venerdì 20 novembre 2020

Magie in tipografia

L’autore quando era un giovane tipografo

"Le mani si muovono veloci e impercettibili, in una danza sospesa sopra un cassetto di legno diviso in tantissimi scomparti di diverse dimensioni. Le dita seguono un copione noto, spostandosi con esattezza da uno scomparto all’altro, silenziose e leggere, instancabili, precise. Con il loro movimento misterioso, che poco a poco riempie gli scomparti restituendo un ordine sistematico al disordine apparente della mescolanza, tradiscono un sapere che le guida come la mano guida la penna su un foglio. Sembra quasi che scrivano, quelle dita. E infatti è proprio ciò che fanno. Scrivono alla rovescia, compiendo il piccolo miracolo impossibile a chi, dopo aver parlato, vorrebbe far tornare indietro le parole. Quelle dita prendono le frasi e, lettera per lettera, accarezzandole con i polpastrelli grigi, le riportano indietro, rimettendole in scatola. E scrivono alla rovescia non solo perché scompongono ogni riga e la restituiscono al suo alfabeto di piombo, dall’ultima lettera alla prima, ma anche perché manipolano lettere speciali, lettere al contrario. Sono caratteri tipografici, e la loro casa è la cassa tipografica: quel cassetto di legno che ogni giorno fa da palcoscenico silenzioso alla danza misteriosa delle mani del maestro. Il maestro indossa un camice nero, ha gli occhi chiari, le labbra carnose da un angolo delle quali sale un filo di fumo della sigaretta, un’infinita pazienza e un forziere di segreti. Non si arrabbia mai e non alza mai la voce. Persino il principale, che tratta gli altri dipendenti con distacco e un po’ di sbrigativa autorità, con lui si fa rispettoso e attento, traducendo gli ordini in richieste di favori. A un paio di metri dal maestro c’è un altro camice nero, nuovo, non ancora liso né deformato dall’uso ai gomiti e alle tasche, più piccolo e un po’ intimidito: il mio. È l’estate del 1977 e, approfittando delle vacanze e della raccomandazione di mio padre, per due mesi lavoro part time in una tipografia di Borgo Vittoria. Due mesi non sono tanti, tuttalpiù ti permettono di sbirciare un mondo sconosciuto da una porta socchiusa. Ma è il maestro a tenerla aperta e a mostrarmi dall’altra parte un piccolo universo affascinante. Inizio dedicando ore alla pulizia dei blocchetti d’alluminio su cui si incollano i cliché fotografici: ogni blocchetto va strofinato energicamente, a lungo, ai limiti dell’anchilosi, su una superficie di cartone imbevuta di petrolio, fino a eliminare ogni traccia del nastro biadesivo che con il suo impercettibile 64 spessore potrebbe alterare le stampe successive. Imparo che cosa sono i punti e le linee tipografiche, il corpo e la forza di un carattere, apprendo che il sostegno a squadra su cui si allineano i caratteri si chiama “vantaggio”, pulisco i pavimenti, rilego i fascicoli con la spillatrice meccanica. Un giorno vengo spedito alla taglierina, impressionante per precisione e potenza, che pare sempre sul punto di divorarti una mano. Vedo nascere una pagina attraverso l’assemblaggio delle righe prodotte alla linotype, delle immagini montate in negativo su quei famigerati blocchetti, degli spessori necessari per creare gli spazi, dei titoli composti a mano. Imparo a usare il tirabozze per stampare le prime pagine di prova, vedo trasformare quelle bozze in matrici offset che poi gireranno dentro grandi macchine che mangiano rotoli di carta e inchiostro denso di vari colori per restituire pagine di giornali, manifesti, dépliant, riviste, libretti e tutto ciò che d’altro si può stampare. Il maestro mi porta un libro che racconta la storia della stampa, dagli incunaboli alle gigantesche rotative dei quotidiani, e mi sembra quasi un rito d’iniziazione. Leggo quelle pagine come fossero una bibbia, il libro segreto dei simboli di un mestiere. Lui mi insegna la distribuzione dei caratteri nella cassa tipografica, con la “A” quasi al centro e le altre lettere disseminate qua e là in una finta casualità: grazie a lui comincio anch’io a “scrivere al contrario”, smontando i titoli e rimettendo a dormire vocali e consonanti. Al contrario mi fa anche imparare a leggere: non da destra a sinistra, come normalmente ci si aspetterebbe con la scrittura bustrofedica, ma da sinistra a destra e dal basso in alto, con la pagina capovolta, come invece scoprirò (con una certa sorpresa) essere più pratico e veloce. Il maestro mi manda in linotipia a consegnare le righe di piombo sbagliate e a ritirare quelle corrette, e lì resto affascinato a guardare quelle specie di macchine per scrivere dalla tastiera enorme, altissime, che ticchettano come una telescrivente accompagnata da un rumore di tramoggia, in cima alle quali si allineano i calchi dei caratteri e in fondo alle quali escono le righe di piombo ancora caldissimo dopo la fusione, capace di riempire l’aria con il suo odore caratteristico e indescrivibile di metallo morbido. Il maestro riconosce alla prima distratta occhiata l’esatta misura di ogni spessore: un punto, due punti, mezza linea, due linee; ci vuole occhio, esercizio abitudine, lui mi sembra un mago mentre io continuo a sbagliare; alla fine dei due mesi sarò fiero di azzeccarne la metà senza bisogno di confrontarli. Il maestro non perde mai la pazienza, neppure quando la pagina di piombo va in “baracca” spargendo righe e caratteri ovunque e costringendolo a rifare il lavoro e a rimettere tutto a posto con una legatura più stretta. Il maestro sa insegnare, e lo fa soprattutto quando non parla. Dà l’esempio senza dare lezioni. Fa mille cose. Ed è giovanissimo. E infatti oggi, a 34 anni da quell’esperienza tra i banchi di una tipografia, se penso ai suoi entusiasmi e alle mie disillusioni, al suo fresco pragmatismo e alle mie stanche incertezze, mi sembra che il tempo sia passato solo per me. Non so se sono stato un buon allievo - non penso tanto al mestiere di tipografo, quanto al modello di persona che il maestro propone con il suo semplice esserci - ma quell’estate mi è davvero rimasta nel cuore come un dolce ricordo. Un ricordo che oggi, mentre Alfredo si accinge a spegnere 85 candeline, gli restituisco sperando di strappargli un sorriso".
 
Claudio Mercandino, giornalista de La Repubblica, edizione torinese, amico e compagno, mi inviò questo scritto tramite Fb in occasione del mio 85° anno di età... ben 9 anni fa. Ora è in pensione e sto pensando di restituirgli questa quasi orazione funebre (per me) in occasione di un suo compleanno molto più "giovane" del mio.
 
Alfredo Schiavi, 19 novembre 2020