gli spettatori di una televisione caratterizzata dal più squallido conformismo e dalla più servile osservanza nei confronti del potere politico ed economico, è senz’altro singolare ascoltare una sigla che allegramente dice, su sottofondo di musica da circo: «Popolo del miracolo / miracolo economico / oh popolo magnifico / campion di libertà» […] Attraverso il gioco ironico fra serio e non serio, attraverso le battute sulla stessa televisione, su industriali che amano i «loro» operai, trasmissione dopo trasmissione passano frecciate sempre più caustiche ed esplicite (che incontrano il favore del grande pubblico popolare) finché la censura televisiva non interviene pesantemente sul testo di una trasmissione: proprio mentre nel paese è in corso una dura lotta degli edili (che vede duri scontri con la polizia a Roma), Fo sottopone alla commissione televisiva uno sketch sulle speculazioni degli impresari edili. Il copione viene fatto a pezzi. Dario Fo e Franca Rame respingono il ricatto, e denunciano la repressione dell’ente di stato nei loro confronti <21.
Da notare, inoltre, come lo stesso Binni sottolinea che, nello stesso anno della vicenda, il 1962, Fo comincia la collaborazione con il «Nuovo Canzoniere Italiano», sorto su iniziativa di un gruppo di intellettuali, fra cui Gianni Bosio, già animatore della rivista Movimento operaio, «proprio mentre a Torino Raniero Panzieri organizza la rivista Quaderni rossi». Sono ancora una volta i riferimenti culturali dell’operaismo impegnato a contrapporre alla politica culturale interclassista della sinistra italiana un’azione provocatoria e a contribuire alla costruzione di un’egemonia culturale di classe del movimento operaio. E, come già abbiamo accennato nel capitolo precedente, la strategia utilizzata sarà quella dell’esplorazione e della riscoperta della tradizione musicale popolare.
Tornando a Canzonissima, Chiara Valentini ricostruisce così i fatti inerenti l’episodio: "Due giorni dopo, il 26 novembre, mentre sta facendo gli ultimi preparativi per andare in onda, Fo riceve una singolare richiesta da Roma: trasmettere in bassa frequenza le prove dello sketch. È una pretesa abbastanza curiosa, visto che le scenette previste per la serata sono già state discusse e ritoccate fino alla nausea. Delle tre che dovevano andare in onda una, sulle ragazze che arrivano in città a far le cameriere e finiscono nelle mani di brutti tipi, è stata addirittura abolita. È passata la seconda, su una coppia di svitati. E la terza, la più sostanziosa, è già stata manipolata. Racconta di un imprenditore edile che quando viene a sapere che un suo operaio è caduto da un’impalcatura si dispera, elenca tutte le misure di sicurezza mai rispettate, promette di cambiare. Ma appena arriva la notizia che l’incidente è stato piccolo si rimangia tutto. Fo non ha ancora finito di esibirsi nelle smorfie e nelle piroette del padrone di cattiva coscienza, che il telefono sta già squillando. Anche se rimaneggiata la scenetta non può essere trasmessa: è in corso nel paese uno sciopero degli edili, è stata anche la mediazione del governo, un ente pubblico come la RAI non può interferire occupandosi dell’argomento. Minacce, preghiere, insistenze di Fo, che convoca anche i suoi avvocati, sono inutili <22.
La puntata prevista (l’ottava) di Canzonissima andrà in onda in forma ridotta (mezz’ora) e incompleta, ossia mantenendo esclusivamente le canzoni già registrate; così per le puntate successive, salvo la finale del 6 gennaio condotta da Corrado. Successivamente, si scatena una piccola bagarre nazionale, fatta di interrogazioni parlamentari, di convocazioni urgenti della commissione di vigilanza Rai (da parte del comunista Davide Lajolo), di cause e denunce; Fo e Rame citano la Rai per danni, la televisione a sua volta fa loro causa, buona parte dell’opinione pubblica nazionale è loro favorevole, buona parte dei giornali dedica al caso editoriali e commenti; il trambusto che ne segue è tale che il premier Amintore Fanfani sostituisce il ministro delle Comunicazioni Guido Corbellini con Carlo Russo. L’episodio marca definitivamente la carriera dei due attori che da quel momento diventano non solo popolari presso ampie masse di pubblico, ma soprattutto acquisiscono quella simbolicità contestataria (l’apice della quale è raggiunto a partire dal Sessantotto) che li caratterizzerà fino alla fine delle loro carriere.
Un articolo di Aldo Grasso <23 ha riportato il canovaccio dello sketch (scritto con Leo Chiosso e il regista Vito Molinari) mai andato in onda:
«IMPIEGATO: Ecco il preventivo delle strutture di protezione per gli operai. Sono sei milioni compresa la rete. Facciamo l’ordinazione?
INGEGNERE: L’ordinazione di sei milioni, ma dico siamo rinscemiti. Ma come io sto qui che ho una faccia un po’ giù che avrei bisogno di riposarmi per far funzionare ’sta baracca... e tu mi vuoi far buttar via sei milioni. Per chi poi? Ma dico, da quando in qua si usano i poggiamano, le balaustre?
IMPIEGATO: Ma veramente le altre imprese...
INGEGNERE: Le altre imprese, le altre imprese. Basta con ’ste ciance.
IMPIEGATO: Allora non se ne fa niente... nemmeno della rete?
INGEGNERE: La rete? Ma uè, e che, siamo al circo equestre... con la rete e senza rete? Ma cosa vuoi che ci metta, anche la banda, il trapezio e le ballerine sul filo? Così, tanto per fare un po’ di scena? Ma basta, andiamo! Siamo seri.
RAGAZZA: Antonio io sono ancora qui.
INGEGNERE: Bel stellin... Guarda lei. Scusa di prima sai... ma ecco è stato un momento di debolezza. Ma adesso guardami, sono ritornato un uomo. Vieni vieni che ti porto dal ciafferaio.
RAGAZZA: Da chi?
INGEGNERE: Dal gioielliere a riprenderti un bell’anellino e che crepi la miseria... per la miseria.
RAGAZZA: Oh caro!
INGEGNERE: Ehi, fai avvertire gli operai che il primo che casca gli spacco il muso.»
Al di là dell’eco che la vicenda ha riverberato e del mero valore di caso storico, è di nostro interesse rilevare come la questione delle morti sul lavoro e della sicurezza per prevenirle - già presente in filigrana, come abbiamo visto, nelle prime inchieste paleotelevisive - costituisca un oggetto di discorso spinoso se non tabù, persino sottoforma di accenno all’interno di uno sketch teatrale.
Quando, nel 1975, Dario Fo si ripresenterà negli studi Rai per presenziare nel corso di una Tribuna elettorale, in quanto candidato di Democrazia Proletaria, comincerà il proprio intervento proprio partendo dai 13 anni di forzata assenza dalla televisione per una vicenda che non mancherà di riassumere ai telespettatori, entrando nel merito delle motivazioni e dei temi.
Un’ultima notazione è necessaria a proposito di un altro contesto, quello radiofonico. Nel 1953, nel corso del varietà radiofonico Chicchirichì, l’esordiente Fo aveva interpretato, su testi di Umberto Simonetta, il personaggio dell’impiegato Gorgogliati, ponendosi in controtendenza rispetto alle raffigurazioni offerte dal settore dell’entertainment; è infatti, quella dell’impiegato, una figura sociale e professionale che, come in parte abbiamo potuto notare, risulta pressoché assente dalle produzioni Rai.
[NOTE]
21 L. Binni, Dario Fo, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp. 28-29.
22 C. Valentini, La storia di Dario Fo, Milano, Feltrinelli, 1977, Seconda edizione riveduta e ampliata 1997, p. 82.
23 A. Grasso, Dario Fo e «Canzonissima 62», censura che meriterebbe una fiction, in «Corriere della Sera» del 14 ottobre 2016.
Matteo Macaluso, Forme e narrazioni del lavoro nelle produzioni Rai, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2025

 

martedì 20 maggio 2025

Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti


Si sta aprendo [maggio 1945] infatti già un altro terreno per lo scontro sociale che, accanto alla questione del dualismo di potere, riempirà i contenuti della politica del conflitto in questo periodo: quello dei criteri della Ricostruzione, nei termini dei soggetti sociali che dovranno guidarla e di quelli che dovranno invece fare i sacrifici necessari. Passato infatti il periodo iniziale in cui il padronato sostanzialmente ignora la presenza degli organismi dei lavoratori, già da giugno si avviano a livello centrale e periferico contrattazioni e accordi che mirano a neutralizzarne il peso politico acquisito, riequilibrandolo a favore degli imprenditori. Dal 2 giugno i CLN sono stati depotenziati e trasformati in organismi puramente consultivi, senza alcun potere effettivo.
Tuttavia nei mesi successivi lo spontaneismo e l’organizzazione autonoma nei luoghi di lavoro, prodotti dai venti mesi della Resistenza, continuano a dimostrarsi centrali nel contesto meneghino, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro. Fatta eccezione per la FIOM, dove la maggior forza dei metallurgici e la loro lunga tradizione politica permette una rapida riorganizzazione, gli altri settori formano spontaneamente decine di Comitati di iniziativa sui luoghi di lavoro, premessa alle strutture di categoria sindacale: nel solo mese di maggio si registrano, nelle poche fonti (principalmente l’Unità) attente ad osservare il
fenomeno, la fondazione di Comitati di iniziativa dei tipografi e dei librai, Comitati per la creazione di un sindacato degli idraulici e degli elettricisti, parrucchieri, autisti e persino compositori di musica leggera; a metà mese si ricostituisce anche la Federterra (sebbene questa, come vedremo, conosce uno sviluppo complesso nel milanese), mentre successivamente nascono Comitati di iniziativa presso tessili, chimici, edili, lavoratori del marmo e alimentaristi, sarti, orafi e argentieri, lavoratori della scuola privata e dipendenti pubblici. A giugno nascono i Comitati per la ricostruzione sindacale dei dipendenti degli uffici finanziari, del settore alberghiero, degli addetti allo spettacolo postatelegrafi. <328
La ricostruzione sindacale a Milano inizia dunque all’esterno della Camera del Lavoro, per poi successivamente affiliarsi ad essa. È un processo che esprime quella volontà di far da sé propria della tradizione operaista e che ricorda, osservandola da vicino nelle categorie che per prime danno vita ai Comitati di iniziativa (metallurgici e tipografi), la nascita delle prime società di mutuo soccorso e resistenza. Il vertice camerale, rappresentato in questo momento dal comunista Giuseppe Invernizzi, nonostante la ferrea logica centralizzata, accetta senza intromissioni questa riorganizzazione spontanea che supplisce alla mancanza di quadri e alle insufficienze strutturali dell’immediato dopoguerra. Nota Torre Santos: "Il risultato in ogni modo era una struttura relativamente improvvisata, adattata alla realtà delle singole categorie - e dunque anche all’eredità della clandestinità sulle stesse -, che sarebbe comune ad altre realtà del Nord". <329 Peculiarità già notata a suo tempo da Invernizzi: "Le forme di organizzazione seguite a Milano non sono evidentemente quelle di tutta l’Alta Italia. È a nostra conoscenza che in altre province si sono trovate altre soluzioni ai problemi organizzativi". <330 Al tempo stesso, sono le Commissioni Interne già operanti durante la guerra a svolgere il ruolo che più tardi assumeranno le federazioni di categoria, parallelamente a una funzione di riequilibrio di potere: "L’immediata costituzione fin dai giorni successivi alla Liberazione impone loro l’onere di formulare autonomamente le nuove regole del gioco sindacale all’interno dell’azienda, senza poter fare affidamento su un sistema di contrattazione esterno o su altri punti di riferimento normativi o istituzionali, contando così solo sui rapporti di forza che si trovano ad esprimere. […] Con l’acquisita libertà di organizzarsi, dopo il 25 aprile, la centralità delle commissioni interne si esplicita pienamente: esse si caratterizzano anche come organismi a stretto contatto con i lavoratori, capaci di intervenire sui mille problemi che emergono dalla vita quotidiana di fabbrica". <331
La situazione disastrosa dell’economia, la grande miseria delle classi subalterne urbane e rurali alla fine della guerra, fanno sì che la questione della sopravvivenza resti uno dei temi centrali di continuità nel conflitto sociale anche nel dopo-Resistenza. Questione che in questi primi tempi si cerca di risolvere autonomamente, con un’organizzazione precipua in ogni fabbrica, ma ispirata dai medesimi principi di autosufficienza; in questo la figura del collettore sindacale (spesso coincidente con il collettore di partito, intendendo qui il PCI, l’unico che avesse nella sua tradizione culturale-organizzativa l’esperienza delle cellule), come agente di raccolta delle necessità dei lavoratori e loro rappresentante di fronte al proprietario, è peculiare della cultura operaia presente nelle fabbriche lombarde (in particolare di Milano, Brescia e rispettive province). Così Angelo Fumagalli, classe 1912, nel direttivo della FIOM milanese e operaio della Ercole Marelli di Sesto, ricorda i motivi alla base degli scioperi del dopoguerra: "Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Prima le indennità, disagio, fatica, calore. L’indennità di presenza l’avevamo già conquistata durante la guerra, e da lì era cominciato il discorso. Poi il cottimo, che in alcuni casi superava anche di due volte la paga base. Ma il cottimo, per [gli ultimi] arrivati, non giocava molto: ci voleva del tempo per raggiungere un certo tetto. Allora sotto col passaggio di categoria, gran battaglia per la riqualificazione generale. […] Si era usciti dalla guerra con la fame, una fame vecchia. […] Si esce dalla guerra e il problema non cambia: fame era e fame resta. La prima grossa battaglia è stata quella della mensa, e non è stato facile spuntarla. […] Dopo la guerra erano i bisogni elementari quelli che urgevano. Allora il modo di vivere era semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti". <332
Battaglia per i bisogni elementari dunque, alimentazione su tutto, contro la disoccupazione e per condizioni di lavoro migliori, come ad esempio avviene a Lodi dove i lavoratori industriali dichiarano uno sciopero a tempo indeterminato il cui motivo è la mancanza di generi alimentari. Ma sono vertenze dove molto forte è anche il contenuto politico, legati alla defascistizzazione dei luoghi di lavoro. Da fine maggio ad agosto la città è attraversata da intense ed estese agitazioni sociali, non solo degli operai di fabbrica, ma anche di massaie e impiegati pubblici. Il picco viene raggiunto a metà giugno, quando una grande ondata di conflitti coinvolge tutta la Lombardia e in particolare gli stabilimenti milanesi: si sciopera contro la mancata condanna a morte del dirigente fascista Carlo Emanuele Basile, ma anche per chiedere parità tra salario e costo della vita, calmiere sui prezzi, controllo dei lavoratori su costi di vita e borsa nera, inquadramento dei partigiani nelle forze di polizia. Appare uno strettissimo nesso tra l’epurazione (dei fascisti, identificati con gli affamatori del popolo) e la ricostruzione economica, basata sul principio  dell’autodeterminazione dei lavoratori.
I conflitti di maggio e soprattutto giugno appaiono ancora difficilmente controllabili dalla Camera del Lavoro: per due volte i vertici camerali diramano comunicati in cui invitano i lavoratori a cessare lo sciopero (divenuto quasi generale ed esteso dal capoluogo alla provincia), senza ottenere alcun risultato. "L’azione della Camera del lavoro tenterà di trasformare la spinta dei lavoratori in miglioramenti concreti, che rafforzino sia il ruolo del sindacato tra le sue basi sia la sua forza contrattuale verso la controparte imprenditoriale. Tale impostazione aveva però bisogno di una premessa fondamentale: il sindacato doveva diventare l’interlocutore unico e in questo senso doveva dimostrare la sua capacità di riuscire a controllare il conflitto. E ciò non era semplice nel giugno 1945; il 19 giugno, la Camera del lavoro di Milano invita i lavoratori alla cessazione degli scioperi […]. L’appello non ottiene i risultati previsti, anzi, il 20 giugno è una giornata di forte conflittualità. […] La Camera del lavoro di Milano emette un nuovo appello per la cessazione dei conflitti che per la seconda volta non riesce a fermare un’ondata di scioperi che invece si estende alle province limitrofe […]". <333
I vertici camerali, formati in questo momento da esponenti del mondo operaio (soprattutto nelle sue componenti comunista e socialista), riescono a ottenere importanti risultati e grande credito nella base altamente instabile: accordi sullo sblocco salariale e sul controllo dei prezzi, attraverso la creazione dei Consigli di gestione e il temporaneo rafforzamento dei Cln aziendali; il cosiddetto "Accordo di Milano" siglato in doppia ripresa il 29 maggio e il 23 giugno, da Camera del Lavoro e Unione Industriali, sull’indennità di contingenza. I successi ottenuti causano paradossalmente alta instabilità nelle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro meneghina, a causa soprattutto della prevista divisione in tre zone della provincia di Milano per l’applicazione dell’indennità: le Camere succursali e le ramificazioni periferiche chiedono parità di trattamento e attuazione immediata del programma; la protesta è spia di un contesto non ancora centralizzato e anzi dove le spinte all’autonomia sono molto forti, soprattutto nei confronti del vertice milanese, oggetto della protesta assieme agli industriali: "Catalizzatori delle proteste saranno le commissioni interne, che in questo modo mostrano nuovamente il loro carattere di contropotere nei confronti della Camera del lavoro e la loro vicinanza alla base, espressa in numerose assemblee. Dalle fabbriche, il malessere si estende alle strutture sindacali, in particolare alle Camere del lavoro succursali più importanti, che criticano aspramente l’accordo". <334
[NOTE]
328 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., pp. 49-51
329 Ibidem, p. 52
330 G. Invernizzi, Proposta di una alleanza del lavoro, p. 27, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 52
331 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, pp. 64-65, Ediesse 1999
332 G. Manzini, Una vita operaia, pp. 77-78, Archivio del Lavoro 2007
333 J. Torre Santos, op. cit., pp. 77-78
334 Ibidem, p. 80
Elio Catania, Il conflitto sociale: "motore della Storia" o "tabù" storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

lunedì 12 maggio 2025

Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare


In un rapporto politico del 15 novembre 1940 al Ministero affari esteri redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, egli sottolinea che “(...) le disposizioni repressive contro il comunismo, emanate dopo lo scoppio della guerra, nel 1939, rimangono pienamente in vigore e quindi ogni manifestazione del partito deve considerarsi illegale e clandestina; pur tuttavia le autorità tedesche, all'inizio dell'occupazione, non soltanto non hanno ostacolato la propaganda comunista, ma l'hanno tacitamente favorita, permettendo anche il ritorno in Francia di Thorez e Duclos che erano stati condannati in contumacia dai tribunali militari francesi. Poiché il partito aveva una rispondenza innegabile fra le masse operaie, si sperava probabilmente che la sua attività si sarebbe inquadrata nelle direttive germaniche (…); si è cercato inutilmente di orientare gli operai verso la lettura del nuovo quotidiano 'France au travail' a carattere estremista e sovversivo; ma strettamente controllato dai tedeschi. All'inizio ha funzionato e le masse operaie si sono avvicinate al movimento verso il quale andavano le proprie simpatie e 'France au travail' ha raggiunto una tiratura di oltre 250.000 copie. Senonché ben presto l'attività comunista è sfuggita dalle mani dell'autorità d'occupazione e la sua propaganda si è orientata in senso assolutamente contrario a quello desiderato; a questo punto le autorità tedesche hanno tolto non soltanto ogni appoggio, ma hanno escluso tra l'altro tutti i militanti o simpatizzanti comunisti dalla stampa della zona occupata, hanno cominciato a reprimere in forma sempre più severa ogni tipo di manifestazione marxista. Gli arresti si sono susseguiti agli arresti, la polizia tedesca ha coordinato la propria azione con quella francese e particolari accordi sono stati presi anche con la zona libera per provvedere sempre più efficacemente all'azione repressiva del comunismo. Malgrado ciò l'influenza del partito comunista continua ad esercitare saldamente, soprattutto nelle masse industriali della zona occupata; manifesti, opuscoli, copie dell'Humanité, stampate alla macchia, vengono distribuite ad onta degli arresti e delle severe repressioni.” <190
Dal 20 giugno 1940 a Parigi, la direzione del PCF si ricostituisce con Duclos, Tréand, responsabile dei quadri, e Jean Catelas, deputato nella zona della Somme, e si intraprendono a Parigi, col mandato dell'Internazionale Comunista, delle trattative con i tedeschi, nella persona di Otto Abetz, l'ambasciatore tedesco a Parigi, per ottenere la comparsa legale del giornale l'Humanité. Il PCF non adottò alcun atteggiamento ostile verso l'occupante e durante tutto il periodo delle trattative, fino alla fine di agosto 1940, non vi è nessun attacco nemmeno nei numeri clandestini de l'Humanité. In cambio Otto Abetz libera più di 300 comunisti arrestati sotto la III Repubblica morente. Parallelamente nei comuni limitrofi alla capitale vengono organizzate delle manifestazioni per esigere il reinsediamento dei sindaci decaduti e il riconoscimento degli ex leader sindacali comunisti. Abetz afferma in una nota del 7 luglio 1940 che l'intento dei tedeschi è quello di accattivarsi la fiducia delle masse intrise di marxismo e di far assumere ai comunisti la responsabilità della gestione municipale nei loro vecchi comuni. Tali intenti non furono condivisi da molti militari tedeschi e le trattative alla fine furono un fallimento. Da parte della direzione comunista, gli obiettivi erano quelli di sfruttare tutte la vie legali, nell'illusione di intravedere alcune prospettive offerte dal vuoto politico consecutivo alla sconfitta, e nella visione di una interpretazione ampia del patto Molotov-Ribbentrop. <191
Il testo de “l'Appel du 10 juillet 1940” diffuso dal PCF e firmato da Jacques Duclos e Maurice Thorez (allora a Mosca, dove arrivò nel novembre 1939) oltre a non comprendere nessun attacco contro i tedeschi non precisa che debbano essere sviluppate delle azioni contro le forze di occupazione. Il partito sul momento si occupò della propria ricostruzione, e della difficile situazione economica e della sofferenza degli operai parigini. Paradossalmente il PCF si pose sulla stessa linea politica di Vichy: accetta quindi la sconfitta e si occupa della ripresa economica.
Fino al giugno 1941 il PCF avrebbe definito la guerra come guerra imperialista dalla quale le forze rivoluzionarie dovevano astenersi, la principale lotta da portare avanti era quella contro il capitale e contro la sua classe borghese responsabile del disastro che si è abbattuto sulla Francia.
L'atteggiamento verso i tedeschi a partire dalla fine di agosto 1940 cambia, si rompe definitivamente ogni contatto con l'ambasciata del Reich e da ottobre i tedeschi danno il loro consenso all'operazione lanciata dalla polizia francese contro i comunisti della Senna: più di 300 persone furono arrestate nelle proprie case, per lo più vecchi eletti e militanti sindacalisti, alcune settimane più tardi l'incontro di Pétain con Hitler a Montoire, il 24 ottobre 1940, sancì la collaborazione franco-tedesca.
L’impatto dei comunisti sulla popolazione parigina è stato notevole negli anni dell'occupazione: hanno saputo parlare delle difficoltà insormontabili dei cittadini e hanno dato prova, nell’apatia generale dei primi mesi di occupazione, di una sorprendente attività. I volantini comunisti denunciano le insufficienze di vettovagliamento, reclamano dei sussidi più alti per i disoccupati e per le mogli dei prigionieri, preconizzano la distribuzione di zuppe popolari, protestano contro l’aumento dei prezzi e il blocco dei salari; di fronte al silenzio della stampa autorizzata, la stampa clandestina comunista, la sola importante fino al ’42, esprime e sostiene le rivendicazioni popolari.
Inoltre il partito cerca di inquadrare la popolazione parigina, creando dei “comitati di disoccupati”, oppure a lato dei sindacati legali istituisce dei “comitati di fabbrica”, organizza poi buona parte degli emigrati, in primo luogo gli antifascisti. <192
Promuove le azioni di resistenza: sabotaggi, manifestazioni, attentati, scioperi. In un rapporto politico dell'Ambasciata italiana del novembre 1940 riguardo al partito comunista si riporta che nel settembre 1940, all'inizio delle restrizioni alimentari, in alcuni quartieri popolari (Montmartre, Mouffetard) e nei comuni di Gennevillier, Pantin, la Plaine Saint-Denis, si sono avute delle agitazioni. <193
Per riuscire a sopravvivere sotto l’occupazione occorreva possedere numerose carte rivestite di un timbro ufficiale: la carta d’identità, la carta di alimentazione nonché i documenti ordinari dello stato civile, dei certificati di smobilitazione, di residenza e di lavoro, delle autorizzazioni per potere circolare (la notte, in macchina, in bicicletta). In quanto ai documenti tedeschi, essi erano vantaggiosi in caso di controllo, ma per essere imitati, dovevano essere redatti in carattere gotico. I gruppi della resistenza si dotarono quindi di numerosi atelier per la fabbricazione di tali documenti. Una delle maggiori operazioni della resistenza fu la fabbricazione e l’attribuzione di documenti falsi per coloro che erano perseguitati dall’occupante: ebrei, prigionieri di guerra evasi, spagnoli repubblicani, tedeschi antinazisti e altri stranieri in situazione irregolare, resistenti braccati. Il loro numero andava crescendo di giorno in giorno così che una vera industria di falsificazione nacque e prosperò a Parigi.
I comunisti organizzarono delle manifestazioni per sfruttare i numerosi motivi di scontento, e volendo coinvolgere tutta la popolazione invitarono le mamme e le casalinghe a reclamare con forza e quotidianamente: pane, latte, scarpe, vestiti e a protestare contro l’aumento dei prezzi; gli operai ad esigere migliori condizioni di lavoro e un aumento dei salari. Il partito, per la Commemorazione di Valmy, il 20 settembre 1942 distribuì decine di migliaia di volantini contenenti parole d’ordine destinate alla folla. Il 13 giugno 1943 più manifestazioni hanno luogo, ad intervalli ravvicinati, in alcuni paesi della periferia parigina nonché in città. Il 13 agosto del ’41 a Saint-Lazare sfilò un corteo che sfociò in un conflitto a fuoco con la polizia, ci furono numerosi arresti e cinque persone furono fucilate.
Un’azione di massa contro i nazisti è lo sciopero, proibito sia dall’occupante che dal governo collaborazionista di Vichy, era doppiamente illegale e pericoloso, inoltre era difficile da organizzare poiché il sindacato ufficiale si opponeva. I comunisti, per convincere gli operai a scioperare pongono l’accento sul fatto che i nemici da combattere non erano solo Vichy ed i tedeschi ma anche il capitalista, il padrone che con loro faceva buonissimi affari. La stampa comunista clandestina ripete con fervore che: “Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare”. <194 Il partito, che ha ben presente l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche del 1936, si prefigge come obiettivo finale lo sciopero generale ma questo andava preparato attraverso la ripetizione di scioperi più piccoli e brevi. Gli scioperi hanno delle valide motivazioni come ad esempio il rifiuto dell’obbligo di andare a lavorare in Germania, ma vi furono anche scioperi in giorni simbolici come il primo maggio, il 14 luglio, l’11 novembre. Gli arresti sul lavoro da parte della polizia tedesca furono numerosi soprattutto a partire dal ’42. Gli scioperi furono una pratica di resistenza usata soprattutto dai comunisti. Nel maggio '41, in un rapporto politico il Console [d'Italia] Orlandini parla della preoccupazione delle autorità tedesche verso il movimento comunista che è forte e violento forse più in provincia che a Parigi, nel nord e sulle coste dove organizza scioperi e atti di sabotaggio. <195
Con l'attacco del giugno 1941 all'Unione Sovietica, la propaganda riprende ancora più forza e vigore e l'organizzazione comunista in Francia, disciolta ma mai scomparsa, è la sola vivente e attiva, così si esprimerà sempre Orlandini parlando della situazione politica dopo l'inizio della campagna di Russia. <196 Dopo l’attacco della Wehrmacht all’URSS, divenne ancora più evidente l'importanza di sabotare i nazisti e l'economia di guerra, era quindi necessario ridurre le fabbricazioni francesi a beneficio dei tedeschi, paralizzare il lavoro delle industrie francesi, deteriorare le macchine, frenando i trasporti verso la Germania, creare agitazione sui cantieri. Ogni sabotatore preso sul fatto, rischiava la fucilata, la deportazione e la tortura. Per i comunisti, a differenza di altri movimenti resistenziali, il sabotaggio contro la macchina da guerra tedesca deve interessare chiunque e deve avvenire in ogni momento. Ognuno nel suo ambiente deve passare all’azione, “lavorare significava produrre con coscienza del materiale difettoso”. <197 Il numero di sabotaggi, durante l’occupazione tedesca fu enorme, una buona parte furono effettuati dai tre gruppi comunisti raggruppati nell'Organisation Spéciale', le OS francesi, direttamente collegate al PCF, gli OS che provenivano dagli stranieri legati al PCF tramite la MOI, le OS-MOI, e le giovani formazioni comuniste denominate dopo la guerra, Bataillons de la jeunesse. <198 In seguito i gruppi dell'OS sarebbero diventati i Franc-tireurs e partisans francesi, FTPF, e stranieri, FTP-MOI.
[NOTE]
190 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48 Rapporto redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, pp. 6-7.
191 D. Peschanski, Les avatars du communisme français, de 1939 à 1941, in J.P. Azéma, F. Bédarida, La France des années noires, Paris, Seuil, 2000, pp. 418-420.
192 H. Michel, Paris résistant, Editions Albin Michel, Paris, 1982, pp. 34-35.
193 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici, Politica interna ed estera 1940, b. 46.
194 H. Michel, op. cit., p. 173.
195 MAE, Affari politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48, 13 maggio 1941.
196 Ivi.
197 H. Michel, Paris résistant, op. cit., p. 160.
198 D. Peschanski, La confrontation radicale Résistants communistes parisiens vs Brigades spéciales, in F. Marcot e D. Musiedlak (a cura di), Les Résistances, miroir des régimes d’oppression. Allemagne, France, Italie, 2006, p. 7 actes du colloque international de Besançon organisé du 24 au 26 septembre 2003 par le Musée de la Résistance et de la Déportation de Besançon, l'Université de Franche-Comté et l'Université de Paris X, Besançon: Presses universitaires de Franche-Comté, 2006, p. 341.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013