domenica 22 novembre 2020

Un enigma in Provenza. Reberschak: weekend con brividi

Vence - Fonte: Wikipedia

Sandra Reberschak sembra allontanarsi con La regina di Saba [Bompiani, 1995] dai modi consueti della sua narrativa, dall'autoanalisi spoglia del Pensiero dominante all'epica quotidiana di Se anche tu non fossi (le vicissitudini del padre ebreo perseguitato dal fascismo) per toccare temi più sciolti dal vissuto personale o famigliare. 

Quello che la interessa ora è la verità della scrittura, non tanto come esercizio stilistico capace di smascherare il reale o di inventare un mondo altro, ma come un misterioso potere "demiurgico" che anticipa e fa accadere le cose. 

"Le fantasie - riflette la voce che racconta - non sono altro che pezzetti di verità captati in altri contesti, in altri momenti, divenuti ricordi, o brandelli di ricordi, o anche solo fattesi, a nostra insaputa, presentimenti". Affiora qui il vecchio paradosso della realtà che imita la fantasia ma in una accezione più forte, di un interscambio continuo tra tutto ciò che vive, comprese le facoltà spirituali. È almeno ciò che pensa una donna ancor giovane che troviamo sul treno della Riviera ligure, diretta a Vence dove sarà ospite dell'amica Roberta. Lavora nell'editoria, scrive libri, ha bisogno di un tranquillo week-end tra persone care e discrete. Ma il treno si arresta bruscamente, accorre gente, si grida, qualcuno è stato travolto, forse si è gettato sotto le ruote. Come posseduto da una frenesia, un uomo spara i suoi clic, fotografa da ogni lato la motrice, i binari, il fagotto di cenci, e poi si allontana con aria spossata. La viaggiatrice non riesce più a liberarsi dalla figura dello sconosciuto che immagina si chiami Bruno, prova a inseguirne mentalmente le tracce, a scriverne la storia: quella che troveremo, a capitoli alterni, nel libro della Reberschak. L'"incidente" segna il punto di raccordo di due vicende, una reale e l'altra inventata che corrono parallele e alla fine si congiungono con una soluzione a sorpresa, con effetto di choc. 

È la sorte che, alla fine, prende la mano alla protagonista-scrittrice, conferma le sue intuizioni e rifinisce per così dire il suo lavoro. 

A Vence, siamo introdotti in una famiglia apparentemente felice. Roberta ha alle spalle un matrimonio fallito, aspetta un figlio dal nuovo marito, un chirurgo famoso e appagato: lui ha una figlia di primo letto, Claire, che sembra accettare la situazione, con qualche spigolo che si può attribuire all'età. Ma nella grande luce di Provenza, entro la quale stingono rapporti convenzionali, dialoghi minimalisti, si consuma il dramma. 

La passione della verità. Claire fugge all'improvviso sulla moto di un amico drogato e un Bruno che non si lascia dimenticare arriva, come una fiondata, a turbare l'armonia di Roberta. Sull'altro versante, il Bruno dell'invenzione indaga sull'uomo morto tra i binari, scava nel suo passato di artista eccentrico e vagabondo, ritrova una ragazza fuggitiva, si perde in una rete di indizi e sortilegi: con una disciplina severa che è soltanto l'alibi furioso per avere consumato maldestramente un amore. 

A unificare le due storie, al di là dell'esito sorprendente e dell'arrischiata poetica che lo sottende (quella espressa all'inizio) c'è una passione della verità che vale per la scrittrice e per il fotografo, per la pagina scritta e la pellicola emulsionata. La stessa suggerita da una mostra di Cezanne, dalle repliche infinite della stessa montagna, dalla lotta del simulacro con l'essenza di quell'altura ("E chi vince? Cezanne o la Sainte-Victoire?"). L'attrattiva del romanzo sta proprio in questo turbamento, accentuato più che placato dall'intelligente, geometrico artificio dell'intreccio. E resiste agli allentamenti del linguaggio, a una corsività che, del resto, sembra in qualche misura funzionale alla storia "vera", al suo effetto di sfocamento rispetto alle risorse più consistenti e penetranti dell'invenzione. 

Lorenzo Mondo, tuttolibri, La Stampa, 1 settembre 1995