domenica 10 agosto 2025

Un comandante polacco tra i partigiani della provincia di Savona


Alla metà di marzo [1944] la base partigiana della Val Casotto, che ospitava tra gli altri decine di savonesi, era stata spazzata via da un massiccio rastrellamento condotto da truppe alpine tedesche equipaggiate con armi pesanti, e buona parte dei sopravvissuti si diresse verso la provincia di Savona, dando nuova linfa al locale movimento di resistenza. Ancor prima del rastrellamento, ai primi del mese, era tornato nella zona di Santa Giulia di Dego il “Biondino”, conosciuto tra i badogliani come “Folgore”, che, sfuggito ad un agguato a Ceva, aveva ritenuto opportuno riparare nei pressi di casa - era cresciuto tra la valle Uzzone e Piana Crixia - per organizzarvi una nuova banda. Qui iniziò la sua leggenda nera fatta di uccisioni spietate, brillanti azioni di guerriglia, rapine feroci, piccoli e grandi favori ai contadini della zona e una guerra senza quartiere contro i fascisti, cui il “Biondino” (che pure era stato orgogliosamente volontario in Etiopia intuendo laggiù il potere delle armi) imputava tutti i guai della sua difficile esistenza di trovatello <38. Avendo vissuto i giorni migliori della sua vita con un’arma in pugno, accanto ad autentiche imprese da guerrigliero, che citerò più avanti, il “Biondino” si rese responsabile di decine di atti di violenza che, pur contestualizzati nel clima da tregenda della guerra civile e di classe che spazzava le Langhe in quei mesi, non si possono scindere dalla sua mentalità contadina, ristretta e tendenzialmente paranoica. In altre parole, a Santa Giulia tra il marzo e l’agosto del 1944, mentre da un lato il gruppo si legava ai garibaldini della Sedicesima Brigata guidata dall’operaio comunista astigiano Angelo Prete “Device”, che a più riprese intervenne per disciplinarne l’azione, il “Biondino” fu un autentico ras partigiano, amato e temuto al tempo stesso, con potere di vita e di morte sui suoi stessi uomini, cui peraltro non faceva mai mancare il necessario. La sua non fu una Resistenza in senso stretto, una scelta politica e morale meditata e sofferta, ma piuttosto una guerra di vendetta personale contro un mondo che si era intromesso in una vita già precaria e difficile. Sommando questi fattori alla natura violenta, sospettosa, impulsiva e al tempo stesso semplice ed influenzabile del personaggio, il risultato fu una miscela esplosiva che rese Santa Giulia e dintorni scenari da Far West <39, e il “Biondino” un po’ pirata, un po’ pistolero, un po’ partigiano. Elencare le decine di vittime attribuitegli - in buona parte per coprire responsabilità altrui - sarebbe lungo. Va tenuto presente che tali persone furono eliminate per i motivi più svariati, dalla colpa di essere fascisti o parenti di fascisti e per giunta benestanti alla denuncia di un vicino rancoroso o geloso, all’essere sospettati di spionaggio o tradimento <40. Ma anche altrove non si andava tanto per il sottile. Il 15 aprile ad Osiglia, ormai in zona d’influenza garibaldina, furono assassinati a tradimento tre reduci “maurini” di Val Casotto. Si trattava del genovese tenente Mario Ardù, ex comandante del distaccamento dei “Baracconi” e in seguito medaglia d’argento alla memoria, di Ugo Rizzo, di Bordighera, e del monregalese Guido Gennari. Avevano deciso di costituire un nuovo distaccamento intuendo il valore strategico del luogo, ma furono prontamente eliminati da una squadra di “irregolari”, con tutta probabilità garibaldini, desiderosi di vendicare il tradimento di San Giacomo di Roburent <41.
In quei giorni, al “Calcagno” che procedeva inquadrando ed organizzando nuove reclute, si aggiunsero altri piccoli gruppi di insorti, incoraggiati dall’arrivo della primavera oppure spinti alla ribellione dai nuovi bandi di reclutamento della RSI e dalle sempre più dure rappresaglie. Un esempio di questo tipo di unità partigiane, spontaneiste ed inesperte, è dato dalla breve vicenda della “Brigata Tom” <42, un nucleo di una cinquantina di giovani della zona di Pietra Ligure riunitosi intorno al capitano Tommaso Carpino “Tom”. Il gruppo, sommariamente armato, alla fine di marzo controllava e amministrava il paese di Giustenice accumulando armi e viveri in previsione dell’attività futura. Ma, dopo aver disarmato un militare tedesco, fu rapidamente disperso da un rastrellamento nazifascista. In seguito, nello stesso paese si installò una nuova formazione di una ventina di uomini comandati dal genovese tenente Renato Boragine <43. Erano tutti militari, diffidenti nei confronti dei partigiani di provenienza civile che consideravano inadatti al combattimento. Sfuggiti ad un primo rastrellamento ritirandosi sulle montagne sopra Bardineto, i partigiani in uniforme caddero infine in un’imboscata. Boragine venne poi fucilato il 13 settembre 1944; a guerra finita gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare <44. Intanto proseguiva la repressione contro i renitenti alla leva. Il 5 aprile una puntata di rastrellamento italo-tedesca su Calizzano, Bardineto, Murialdo e Millesimo portò alla cattura dei renitenti Nicola e Romolo Maritano, Antonio e Pietro Revetria e Dino Rinaldi, poi fucilati a Ceva <45.
Mentre vari gruppetti isolati nascevano per poi disperdersi, i garibaldini del “Calcagno”, trasferitisi per qualche tempo a Pian dei Corsi, tra Calice Ligure e Bormida, aumentavano di numero fino a raggiungere a primavera inoltrata le 150 unità. La migliorata organizzazione un po’ in tutti i settori fece il resto, pur in una situazione che richiedeva ancora una notevole dose di prudenza. Creati i vari servizi necessari alla propria sicurezza e sussistenza, il distaccamento istituì una “squadra volante” composta di elementi scelti agli ordini di “Mario”. Tale unità fungeva al tempo stesso da commando per le prime operazioni di guerriglia e da polizia partigiana, agendo sovente a notevole distanza dalle basi per non attirare il nemico sul distaccamento ancora in fase di accrescimento, e quindi gravato di reclute inesperte <46. Intanto in marzo a Savona era stata costituita l’intendenza di zona (per il Comando effettivo bisognerà attendere agosto) con sede in via Vanini per opera di Carlo Farini “Simon”, ispettore delle Brigate Garibaldi per il Ponente ligure, Vincenzo Mistrangelo “Marcello”, futuro Commissario di zona, e Angelo Aime “Giorgio”. Con l’aiuto del Fronte della Gioventù, dei Gruppi di Difesa della Donna (l’organizzazione femminile del PCI) e delle nascenti SAP, vennero creati diversi depositi di armi, munizioni, viveri, abiti e medicinali: i primi due erano siti a Savona in via Buscaglia e a Valleggia di Quiliano <47. Con tutto ciò “Mirto”, intendente del “Calcagno”, doveva fare i salti mortali per sfamare i suoi compagni. I partigiani potevano nutrirsi pressoché esclusivamente di castagne, patate, polenta e legumi, sempre che ci fossero. L’arrivo di carne, pasta o riso era un evento memorabile. Grazie ad una fiancheggiatrice il distaccamento poté disporre di alcune tessere annonarie; qualche fornaio riusciva a stornare dei sacchi di farina dalla razione assegnatagli, ma solo correndo gravi rischi perché la sorveglianza delle autorità sui forni era (giustamente, data la situazione alimentare) assai rigida. Con l’avanzare della primavera le azioni del “Calcagno” <48 si fecero più numerose, nel duplice intento di portare scompiglio tra le fila nemiche e, diciamolo, di farsi pubblicità presso un’opinione pubblica ancora scossa dalla ferocia della repressione. Mentre “Leone” e “Vela” tessevano la rete dei collegamenti scarpinando per sentieri tra un paese e l’altro, reclutando collaboratori e cercando di creare “squadre di villaggio” intese come SAP di montagna, le squadre in cui era suddiviso il distaccamento si dedicavano a recuperi e sabotaggi. Alcuni partigiani, con la copertura delle SAP locali, prelevarono dalla stazione di Vado Ligure teli ferroviari da riutilizzare per l’accampamento; altri tre, scesi nottetempo fino a Zinola, tra Vado e Savona, fecero deragliare un treno militare con una potente carica esplosiva. Analoghi sabotaggi interruppero in quei giorni le linee ferroviarie a Sella, tra Savona ed Altare, e a Varigotti. Il 1° maggio fu festeggiato a dovere: bandiere rosse apparvero in molti punti del capoluogo, suscitando viva apprensione nelle forze dell’ordine. Lo stesso giorno il distaccamento “Calcagno”, occupato il paese di Osiglia, ascoltò insieme ai contadini del posto un breve comizio dell’avv. Campanile imperniato sui temi della guerra di liberazione. Il 3 maggio una puntata di un’ottantina tra tedeschi e bersaglieri fu stornata ritirandosi senza accettare il combattimento, essendo gli uomini ancora troppo inesperti e in parte disarmati.
A questo punto è necessario ricordare che il comandante del distaccamento “Calcagno” non era più “Noce”, bensì “Enrico”. Il vero nome del nuovo comandante suonava ben poco ligure, anzi quasi minaccioso: ma Hermann Wygoda era un nemico implacabile del nazifascismo. Ebreo ed ex capitano dell’esercito polacco, sfuggito con fredda audacia alla sorte dei suoi correligionari fingendosi un ingegnere Volksdeutsch (di sangue tedesco ma nato all’est) al servizio dell’Organizzazione Todt, Wygoda era giunto a Savona alla fine del 1943 con la ferma intenzione di procurarsi un mezzo per riparare in Corsica, isola già tenuta dagli Alleati. Una delazione aveva portato al suo arresto da parte della polizia militare tedesca la quale, nulla sapendo circa la sua vera identità, sospettava fosse una spia britannica. Fuggito dal carcere in modo incredibile, dopo aver vagato per molti giorni tra il Monregalese ed il Savonese Wygoda si insediò nei pressi delle Tagliate in compagnia di due disertori della Wehrmacht. Fu qui che venne contattato da Carlo Farini “Simon” e da Angelo Bevilacqua “Leone”, che avevano avuto notizia della sua presenza. Ai due non parve vero di trovare un elemento militarmente capace e al tempo stesso al di sopra di ogni bega locale, e ben presto gli chiesero di assumere il comando, cosa che il polacco fece dopo aver esposto le sue linee guida per l’organizzazione di squadre, comando e servizi. Subito dopo Wygoda si recò a contattare di persona gli altri gruppi partigiani sparsi per la provincia <49.
[NOTE] 
38.    F. Sasso, Il Biondino: eroe o sanguinario?, Rocchetta di Cairo, G.Ri.F.L., 2000, pp. 11 - 14, 17 - 18, 56, 57 - 58.
39.    Ibidem, p. 87.
40.    Ibidem, passim. Gli esempi sono svariati, e danno un quadro dolorosamente vivido della crudezza della guerra civile.
41.    Ibidem, pp. 159 - 161.
42.    Narrata in E. De Vincenzi, O bella ciao…cit., pp. 27 - 32.
43.    Ibidem, pp. 32 - 33.
44.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 348.
45.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 198.
46.    Vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 93.
47.    Ibidem, p. 96.
48.    Per le azioni del “Calcagno” in primavera vedi in ibidem, pp. 94 - 95.
49.    H. Wygoda, In the shadow of the Swastika, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1998, pp. 93-110
Stefano d'Adamo, Savona Bandengebiet. La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000