domenica 29 novembre 2020

Non sono troppo provinciale?


La Torre Leon Pancaldo a Savona - Fonte: Wikipedia

Me lo sono chiesto di recente. Non sono troppo provinciale? A ben vedere, tutte le mie storie sono ambientate ossessivamente (è lecito affermarlo), nella città di Savona. L’unica licenza che mi sono permesso è stato con “L’ultimo dei Bezuchov” dove il protagonista se ne andava nell’isola di Egilsay, nell’arcipelago delle Orcadi a nord della Scozia.  Poi in “Cardiologia” ambientavo un racconto (“Riflessi”) a Roma. Per il resto: rigorosamente Savona. Ci si potrebbe fare un hashtag: #rigorosamentesavona. Magari potrebbe essere un grande successo! Ne dubito.
Ma abbiamo delle vere città?

La mia idea è che Milano sia la grande città italiana, l’unica. Il resto delle città della nostra Penisola sono centri storici attorno ai quali sono cresciute a dismisura le periferie (Roma; Genova). Niente Los Angeles, New York o Dallas da queste parti, nulla del genere. Ma periferie che hanno travolto quello che c’era attorno al centro storico. Con risultati spesso agghiaccianti. Ma non parlo certo di urbanistica in questo articolo. Semmai cerco di capire se questa mia dimensione provinciale tanto tenacemente perseguita (adoro quando scrivo in modo da sembrare un intellettuale), sia un limite; una risorsa, oppure un bel niente. Probabilmente la terza, esatto. Ma potrebbe essere un limite: per fortuna.

Negli anni Sessanta un sacco di gente abbandonava le campagne per la città, le fabbriche. E a ragione: in campagna quando per esempio piove, devi uscire e andare a controllare che nei campi vada tutto bene. Che i torrenti e i rii non minaccino i campi. Hai la febbre, oppure il mal di schiena? Nessun problema: esci sempre e comunque, perché nella stalla gli animali reclamano il cibo, e i campi il lavoro. Ferie? Non esistono. Feste? Si andava a messa la domenica mattina con il vestito buono, e poi dopo il pranzo domenicale, nei campi. È evidente che la fabbrica poteva solo trionfare. Febbre o mal di schiena? Stai a casa. Ferie? Sì, ad agosto. Eccetera eccetera.  Lo so: nelle fabbriche di Torino non era esattamente una pacchia. Avevi i diritti (pochi) se rigavi dritto e dicevi sempre “Sissignore”. Non dovevi creare problemi.  Ma di certo se montagna e campagna si sono svuotate è perché quello che si poteva trovare in una fabbrica era superiore. Comunque in una fabbrica non ti pioveva in testa.

Eppure…

Benché il Paese sia stato travolto dalla modernità e intere zone siano state sfigurate da capannoni (ormai vuoti e abbandonati), e da quartieri dormitorio, mi pare di poter dire che sia rimasto provinciale. Dalla moda di infarcire il linguaggio di parole inglesi, all’idea di contare ancora qualcosa, di poter “battere i pugni sul tavolo”; all’ossessione di essere sempre e comunque un “modello” per gli altri Paesi (quando non ne imbrocchiamo una nemmeno per sbaglio): sono tutti sintomi di un evidente provincialismo italico.  Eppure questo limite, come ho scritto prima, potrebbe essere una grande risorsa. Siamo all’interno di un sistema che ride del limite. Lo considera una inaudita costrizione di tempi arcaici che quindi deve essere rimossa. E nonostante il Covid, questa ideologia resterà ancora per decenni ben radicata e produrrà non si sa bene che cosa: ma qualcosa di certo produrrà. Né varrà qualcosa affermare o ribadire che il limite esiste, che la libertà è disciplina. Le risate fioccheranno abbondanti. Ma restare provinciali; scegliere di restare provinciali non vuol dire restare indietro o tagliati fuori dal “progresso”. Vuol dire avere il panorama più completo.
Il provinciale (non il provincialismo)

Il provinciale per prima cosa non considera il proprio Paese un modello, bensì quello che è: un guscio vuoto. Un organismo che consapevolmente e con determinazione (perché vota) ha intrapreso il cammino verso la discarica della Storia.  Non infarcisce il suo linguaggio di parole inglesi. Non batte i pugni sul tavolo, né vuole contare qualcosa perché sa di non contare più nulla da almeno duemila anni.  A me piacciono le isole, soprattutto quelle del nord Europa (“Ma perché quelle italiane no?” domanda colui che è affetto da provincialismo. No, non mi piacciono, risponde il provinciale).

Le Orcadi, le isole Far Oer, le Shetland. Credo di averlo già scritto in passato. Sono comunità di persone che vivono ai margini di tutto. Che cosa sappiamo di esse, della vita che si conduce adesso? Ben poco. Siamo certi che (per esempio), i giovani appena possono scappino da là per le grandi città dell’Europa oppure degli Stati Uniti. A voler essere pignoli potremmo anche affermare che non sono nemmeno realtà provinciali. Sono qualcosa al di sotto.  O almeno, così pensiamo. Eppure è più probabile che esattamente da questi luoghi distanti, spesso cupi (gli inverni sanno essere feroci), si riesca a dare uno sguardo differente a quello che accade. Il provinciale quando osserva il resto del mondo evoluto, colmo di progresso, oppure vi si immerge (per le ragioni più differenti: magari pensa di dover “guarire”), trova probabilmente una nota stonata.
Qualcosa di fuori posto; che di certo è lui. Ed è lui perché il provinciale si deve adeguare per non sentire più la dissonanza. A questo punto deve scegliere se rinunciare alla sua libertà; oppure difenderla a ogni costo. Perché spesso il provinciale conosce una qualità che chi vive altrove non sa, non riconosce più, ha perso di vista.

Lui è libero. Bizzarro, non è vero?  Nella sua piccola e insignificante e soffocante realtà provinciale, il provinciale è libero perché è se stesso e unico, e ne è consapevole (o meglio: diventa consapevole quando si allontana dalla sua realtà chiusa, gretta e provinciale). Altrove è un numero, ma questo decadimento viene spacciato per evoluzione, e l’unico modo che ha a disposizione per non essere uno dei tanti (numeri), è diventare numero uno; a scapito degli altri. Ma alla lunga è e rimane solo un numero, appunto. Uno dei tanti (i numeri uno alla lunga sono tutti uguali. Quindi: di fatto sei fregato, ma in modo più sottile), uno che deve essere uno dei tanti altrimenti torna indietro, torna a essere un provinciale. E invece si deve adeguare a quello che la massa desidera, o altrimenti resterà indietro. Nella sua realtà provinciale, piena zeppa di limiti, e soffocante, lui era un piccolo re; senza reame.

Non era un illuso, uno di quelli che credono non ci debbano essere limiti. Si gira, e ovunque vede limiti, limiti, limiti. E sono proprio essi che lo rendono la persona che è: unica e di difficile (se non impossibile) catalogazione; il che è male per il mondo che non conosce, né vuole limiti.  Che stranezza, non è vero? Il mondo che urla di libertà e di libertà senza limiti, deve pianificare e catalogare. Altrimenti va in corto circuito. Sono i limiti che vede da ogni parte, che lo stringono, che spesso lo inducono a riflettere su di sé, e su tutto il resto. A interrogarsi su che cosa conti davvero, in quella massa di progresso che sale sempre più, lasciandoci però identici all’uomo che viveva durante il regno di Hammurabi. Dal suo piccolo e irriso osservatorio il provinciale osserva, e comprende, probabilmente, che il 90% di quello che vede altrove non lo renderanno più libero o migliore; ma solo più utile. Quindi, resta provinciale.

Il provinciale che detesta la sua “provincialità” osserva.  L’uomo evoluto guarda. E non vede niente.

Marco Freccero su raccontastorie, 16 novembre 2020

[ Nato in provincia di Savona nel 1966, Marco Freccero continua a viverci. Ha svolto diversi mestieri (garzone, operaio, aiuto magazziniere, magazziniere, addetto alla vendita), prima di mollare tutto e diventare Web editor per siti di commercio elettronico. È stato per anni parte del gruppo di autori che ha guidato il sito Web dedicato alla piattaforma Apple: "IlMac.net". Dal 2010 ha rispolverato la sua passione: la scrittura. In quell'anno ha pubblicato l'ebook "Insieme nel buio" (tre racconti neri liguri), iniziando così ufficialmente la sua carriera di autore indipendente. Nel 2012 c'è stata la sua unica incursione nel campo delle case editrici. Infatti per 40K pubblica l'ebook: "Starter kit per blogger". Il romanzo "L'ultimo dei Bezuchov" è il suo nono libro. Nel 2014 ha pubblicato la raccolta di racconti (ambientati soprattutto nella città di Savona) dal titolo "Non hai mai capito niente", prima parte del progetto ben più ampio e ambizioso della "Trilogia delle Erbacce". Progetto che ha visto nel 2015 l'apparizione del libro "Cardiologia", seguito nel 2016 dal capitolo finale intitolato "La Follia del Mondo". Nel 2017, assieme alla scrittrice Morena Fanti, ha pubblicato il romanzo a 4 mani "L'ultimo giro di valzer". Da questa esperienza è scaturito il libro "La scrittura a 4 mani", dedicato a questo "particolare" modo di raccontare le storie. Sempre nel 2017 ha pubblicato l'ebook "La scrittura è difficile - Manuale controcorrente" (aggiornato nel 2018) dedicato a chi desidera avvicinarsi al mondo della scrittura ]