venerdì 6 novembre 2020

Tutto quello che ho, è stato prima una riga di piombo

Il dipinto di Bernardino Palazzi (“Bagutta”) conservato presso il Circolo della Stampa di Milano,Palazzo Serbelloni, che raffigura una riunione del premio Bagutta (endstart photo gianpaolo finizio). Intorno a Orio Vergani, al centro con il libro, sono raffigurati: E. Mazzolani, Umberto Folliero,
G. Scarpa, Paolo Monelli, Anselmo Bucci, Raoul Radice, Riccardo Bacchelli, Mario Vellani Marchi, A. Franci, Marco Ramperti, Giuseppe Novello, O. Steffenini, Silvio Negro - Fonte: Accademia Italiana della Cucina

Vittorio (il nome “d’arte” di Orio sarebbe venuto dopo) [Vergani] era nato il 6 febbraio 1898 a Milano. Rimase orfano di padre pochi mesi dopo la nascita. La madre, maestra elementare, dovette affrontare una scelta dolorosa: tenne con sé la figlia primogenita, Vera, futura attrice di prosa, e affidò il bimbo al “vecchio zio”, Guido Podrecca, molto noto nel mondo della politica e in giornalismo come direttore di un settimanale, “L’Asino”, visceralmente, diremmo oggi, anticlericale. 

Con Podrecca, l’Orio ragazzino cambiò spesso residenza: Venezia, Chioggia, Borgo San Sepolcro, Viterbo, Colorno e finalmente Roma, dove cominciò a lavorare prestissimo: a quindici anni collaborava a un mensile, il “Secolo XX”: poi passò al “Messaggero”, alla “Idea Nazionale”, alla “Tribuna”. Sono di quel periodo la sua frequenza alla celebre e celebrata terza saletta di Aragno, un caffè della capitale, e i suoi incontri con Federigo Tozzi, Luigi Pirandello (la cui compagnia di prosa mise in scena, nel 1926, la prima commedia di Vergani, “Il cammino sulle acque”). Lì nacque anche l’amicizia disinteressata col giovane, e allora sconosciuto, Galeazzo Ciano che voleva intraprendere la via del giornalismo.
Una “colpa” che gli antifascisti segnarono sul loro libro nero, per ricordarsene nel giorno della vendetta (e lo fecero).
Sul finire del 1925 dopo la liquidazione, per motivi politici, del direttore Luigi Albertini, l’amministratore del “Corriere della Sera”, il grande Eugenio Balzan, decise che era venuto il momento
di rinnovare il giornale portandovi delle forze nuove.
Due, soprattutto, i nomi di spicco fra gli “eletti”: Paolo Monelli e Orio Vergani che sorprese tutti chiedendo, come primo “servizio”, di occuparsi dell’incontro di boxe fra Carnera e Paolino Uzcudum. Ebbe via libera; e iniziò quella straordinaria attività che avrebbe fatto di lui un caso unico nella storia del giornalismo.
Un grande quotidiano, per essere tale, deve avere a disposizione un numero, quanto più alto sia possibile, di collaboratori specializzati, da interpellare al momento opportuno. Ma chi “fa il giornale”, sono i redattori e gli inviati speciali, in grado di passare, con rapidità, da un argomento all’altro. 

Vergani fu l’insuperabile principe di questi giornalisti “per tutte le stagioni”. Entrò persino, trionfalmente, in uno dei settori più chiusi, quello dello sport, e diede agli avvenimenti dei risvolti umani. Si parla molto dei “servizi” di Vergani dal Giro d’Italia e dal Tour de France: erano “pezzi” che lui solo poteva permettersi.
Gli anni fra le due guerre vedono la sicura ascesa di Vergani, non solo come giornalista, ma anche quale commediografo, romanziere, autore di saggi d’arte: ma, per il grande pubblico e, soprattutto, per quella che sarà poi la “sua” Milano, non è ancora un nome che conta. 

In quel ventennio, due grandi avventure (gliene sentii parlare a lungo, a un tavolo di Bagutta, in serate
indimenticabili): il viaggio in Africa e la guerra civile spagnola.
Effettuò il primo tra la fine del 1934 e i primi mesi dell’anno seguente, insieme al pittore (e suo grande amico) Mario Vellani Marchi che illustrava con i suoi disegni “dal vero” gli articoli che Orio spediva al “Corriere”. Partirono da Tunisi per arrivare a Città del Capo. Vi erano alcune linee aree, ma l’Africa, nel suo insieme, conservava la sua fisionomia ottocentesca, solo in parte modificata dai colonizzatori. I due videro i grandi mercati indigeni, le carovane, navigarono il fiume Congo su un vecchio battello a vapore; Vergani trasmise al giornale quaranta articoli, poi riuniti in due volumi, oggi reperibili solo in antiquariato.
Ben diversa l’avventura spagnola. Nel 1936, quando si intuì che gli avvenimenti avrebbero avuto una svolta, Vergani fu mandato dal “Corriere” a Barcellona. Scese all’Hotel Falcon e, poche notti dopo, si trovò chiuso fra due barricate, una di anarchici, l’altra di franchisti. Vinsero i primi, Orio fu catturato, e un tribunale del popolo, presieduto da Luigi Longo appena arrivato dall’Urss, lo condannò alla fucilazione come “corruttore della gioventù”. Venne liberato assieme ad altri 1600 stranieri d’ogni nazionalità, praticamente trattenuti come ostaggi, da un’azione, che ci appare oggi inconcepibile, del governo italiano di allora: vennero inviati a Barcellona due incrociatori, il “Fiume” e il “Montecuccoli”, assieme al piroscafo “Principessa Maria”. Con una proposta molto semplice: o li lasciate imbarcare o spariamo.
Vergani non era un giornalista politico. Ciò nonostante, nel corso della guerra, venne nominato capo della redazione romana.
Spiegava: “Il direttore Borelli me lo disse chiaro: ormai la catastrofe è inevitabile, la guerra è persa. Potremmo arrivare a azioni insurrezionali! È bene che a Roma ci sia tu, che non hai fisionomia politica: un tuo appello alla concordia, alla fratellanza, potrà essere ascoltato”. Discorso che non teneva conto del desiderio di rivalsa dei “rimasti fuori”. Il 25 luglio i redattori, scopertisi antifascisti, cacciarono Borelli. Il 31 luglio il nuovo direttore, Ettore Janni, licenziò in tronco, per motivi politici, Vergani.
Per lui fu un trauma: “Una condanna a morte”, scrisse nel suo diario, “che mi portò vicinissimo al suicidio”. Vergani non fece parte della redazione del “Corriere” durante la Repubblica di Salò ma, nel 1945, fu lo stesso “epurato”, e dovette lavorare per altri giornali. Poi, nel 1946, rientrò nel “suo” “Corriere”.
Cominciò, per lui, un periodo particolare, e se si tiene conto del suo carattere e della sua indole, del tutto anomalo. Lavorava moltissimo: qualcuno ha calcolato che, oltre ai libri e alle commedie, egli abbia scritto circa ventimila articoli. In una sola notte, nel giugno del 1959, mentre era a Venezia per una “prima” teatrale, Vergani riuscì a scrivere e a dettare, uno dopo l’altro, sei servizi: la critica dello spettacolo; un “pezzo di colore” su Burano; un commento “umano” sulla morte di alcuni passeggeri di un aereo caduto, poche ore prima, a Olgiate; la critica della mostra di un pittore e il ricordo del commediografo e paroliere Luciano Ramo, morto quel giorno. E, cosa importante, tutti testi eccellenti, senza sbavature, ripetizioni, “cadute”.
Egli fu sempre e solo un grande giornalista: non ebbe mai uno di quegli incarichi non ben definiti ma redditizi come direttore editoriale aggiunto, responsabile del settore periodici o simili, che “portano” ad alti stipendi, senza richiedere impegno eccessivo. Scriveva. Poteva dire, come un suo celebre collega, Renato Simoni, “Tutto quello che ho, è stato prima una riga di piombo”.

Massimo Alberini in Accademia Italiana della Cucina (fondata da Orio Vergani nel 1953), Quaderno 75, aprile 2010