mercoledì 29 gennaio 2025

Gladio come parafulmine?


Avviandoci alla conclusione di questo elaborato, cerchiamo di analizzare questa mole di informazioni raccolte fino ad ora e fare chiarezza. Ancora oggi è frequente veder associare la struttura Stay Behind, nota ai più come Gladio, ai peggiori eventi delittuosi della storia della Repubblica, stragi e non solo. L'errore più comune è quello di perseverare nel mantenere una visione unicamente “monocausale” negli anni della strategia della tensione, nella quale terrorismo e tentati colpi di Stato troverebbero l'esclusiva spiegazione nell'esistenza di una sorta di “cupola politico-militar-industriale”, che si rifà agli USA, ritenuti il “motore” di ogni atto eversivo, e la successiva esecuzione da parte della cosiddetta “manovalanza neofascista”, nella quale Gladio viene ritenuta parte integrante <15.
Va detto che quello che è passato alla storia come Gladio in realtà non si chiamava affatto così. Infatti Gladio non era il nome dell'organizzazione, ma quello piuttosto dell'“operazione” attraverso la quale la struttura Stay Behind venne attivata in Italia, oltre che il nome del comitato italo-americano che presiedette la creazione dell'organismo, il “Gladio Commitee” <16. Utilizzata per l'ultima volta il 26 gennaio 1966, l'espressione Gladio venne accantonata definitivamente e il comitato venne sciolto. Il motivo della “struttura senza nome” fu la causa principale del caos creatosi con l'inchiesta sulla “Rosa dei Venti”. Cavallaro e Spiazzi parlarono di una “Organizzazione X” (riconducibile oggi ai Nuclei di Difesa dello Stato), Miceli poi, capo del SID, smentiva i primi due sull'esistenza di questa struttura, ma confermava invece l'esistenza di un cosiddetto “SID parallelo”. Altri mettevano in relazione Gladio con le proprie esperienze intrecciate con altri organismi, più o meno diversi, che operavano nel medesimo contesto. Su questo, Giannuli parla di una “magnifica operazione di nebbia di guerra”, definendolo uno dei più riusciti depistaggi della storia <17.
Nella parte dell'elaborato dedicata alla “Rosa dei Venti” abbiamo visto come gli imputati Spiazzi e Cavallaro, cercando inizialmente di affermare, poi di aggiungere, sfumare, rettificare e infine ritrattare quanto da loro dichiarato, arrivarono in un modo o nell'altro a rivelare l'esistenza di una struttura formata da civili e militari, con un'ideologia anticomunista e in connessione diretta con esponenti della destra extraparlamentare. Ma fin da subito, proprio a causa del loro impaccio nel cercare di imbastire una difesa, non si riusciva a capire se questa Organizzazione X si rifacesse ai servizi in senso ufficiale (e quindi inserita in una catena di comando) o se fosse solamente un insieme di soggetti accomunati dalla lotta (eversiva) al comunismo, tra i quali c'erano anche esponenti delle forze armate che si riconoscevano parte di gruppi politici come quello di Ordine Nuovo. Inoltre, veniva dichiarato che questa struttura clandestina era relativamente “giovane”, cioè creata, secondo Spiazzi, dopo l'aumento della propaganda marxista della sinistra extraparlamentare e le contestazioni operaie e studentesche del 1968 <18. Ripercorriamo brevemente cosa accadde negli anni immediatamente precedenti. Nel 1965 vi era stato a Roma, all'Hotel Parco dei Principi, il convegno sulla “Guerra rivoluzionaria”, al quale parteciparono numerosi esponenti ed intellettuali della destra, ma anche ufficiali militari. Inoltre, l'evento, presieduto dal Colonnello Renzo Rocca, dell'allora SIFAR, era stato organizzato dall'Istituto di Studi Militari “A. Pollio”, finanziato dal Servizio. Il congresso si incentrava sullo studio della guerra rivoluzionaria della sinistra sovietica e definiva quella che sarebbe stata l'unica risposta adeguata a combatterla. L'anno successivo, in due periodi diversi, migliaia di ufficiali italiani delle forze armate ricevettero dei volantini che richiedevano la loro adesione ai Nuclei di Difesa dello Stato, per stroncare l'“infezione” delle sinistre.
Nel 1967, la Grecia si trovò all'improvviso guidata da un'élite di militari che avevano preso il potere con un colpo di Stato, quindi con le armi. Gli anni che seguirono, lo abbiamo visto, furono quelli delle stragi in Italia. Ora, se nelle affermazioni del Colonnello Amos Spiazzi del 1973 troviamo la “generica” nascita di una struttura segreta anticomunista in seguito alle agitazioni di piazza del 1968, allora questa struttura non può identificarsi in Gladio, in quanto quest'ultima era già nata ufficialmente nel 1956. È doveroso ricordare poi che prima di Gladio esistevano già delle strutture Stay Behind operanti in Italia. Una fra tutte l' “Organizzazione O”, che trovava a sua volta le radici in un lungo processo di fusione e trasformazione tra le diverse forze partigiane bianche e la “Sezione Calderini”, formatesi durante il secondo conflitto mondiale. Quindi quando si parla di “SID parallelo” riferendosi a Gladio, si dovrebbe semmai parlare di “SIFAR parallelo”, dato che il servizio segreto italiano che concluse l'accordo bilaterale con quello americano, la CIA, si chiamava così all'epoca <19. Un'ulteriore incomprensione su questo punto avvenne quando, nel 1990, il Presidente Andreotti inviò alla “Commissione Stragi” il rapporto che titolava “Il cosiddetto SID parallelo-il caso Gladio”, mettendo in relazione due strutture ben distinte tra loro. Sempre nel 1990 venne rinvenuto, come già detto, una seconda parte di quello che era il “memoriale” di Aldo Moro, dalla sua prigionia brigatista. Una delle questioni che le Brigate Rosse avevano sottoposto al presidente della DC era la “strategia antiguerriglia della Nato”. Nel maggio del 1991 la “Commissione Stragi” ricevette un appunto del SID datato 1975 e indirizzato all'allora Presidente del Consiglio Moro. Il documento, dopo aver accennato ad una “organizzazione per così dire dormiente”, raccomandava al premier di non togliere su di essa il “segreto di Stato”, consigliando invece di negare l'esistenza di un “organismo informativo e operativo parallelo, con dipendenza diretta dal capo del SID e con compiti diversi da quelli istituzionali” <20. Il 21 marzo 1975, rispondendo ad una precisa domanda degli inquirenti che indagavano sul Golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti, Moro affermò che non risultava l'esistenza, tra i servizi dello Stato, di un'organizzazione che aveva per compito la sovversione dello stesso. Tornando alla questione posta durante il sequestro da parte delle BR, il presidente DC disse che non aveva riscontrato alcuna “particolare enfasi” in materia, pur ammettendo che era stato previsto un “addestramento alla guerriglia da condurre contro eventuali forze avversarie occupanti ed alla controguerriglia a difesa delle forze nazionali” <21. Tuttavia, Moro escludeva che queste cose potessero essere apprestate da meccanismi della Nato, bensì nelle forme di “collaborazione intereuropea”, accennando espressamente alla partecipazione di paesi come la Svizzera e l'Irlanda, che erano dichiaratamente Stati neutrali. Dunque, la risposta del politico pugliese sembrava riferirsi al “Club di Berna” (costituitosi nel 1965 tra otto paesi europei), piuttosto che alla struttura Stay Behind italiana <22.
Su questo, Giannuli commenterà: "Gladio doveva fare insorgenza in caso di occupazione nemica; non aveva compiti di antinsorgenza. [...] Anche per questo si è fatto un grosso errore quando, leggendo il memoriale di Aldo Moro che parla di “corpi per la controinsorgenza”, si è dedotto si parlasse di Gladio. Invece assolutamente no, perché Gladio non aveva quei compiti. Evidentemente Moro stava parlando di altro" <23.
Il fatto che Andreotti renda pubblica l'esistenza della Stay Behind due settimane dopo la scoperta della seconda parte del memoriale del presidente DC e quasi contemporaneamente alle scoperte fatte dal Giudice Casson negli archivi del SISMI, sembra a dir poco sospetto. I lavori svolti dalla “Commissione Stragi” e le indagini dei Giudici Casson e Salvini per scoprire la responsabilità sugli atti di terrorismo che insanguinarono e destabilizzarono l'Italia nel periodo della strategia della tensione, sono stati essenziali per conoscere molto di più le ragioni, il clima politico e la situazione vera di quegli anni, i cosiddetti “anni di piombo”. Anche se purtroppo molte sono le questioni tutt'ora aperte, basti pensare alla grave mancanza dei nomi dei responsabili di diverse stragi, come quella di Piazza Fontana, Piazza della Loggia e l'Italicus. E anche nei casi in cui i responsabili “materiali” sono stati identificati, non vi è traccia dei rispettivi mandanti.
Ma ai fini di questo elaborato molto più importante è stata la concorde (anche se non immediata) decisione, risultante dagli atti della magistratura e dalle numerose testimonianze, che la struttura Stay Behind, nota ai più come Gladio, non è mai stata coinvolta negli episodi stragisti sopracitati. Ciò va detto in risposta a quella visione “monocausale” che resiste negli anni e la cui chiave di lettura unilaterale comporta un effetto distorsivo, che mette inevitabilmente sullo stesso piano coloro i quali, schierati sul fronte anticomunista, hanno combattuto la loro battaglia in modo legittimo, con chi invece quella stessa battaglia l'ha condotta con mezzi illeciti, eversivi se non perfino terroristici. Alla base di questa ingiusta equiparazione vi è il pensiero secondo il quale “l'intera galassia delle strutture clandestine create a partire dal dopoguerra in Italia possa essere ricondotta interamente a Gladio” <24.
Sempre Giannuli, anche in qualità di consulente della “Commissione Stragi” riferì: "Abbiamo molti elementi che ci lasciano pensare che accanto alla Stay Behind ufficiale vi fosse una Stay Behind “ufficiosa”, della quale la stessa Gladio non era a conoscenza. […] La mia impressione è che altre fossero le organizzazioni compromesse nella strategia della tensione e nell'attuazione della limitazione della sovranità del nostro paese, e che probabilmente Gladio ha avuto una funzione di “parafulmine” per distrarre l'attenzione da queste altre organizzazioni" <25.
Anche il Giudice Felice Casson, che per anni indagò sull'eversione nera e sul presunto coinvolgimento di Gladio, scoprì quella che era invece la verità. Come lui stesso affermava: "Non è che Gladio Stay Behind fosse “il male assoluto d'Italia”, responsabile di tutte le cose in Italia. […] Fino alla metà degli anni Settanta c'erano una serie di strutture, sia ufficiali che clandestine, disponibili ad entrare in funzione quando dovesse servire. […] Il tutto convergeva al vertice dei servizi segreti militari. […] Su questo ci sarebbe ancora molto da indagare" <26.
Dalle scoperte e rivelazioni degli anni più recenti si è potuto avere riscontro dell'esistenza, fin dall'immediato dopoguerra, di una sorta di struttura segreta, già citata nel corso di questo elaborato, chiamata convenzionalmente “Anello” o “Noto Servizio”. Tale organizzazione era formata da uomini politici, imprenditori e ufficiali delle forze armate. Secondo alcune testimonianze, l'“Anello” avrebbe avuto una parte attiva in alcune delle più discusse vicende della Prima Repubblica, tra le quali i depistaggi su Piazza Fontana, su Piazza della Loggia e le trattative con i brigatisti durante il sequestro Moro <27.
Per Giannuli questo insolito organismo avrebbe avuto le caratteristiche non di un “gruppo politico privato” ma piuttosto quelle di un servizio segreto clandestino, “irregolare” ma comunque inserito nel tessuto istituzionale. Non coincideva con Gladio, ma piuttosto con il già citato “SID parallelo”. Questa struttura, più di altre, avrebbe avuto il potere di “tirare i fili”, come ipotizzò il Generale Maletti, di un'“oscura cospirazione”. Uno dei metodi più utilizzati sarebbe stato sicuramente la strumentalizzazione di altri gruppi, che fossero di destra o di sinistra, ignari di tutto. Le stesse Brigate Rosse potevano aver subito infiltrazioni di questo genere. Per l'appunto, uno dei brigatisti storici, Alberto Franceschini, dichiarò durante una delle inchieste sul “caso Moro”: "Oggi credo che si possa dire che in qualche caso le Brigate Rosse furono indirizzate senza che i loro componenti ne fossero consapevoli" <28.
Quelli che furono gli “operatori in prima linea” nella salvaguardia dei confini nazionali, i gladiatori, testimoniarono loro stessi che la struttura nella quale avevano servito era apolitica. Tuttavia, erano consapevoli che non era l'unica impegnata nella lotta al comunismo. Come affermò l'ex caporete milanese Francesco Gironda: "Bisognava “illuminare” la Gladio, perché l'ombra della Gladio coprisse eventuali altre strutture, spontanee oppure deviate, che potessero aver operato in quell'epoca" <29. In questo modo ci sarebbe una verità molto più completa sui fatti oscuri della Prima Repubblica, nella quale strutture eversive e illegali (come gli NDS) diverrebbero la “trama mancante” nella ipotizzata catena neofascismo-massoneria-servizi deviati.
Ma non essendo questa la sede per approfondire il tema di queste altre strutture, come il cosiddetto “Anello” o “Noto Servizio”, limitiamoci dunque a considerare che nel territorio italiano, dal dopoguerra in avanti, operarono, nel bene o nel male, una pluralità di strutture paramilitari, quindi a carattere armato, simili a quella che oggi identifichiamo come Gladio, ma del tutto distinte da essa e alle quali potrebbero aver fatto parte le figure principali del periodo stragista <30. Citare la vicenda dei Nuclei di Difesa dello Stato e del Noto Servizio è importante per richiamare l'estraneità di Gladio, che possiamo dire essere stata “data in pasto” alla stampa e all'opinione pubblica (non solo italiana) per nascondere forse qualcosa di molto compromettente e legato alle due organizzazioni occulte appena citate. Come visto all'inizio di questo elaborato, dalla rivelazione di Gladio nel 1990 seguirono una vasta serie di ricerche, sia da parte dei magistrati che dei giornalisti, per trovare la documentazione che confermava l'appartenenza della Stay Behind alla Nato. Ma molti degli archivi che potrebbero celare informazioni importanti si nascondono dietro il “segreto militare”. Ne sono esempio gli archivi della stessa Alleanza Atlantica (non accessibili neppure alla magistratura), oltre che le segreterie di sicurezza della Presidenza del Consiglio, del Quirinale, del Ministero degli Esteri, della Difesa e dell'Interno <31.
C'è poi il silenzio degli USA. Una “filastrocca” che abbiamo visto nel primo capitolo riguarda proprio la Central Intelligence Agency e il rifiuto di questa nel fornire informazioni, che recita: “La CIA non può né confermare né smentire l'esistenza o meno dei documenti richiesti”. Il giornalista americano Arthur Rowse, autore del libro “Le lezioni di Gladio”, riferisce in merito: "Il vero problema oggi è l'accesso agli archivi della Nato, dato che essa, controllata dal Pentagono, si rifiuta di collaborare. […] Fintanto che l'opinione pubblica americana rimane ignara di questo capitolo delle relazioni degli USA con l'estero, gli enti governativi che ne sono responsabili subiranno pressioni troppo deboli per correggere i loro comportamenti" <32.
A rafforzare questa ideologia, soprattutto per quanto concerne l'Italia nel periodo della strategia della tensione, vi è anche il già citato Generale Maletti, ex direttore del controspionaggio del SID, che in un'intervista riferiva "La CIA, seguendo le direttive del suo governo, intendeva suscitare un nazionalismo italiano in grado di fermare quello che veniva visto come un progressivo “slittamento” del paese a sinistra e a questo scopo può aver fatto uso del terrorismo di destra. […] Non dimenticate che [a quell'epoca] era presidente Nixon, un politico molto intelligente, ma anche uomo dalle iniziative poco ortodosse" <33.
Perciò, la responsabilità americana - e atlantica - nei fatti della strategia della tensione è tutt'oggi un mistero al quale non si trova ancora risposta.
[NOTE]
15 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell'Italia repubblicana: 1945-1991, Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 190-191.
16 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 480.
17 Idem, p. 481.
18 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell'Italia repubblicana: 1945-1991, Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 194.
19 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 479.
20 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 539.
21 Idem, p. 539. 22 Idem, p. 539.
23 Archivio Rai Teche Venezia, Nome in codice Gladio, Documentario Rai DiXit, 2011.
24 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell'Italia repubblicana: 1945-1991, Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 191-192.
25 Lucarelli Carlo, Blu notte, OSS, CIA, Gladio: i rapporti segreti tra America e Italia, Raiplay, 2005.
26 Archivio Rai Teche Venezia, Nome in codice Gladio, Documentario Rai DiXit, 2011.
27 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell'Italia repubblicana: 1945-1991,
Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 197.
28 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 101.
29 Archivio Rai Teche Venezia, Nome in codice Gladio, Documentario Rai DiXit, 2011.
30 Pacini Giacomo, Le organizzazioni paramilitari nell'Italia repubblicana: 1945-1991, Civitavecchia, Prospettiva, 2008, p. 198.
31 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 545.
32 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 103.
33 Idem, p. 12-13.
Daniele Pistolato, "Operazione Gladio". L'esercito segreto della Nato e l'Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

venerdì 17 gennaio 2025

Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese

Una vista dal Colle del Melogno - Fonte: Luca Magini su Mapio.net

Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco-italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese.
Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3.
A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
La tarda estate vide un contemporaneo fenomeno di rafforzamento quantitativo e qualitativo delle unità partigiane di montagna e di città e un serio indebolimento dei corpi armati della RSI: in particolare la divisione “San Marco” continuava ad essere falcidiata dalle diserzioni, come rilevavano le scarne note informative della GNR <4. Molti “marò” erano spinti a “tagliare la corda” dalle insistenti voci di un prossimo ritorno in Germania della divisione, tanto che il 14 settembre il generale Farina dovette intervenire di persona con un ordine del giorno rivolto ai suoi uomini che recitava testualmente: ”Le voci messe in giro sono false ed hanno l’unico scopo di far perdere la fiducia a quelli fra noi che sono più deboli. Io so che qualcuno ha perso la testa e, lasciandosi ingannare dalla propaganda avversaria, si è messo in condizioni di pagare con la propria vita il disonore e la stupidaggine di aver creduto ai traditori. La propaganda nemica e i traditori interni hanno ora di nuovo fatto subdolamente circolare la voce che i reparti italiani ritornerebbero oltr’Alpe, in Germania. Io sono uomo di parola e sono gran signore del mio onore e di quello della divisione “San Marco”. Malgrado tutte le debolezze già dimostrate, io do fiducia a tutti e assicuro che noi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere tutti al nostro posto di combattimento. Nessuno dubiti. Nel territorio di guerra italiano noi continueremo fino all’ultimo a combattere” <5.
Le rassicurazioni di Farina trovarono tuttavia orecchie sorde a qualsiasi richiamo, mentre le paure e le lamentele dei “sammarchini” erano oggetto della più sentita (ed interessata) comprensione da parte degli uomini e delle donne della Resistenza savonese. Un quadro realistico ed impressionante dello sbandamento attraversato dalla grande unità comandata da Farina è dato dal furibondo rapporto stilato dal generale tedesco Ott, ispettore dei gruppi di addestramento della Wehrmacht presso le divisioni dell’esercito della RSI, che il 16 settembre aveva fatto visita alla “San Marco”, riportandone un’impressione terribile. A detta di Ott, entro la metà del mese i disertori della “San Marco” erano già qualcosa come 1400 (il 10% dell’intera divisione!). Più in dettaglio, Ott notava come le diserzioni raggiungessero punte impressionanti (20%!) nelle truppe addette ai rifornimenti e nelle piccole pattuglie, mentre i reparti regolari parevano tenere in misura accettabile. Per ovviare a tale disastro, Ott avanzava una serie di proposte quali la sorveglianza di militari tedeschi su tutte le operazioni di rifornimento, fucilazioni, presa di ostaggi e invio di civili in lager per stroncare l’istigazione a disertare, un controllo meticoloso degli uomini che portasse all’eliminazione degli ”elementi cattivi” in particolare tra gli ufficiali e i nuovi arrivati, l’impiego del controspionaggio divisionale (sezione Ic) per la sorveglianza degli ufficiali e dei rapporti della truppa con i civili, un deciso attivismo nella lotta antiribelli per incoraggiare gli uomini, che dovevano comunque essere tenuti sempre impegnati, il ristabilimento di una disciplina ferrea e un attento esame del comportamento degli ex Carabinieri impiegati come polizia militare <6.
Tanta attenzione era pienamente giustificata dalle abnormi dimensioni del fenomeno e dalla crescente aggressività delle formazioni partigiane, che si erano ormai scrollate di dosso qualsiasi atteggiamento di tipo attendista. E se tra le aspre montagne liguri il pericolo era sempre in agguato, nel capoluogo e negli altri centri della costa la sicurezza era un fattore di giorno in giorno più aleatorio a causa dell’inarrestabile crescita organizzativa delle SAP, che aveva consentito il sorgere di nuovi distaccamenti e il rafforzamento di quelli esistenti, nonché l’estensione dell’area di attività dei gruppi sapisti.
Le zone che videro svilupparsi nuovi nuclei SAP furono quelle ad occidente di Savona. A Quiliano, sede sorvegliatissima di ben due comandi reggimentali della “San Marco”, e nella frazione di Valleggia, sorsero a fine agosto i distaccamenti “Rocca” e “Baldo”, forti di un pugno di uomini ciascuno, ma validamente appoggiati dai civili. La zona di Quiliano era nevralgica per i garibaldini, perché da essa e dalla Valle di Vado passava la gran parte dei rifornimenti di armi e volontari destinati alla Seconda Brigata <7. Pullulante di spie, doppiogiochisti, disertori, staffette e delatori, il Quilianese divenne rapidamente un fulcro della guerra civile, e il clima di violenza che vi si instaurò a partire dall’estate permase ancora a lungo dopo la Liberazione. Nella confinante area di Vado i sapisti, non ancora organizzati in brigata, ottennero in agosto e settembre notevoli successi nell’opera di reclutamento di “sammarchini” da inviare in montagna con armi e munizioni. A Porto Vado, a Sant’Ermete e nella Valle di Vado interi presidi, forti di decine di uomini, si squagliarono per le diserzioni e i continui attacchi dei sapisti finalizzati al recupero degli uomini <8. Come avveniva regolarmente in questi casi, una buona metà dei “marò” che disertavano si unì ai partigiani della Seconda Brigata; i restanti, dopo breve tempo, venivano lasciati andare sulla parola, e prendevano la strada di casa. In seguito al controllo sempre più stretto esercitato sulla zona a dispetto dei rabbiosi rastrellamenti, i sapisti furono poi in grado di creare addirittura un ospedaletto da campo per i garibaldini feriti, alloggiato in una stalla del paese di Segno <9. Se a Spotorno, sede del Comando generale tedesco per la Riviera di Ponente, l’attività dei piccoli nuclei ancora non formalizzati si espletava nell’accompagnamento dei disertori della “San Marco” al distaccamento “Calcagno”, a Finale e a Pietra Ligure operavano i distaccamenti SAP “Simini” e “Volpe” (poi “Fofi”), che il 28 agosto formarono la brigata “Perotti”. Questa unità nacque per coordinare i gruppi fondati da “Basilio” (Orso Pino), precedentemente organizzati come GAP, e poté subito fare affidamento sul personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, attivo centro nevralgico della resistenza al fascismo repubblicano <10.
Per la Seconda Brigata il mese di settembre significò una lieve diminuzione dell’attività <11 accompagnata da una rapida espansione degli organici. Infatti, stando ai documenti, non meno di 553 uomini risultano essere entrati a far parte dei vari distaccamenti garibaldini durante il mese in questione (e si trattò del dato mensile più elevato in assoluto) <12, anche se bisogna tener conto dei passaggi di volontari da un’unità all’altra. Almeno la metà erano disertori della “San Marco” <13, che andarono a formare il grosso dell’organico di tre distaccamenti, il “Minetto”, poi trasferito nelle Langhe alle dipendenze della 16a Brigata Garibaldi a metà ottobre <14, il “Bruzzone” ed il “Maccari”. Significativa è la quasi totale assenza di disertori della “San Marco” nei ranghi del distaccamento “Calcagno” in questo periodo: da un lato il “distaccamento modello” era già sufficientemente fornito di uomini atti al combattimento, dall’altro il suo accampamento fungeva sovente da centro di smistamento delle nuove reclute verso le altre unità garibaldine. In tal modo la “purezza” ideologica ed etnica (i volontari erano pressoché tutti di Savona, Vado e Quiliano) della “punta di diamante” del partigianato garibaldino savonese si manteneva intatta.
Nel complicato e a tratti oscuro quadro della formazione dei nuovi distaccamenti riveste un certo interesse il caso del “Moroni”, che viene citato a partire dall’8 settembre 1944. Questo distaccamento si trasformò ben presto in un’autentica succursale ligure dell’Armata Rossa perché tra il 15 ed il 20 del mese vi furono incorporati ben 22 cittadini sovietici <15, soldati non più giovanissimi che con tutta probabilità servivano controvoglia nella Wehrmacht come Hiwis (Hilfswillige, ossia “volontari” reclutati nei lager in cui a milioni morivano di fame i prigionieri di guerra sovietici). Non si trattava dell’unico distaccamento “internazionalista”: anche il “Revetria” era ben fornito di russi, polacchi e perfino tedeschi ed austriaci antinazisti o più semplicemente stanchi di battersi per qualcosa in cui non credevano <16.
L’attività armata dei garibaldini, pur meno intensa che nel mese precedente a causa dei problemi organizzativi accennati sopra, si mantenne su livelli tali da perpetuare lo stato d’emergenza in tutta la provincia. In più, come vedremo in dettaglio, il raggio d’azione della Seconda Brigata si allargò a raggiera fin verso l’Albenganese, l’Alta Val Tanaro e le Langhe. I primi ad attaccare furono i volontari del neonato distaccamento “Minetto”, che il giorno 2 prelevarono il presidio “San Marco” di Pietra Ligure (19 uomini) con tutte le armi in dotazione <17, e i veterani del “Calcagno”, che ai primi del mese <18 piombarono di sorpresa con quattro squadre sul Semaforo di Capo Noli, ottenendo la resa di sedici “marò” e recuperando un ingente quantitativo di materiale.
Tre giorni dopo il Comando Brigata corse un rischio gravissimo in seguito ad un’improvvisa puntata nemica. In piena notte un forte contingente misto (forse 200 uomini, probabilmente di meno) composto da SS e Feldgrau (polizia militare tedesca) con cani poliziotto scese furtivamente dalla cima del Settepani nel tentativo di sorprendere il Comando acquartierato presso la base del distaccamento “Maccari”, nelle vicinanze del paese di Osiglia, ma non riuscì ad eliminare le due sentinelle senza far uso delle armi da fuoco, e ciò consentì ai garibaldini di battere rapidamente in ritirata senza ulteriori perdite, ripiegando sul campo del “Nino Bori” dopo una lunga marcia di trasferimento <19.
Anche il “Revetria” sfuggì ad un rastrellamento compiuto dagli “Arditi” della “San Marco”, che ne incendiarono l’accampamento; poco dopo, rinforzato dalla squadra GAP del Comando Brigata, il distaccamento passò al contrattacco infliggendo serie perdite al nemico in ritirata <20.
Entrambe le puntate nazifasciste erano ispirate ad una nuova dottrina della controguerriglia che prevedeva attacchi limitati ma improvvisi e frequenti in luogo di grandi rastrellamenti condotti con forze preponderanti ma poco mobili <21. In realtà la lotta antipartigiana fu poi condotta applicando di volta in volta il sistema più adatto in relazione all’importanza dell’obiettivo e alle forze a disposizione dei rastrellatori. Il 10 agosto un importante successo fu riportato dal “Giacosa”, che si impadronì di una polveriera tra Millesimo e Cengio catturando ben 43 “marò” e rastrellando armi e munizioni in quantità <22. Il giorno successivo vide all’attacco il distaccamento “Bruzzone”, che guidato da “Ernesto” (Gino De Marco) e “Gelo” (Angelo Miniati) assaltò una postazione tedesca a Nucetto, in Val Tanaro, uccidendo due soldati <23. Il 14 fallì un attacco portato dal distaccamento “Rebagliati” contro il presidio di Calice Ligure <24: rimase sul terreno il partigiano “Falco” (Franco Leonardi, romano, classe 1925 <25).
Proprio a Calice era acquartierata la Controbanda della “San Marco”, un reparto specializzato nella repressione antipartigiana alle dipendenze del III° Battaglione del VI° Reggimento. Si trattava inizialmente di un centinaio di “marò”, scelti tra i più decisi e fanatici e comandati dal tenente Costanzo Lunardini coadiuvato dal sottotenente Fracassi <26. Armati ed addestrati in modo eccellente, gli uomini della Controbanda di Calice iniziarono subito un serrato duello con i garibaldini locali e in particolar modo con il distaccamento “Rebagliati”, che a più riprese pagò a caro prezzo la ferocia e l’astuzia di questi commandos, usi ad ogni atrocità e più volte travestiti da partigiani per ingannare i civili.
Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese.
[NOTE]
1.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 161.
2.    Ibidem.
3.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 77.
4.    Cfr. ibidem, pp. 77 - 78 e G. Gimelli, op.cit., vol. I, p. 162.
5.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit, p. 78.
6.    Ibidem, p. 74.
7.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
8.    Ibidem, vol. I, pp. 74 - 75.
9.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 106.
10.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 75.
11.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
12.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 76.
13.    E. Caviglia, op. cit., p. 490.
14.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 107.
15.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
16.    Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, Milano, 1979, vol. I, p. 281.
17.    Ibidem, vol. I, pp. 293 - 295.
18.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
19.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 165 - 166.
20.    G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondatori, Milano, 1995, p. 261.
21.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
22.    Ibidem, p. 81.
23.    Per lo sciopero del 1° marzo 1944 vedi in ibidem, pp. 84 - 90; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 188 - 191.
24.    Addirittura, pochi giorni prima, tutti i questori delle province interessate dallo sciopero si erano riuniti a Valdagno.
25.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 108.
26.    Per la strage di Valloria, vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 90 - 92.

Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000