lunedì 2 novembre 2020

Era Dino Campana

Dino Campana - Fonte: Wikipedia

Finissima e originale figura di letterato, quella di Giacomo Natta (Vallecrosia 1892 - Roma 1960) sfugge alle consuete classificazioni come sfugge alle ordinarie storie della letteratura. In vita pubblicò un solo ma squisito libro che gli valse l’acuta e partecipe presentazione di Giuseppe Ungaretti. In gioventù frequentò, nella sua Riviera, Georgij Plekhanov e il Principe Kropotkin. Pubblicato su “Paragone” nel 1960, nel ricordo che segue, Natta rievoca eventi fiorentini, in particolare l’incontro (vi si imbatté, fra gli altri, a proposito di liguri, anche Camillo Sbarbaro) con Arturo Reghini, massone-pitagorico-imperialista (e da morto stella polare dei massoni, specialmente torinesi, toccati dal guenonismo) che con Evola, col quale poi si scontrò, fu all’origine del gruppo di “UR”, un punto fermo per “i maghi” italiani.  biblioego

Una dedica di Dino Campana a Mario Novaro

[...] Al ritorno, un tale che era salito in treno a Semmering, si invaghì del mio soprabito, ed io, pensando a quello che avrei trovato nella mia pensione di Firenze, glielo cedetti, al prezzo che mi era costato un mese prima. M'aveva anche detto che gli avrebbe portato bene. Ero in grado di sopportare quel freddo almeno fino al termine del viaggio. Ma me ne fu regalato uno assai prima, a Bologna. Avevo incontrato un amico in una piccola trattoria nei dintorni della stazione (ho ancora fresco il ricordo del piacere che provai mangiando il pane di Bologna, preferendolo quasi alla pietanza che era ottima), mi portò a casa sua dove mi fece provare due cappotti che aveva dimesso poiché non cessava di ingrassare. Scelsi quello meno largo, nero, col bavero di velluto. Mi girava un po' intorno al corpo mentre camminavo e le maniche sarebbero arrivate pari pari fino alla punta delle mie dita, se non avessi tenute le mani in tasca. Però l'eleganza del taglio mi rendeva passabile. Era come se fossi un po' dimagrito, era ovvio pensarlo osservandomi.

Proprio così non sembrò agli amici che, verso le sette di sera trovai a Firenze nel caffè Paskowskj. Alla mia comparsa si misero a ridere, facendomi festa. Più degli altri si divertiva di me Ottone Rosai. Seduto tra Soffici e lui c'era uno, con due giacche, il quale mi guardò con curiosità sorridente, forse perché anch'io, come lui, non ero in regola. Mi sembrò a tutta prima un tedesco, un globe-trotter, uno sbarcatore. Era tarchiato, con degli scarponi, zazzera e barba bionda. Il cameriere che venne a darmi il benvenuto scomparve e ritornò subito con un soprabito grigio. L'aveva trovato, abbandonato ad un attaccapanni, la precedente primavera, e le due lettere che trovò nelle tasche portavano il mio nome. Me lo misi, e mi venne d'offrire quello che smisi allo sconosciuto, il quale si tolse sveltamente una giacca e se lo passò. Sul velluto cangiante in viola del bavero la barba viva rifulse in oro, e lo sguardo azzurro era più luminoso. 

"Sembri un professore tedesco" gli disse Rosai. Era Dino Campana. "Vous voilà bourgeois" gli disse un giovane parigino, Ackerman, il quale andava per Firenze ebbro della filosofia di Bergson. C'era anche Francesco Pagliai, stimatissimo dai maggiori; oggi funzionario all'Accademia della Crusca, e appartatissimo; Giannotto Bastianelli ed altri.
 

[...] Ritrovai Campana con le due giacche, il cappotto lo aveva venduto.
Trasse da una tasca, che ne conteneva parecchie, una copia dei Canti Orfici, e me la diede. Ci aveva scritto una lunga dedica. La pagina dove l'aveva scritta fu qualche giorno dopo strappata dal libro che stavo leggendo, al caffè Giubbe Rosse, su istigazione di Bino Binazzi che lo accompagnava. Bino Binazzi era quello che io non ero e cioè un "puro" e "un duro". Aveva un'aria di fanatismo triste, e s'era come fatto bandiera del poeta "incontaminato".
 

Il viso di Campana dava l'impressione d'una continenza estrema, d'una salute barbara. Ma aveva nello sguardo una pena direi irrimediabile, una solitudine irraggiungibile. Quando mi trovavo solo con lui, mi parlava con fanciullesca docilità e con una voce limpida e un po' lamentosa. Diceva cose che non distinguevo; il suo umore era mutevole, come se ci fosse in lui un franare continuo. Mi faceva un po' paura, ed io rimanevo con lui solo il meno possibile. Una volta che mi parve più stabile mi disse che traduceva, alla mattina, un poeta inglese.
"Alla mattina? "
"Sì, in quell'ora, dove sto io, la mia casa ha i piedi in Arno, ed è volta a settentrione, c'è la luce precisa di quella poesia". 

Non volle dirmi il nome del poeta.

Nessuno sapeva allora che egli era già stato in manicomio, e mi pareva che nessuno avvertisse il suo malessere. Era preso, anche, ma cautamente, un po' in giro. Tra i letterati al caffè fingeva di ignorare autori che conosceva con precisione e forse più di loro. "Rimbaud?" domandava sottomesso.
Con una certa impostura, aveva segrete malizie e improvvisi scoppi d'un ridere chiaro. Diceva e ripeteva con insistenza sospetta "maestro", a Soffici. Ho visto nel suo sguardo balenii d'odio. Era sofferente e insofferente quasi sempre.
Dove eravamo entrati, quella notte fredda e tetra, a bere del vino per riscaldarci e rallegrarci un po' (Reghini, la sua guardia del corpo, Pagliai, un altro ed io), Campana stava seduto, all'estremità d'un largo e lungo tavolo, con Rosai ed un pittore friulano sceso da poco a Firenze. Noi ci sedemmo dalla parte opposta del tavolo. La bottega era quasi vuota. Sedendosi, Reghini sbirciò un po' dall'alto, quasi con bontà, e con una curiosità affettata, Campana, salutò con un cenno della mano Rosai, trascurando il suo compagno in conseguenza della sua forte apparenza di montanaro. Con Rosai, per il vero, egli aveva già aperto il mantello della sua protezione, ma Rosai vi era entrato ed era uscito scherzando, col mantello come un giovane gatto. I tre "barbari", guardandosi, mentre noi urbani si discorreva, s'incontrarono nello stesso sentimento. Reghini aveva incominciato l'elogio della mistificazione, alla quale si giunge altamente, mediante l'amore della verità. 

Campana di tanto in tanto sogghignava, e mi pareva che le occhiate a lui rivolte dagli altri due intendessero, specialmente quelle di Rosai, ad aizzarlo. Io cominciavo a temere. Mi pareva che Campana non capisse o soprastesse a quegli incitamenti, ma all'improvviso balzò sul tavolo rovesciando con gli scarponi bicchieri e litri.
Inveì contro "I letterati fiorentini", in frasi triviali dove ricorrevano le parole: impotenti, feccia, cialtroni. E si proclamò unico, e "poeta della quarta Italia". Sopravvenne il padrone, Campana saltò dal tavolo e ridacchiando con gli altri se ne andò. Noi pure uscimmo, un momento dopo, pagando anche per loro. 

Andammo a zonzo. Reghini aveva un'aria di maestà offesa e il suo parlare era incerto.
Dalla baruffa, non ci scappò il morto; ma credo che poco ci mancasse. Se la pesante mazza sospesa sul capo di Campana non fosse stata trattenuta a tempo, gli avrebbe forse spaccato il cranio... Era circa l'una quando uscimmo da Ponte Vecchio e volgemmo per lung'Arno Acciaioli, nebbioso e deserto. Sbucarono da un andito dov'erano appostati, corsero verso di noi e ci furono addosso. Campana si slanciò contro Reghini, e i suoi compagni tentarono di metterglisi davanti per impedire a noi di difenderlo e di separarli. Fu un parapiglia. Parte dei colpi diretti a Reghini furono deviati e menomati. Sbattuto or di qua or di là gemeva pallidissimo. Campana, barba e capelli scompigliati, mostrando una schiena vigorosa e triviale, picchiava, dinoccolato, mandando dei sibili, dei sospiri di soddisfazione profonda, di copula. Gli ridevano gli occhi di una specie di gioia selvaggia. Passò una vettura a botticella, dove Reghini fu introdotto. Gli sedette accanto la guardia del corpo. Affacciandosi dal finestrino aperto Campana sputò in faccia al suo bersaglio: "te", gli disse facendogli con una mano le corna: "prendi". Lo afferrammo, scivolò per terra, si rialzò e inseguì, per poco, la vettura. Pareva un manigoldo teutonico.

Giacomo Natta, Il cappotto di Dino Campana in biblioego