martedì 15 marzo 2022

Non si era ancora delineata la soluzione del Piano Marshall

Anne McCormick - Fonte: Ohio History

Nel suo commosso omaggio a Roosevelt, la McCormick aveva accennato alle difficoltà con i sovietici emerse subito dopo Yalta: «Non assistere alla vittoria per cui si è tanto adoperato può averlo salvato dalla delusione di speranze esagerate». Un commento che finiva per favorire chi in America prevedeva o auspicava un deterioramento delle relazioni Usa-Urss, che nei mesi passati la giornalista aveva anticipato cercando ripetutamente di prefigurare l’assetto internazionale postbellico, senza però criticare apertamente la diplomazia di guerra rooseveltiana.
Il successore di Roosevelt, Harry Truman, avviò una graduale correzione di rotta nei rapporti con l’alleato sovietico. Estraneo alla ristretta cerchia dei consiglieri di Roosevelt, Truman sapeva poco o nulla dello stato delle relazioni con l’Unione Sovietica, che Roosevelt aveva sempre gestito in modo personale. Decisiva per il nuovo presidente diventava dunque l’esperienza dei vertici del dipartimento di Stato e dei diplomatici, come l’ambasciatore a Mosca Averell Harriman e l’incaricato d’affari dell’ambasciata George Kennan, che in seguito all’atteggiamento sovietico in Polonia e in Romania avevano maturato non pochi timori sulla possibilità di continuare a collaborare con Stalin nel dopoguerra.
Pur non abbandonando l’idea rooseveltiana della ricerca del compromesso con i sovietici, Truman e i suoi consiglieri venivano convincendosi che l’America avrebbe potuto svolgere meglio il proprio ruolo nella costruzione di un nuovo assetto mondiale seguendo una linea meno accomodante verso l’Urss e facendo leva sulla propria posizione di forza. Su temi quali gli aiuti economici per la ricostruzione sovietica o il monopolio della bomba atomica, la McCormick, inviata a molte delle principali conferenze internazionali che si tennero nel 1945 dopo Yalta - San Francisco, Potsdam, Londra - sosteneva nei suoi commenti sul «New York Times» questa linea di maggiore fermezza verso l’Urss, fungendo da cassa di risonanza della correzione di rotta in atto tra i policy-makers americani <1.
Alla conferenza istitutiva delle Nazioni Unite di San Francisco si registrarono alcuni segnali di irrigidimento, come il diverbio fra Truman e Molotov, al loro primo incontro, e la minaccia di sospensione degli aiuti previsti dalla legge Affitti e Prestiti. Ma la tensione fra Usa e Urss emerse soprattutto sulla questione del governo provvisorio polacco, il governo di Lublino, che Mosca era restia ad allargare ad elementi filoccidentali, come era stato concordato a Yalta. Commentando «la temperatura politica tanto imprevedibile e capricciosa da confondere i veterani dei congressi internazionali», la giornalista si rifece alle ultime parole del presidente Roosevelt sulla determinazione americana a procedere anche unilateralmente nel processo di ricostruzione internazionale. «Ogni segnale mostra che questo paese non sarebbe solo. Ha un grande seguito quando prende un’iniziativa chiara [...] e ciò che è stato dimostrato nelle recenti controversie è che nessuna potenza prevarrà in questa conferenza» commentò in riferimento all’opposizione dell’assemblea al governo filocomunista polacco, con una fermezza che James Byrnes, nominato di lì a poche settimane segretario di Stato, elogiò come «importante contributo alla comprensione di alcune fra le questioni più complicate del momento» <2.
Ma la collaborazione con l’Urss non era ancora messa in discussione; piuttosto prevaleva un’oscillazione fra posizioni di rigidità e di disponibilità al dialogo, evidente nei commenti della McCormick. Alla conclusione della conferenza al Golden Gate la giornalista scrisse che nonostante «una crisi dopo l’altra», «il bisogno e il desiderio di lavorare insieme sono stati più forti di ogni altra ragione di divisione. Lo dimostra il fatto che ogni disputa è stata sistemata [...]. In verità c’è stato molto più accordo che disaccordo a San Francisco».
In questa fase gli Stati Uniti erano alle prese con un nodo ancora non completamente risolto, il possibile ritorno all’isolazionismo; ciò che la McCormick definì il «reale pericolo di un fatale rovesciamento del sentimento americano» tornava di attualità nel momento in cui la guerra si era conclusa vittoriosamente e varie parti della società americana - per nulla attratte dal ruolo di principale potenza mondiale che l’America stava per assumere - pensavano soprattutto a «riportare a casa i ragazzi».
Di nuovo la McCormick fu in prima fila nell’affermare che la «leadership che gli Stati Uniti hanno assunto a San Francisco nell’organizzare lo sforzo internazionale per prevenire un’altra guerra» doveva tradursi in un impegno diretto in Europa per riportare condizioni di stabilità e benessere. «La fame è la potenza più grande e può privare dei frutti della vittoria, minare i fondamenti di ogni struttura di pace». «Aumentare gli aiuti alimentari non è solo una questione di filantropia, ma di vitale interesse per gli americani. Finché non ci saranno cibo e lavoro non potranno esserci ordine e interesse alla democrazia politica». La sua visione internazionalista si saldava così ad un’analisi della situazione europea in cui riaffiora il nesso tipicamente rooseveltiano tra pace, prosperità e stabilità democratica.
Nel 1945 l’accento cade ancora più sui bisogni alimentari che sulla ripresa produttiva dell’Europa, ma il riferimento al «vitale interesse» americano nella crisi in corso al di là dell’Atlantico è già un segno della capacità del liberalismo americano di definire l’interesse nazionale in termini globali. Nei mesi successivi le forti tensioni sociali e politiche che percorrevano l’Europa distrutta dalla guerra e il peggioramento delle relazioni con Mosca segnaleranno l’urgenza di una strategia europea degli Stati Uniti: un forte impegno americano nella ricostruzione, per nulla scontato nel 1945, sarebbe diventato di lì a poco la chiave per «vincere la pace», nonché uno dei pilastri del «contenimento» dell’influenza sovietica.
L’ultima delle conferenze di guerra, svoltasi a Potsdam nel luglio-agosto 1945, fornì altri segnali dell’allentamento della collaborazione tra i tre grandi. Truman e Churchill da una parte e Stalin dall’altra si scontrarono sulle riparazioni tedesche, con i primi contrari ad una soluzione punitiva ed il secondo desideroso di utilizzare il bottino tedesco per alleviare la difficile situazione interna sovietica. La McCormick colse l’inasprimento del clima internazionale ed associò l’ennesimo allarme sulla gravità del quadro europeo alla difesa della «libertà»: «L’Europa ha bisogno di tutto [...], nell’aiutare questo continente a mettersi sulla via della ricostruzione noi abbiamo soprattutto vantaggi. Non solo mercati, non solo stabilità, [...] ma la nostra migliore possibilità di estendere la zona di libertà da cui dipende la nostra stessa libertà. In altre parole, la possibilità di vincere la guerra», scrisse la McCormick all’indomani della conferenza, guadagnandosi di nuovo gli apprezzamenti del segretario di Stato Byrnes, con cui gli scambi di opinione si facevano via via più fitti <3.
Le tensioni emerse a Potsdam si aggravarono nei mesi successivi, in un crescendo in cui si alimentarono reciprocamente politiche più intransigenti e percezioni della controparte viziate dal riemergere di diffidenze mai del tutto superate. La McCormick fu una testimone significativa di questo mutamento di clima, in cui si andavano diffondendo i germi della guerra fredda. «L’Urss sta deliberatamente cercando di fare andare le cose nel modo più difficile possibile», scriveva da Londra in settembre, in occasione della riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri sui trattati di pace con l’Italia e con i paesi minori dell’Asse. In effetti la conferenza fu caratterizzata da un’aspra contrapposizione tra Byrnes e Molotov, in particolare sulle pretese jugoslave su Trieste e la Venezia Giulia, e si chiuse con un nulla di fatto.
Terminati i lavori della «prima conferenza finita senza una pretesa d’armonia», con «l’intero processo di pace tenuto in sospeso», la McCormick a soli sette mesi dal suo ultimo soggiorno europeo iniziò un nuovo viaggio tra i paesi devastati dalla guerra. «L’Europa l’attira come un magnete e ha deciso di riprendere a trascorrere parecchi mesi all’anno là» disse di lei la portavoce del «New York Newspaper Women Club».
E così l’americana, sempre accompagnata dal marito nonostante la malattia che lo aveva colpito l’anno prima, riprese la consuetudine di recarsi una volta l’anno in Europa, interrotta solo durante il conflitto <4.
Londra, Edimburgo, Berlino, Monaco, Francoforte, Vienna, Budapest, Parigi e Roma, e poi ancora Cambridge, Leeds, Wakefield (il paese natale dell’americana nello Yorkshire), Wiesebaden, Magonza, Colonia, Norimberga furono le tappe del primo reportage europeo dalla fine della guerra; per quasi quattro mesi la sua column «Abroad» avrebbe ospitato corrispondenze dall’estero.
L’americana tornò a tratteggiare il clima politico dei paesi che visitava, l’atmosfera di ricostruzione nelle grandi città, ma anche le realtà economiche e sociali dei distretti agricoli, industriali e portuali.
In Inghilterra l’avvento dei laburisti di Attlee, che nell’estate era succeduto a Churchill, era espressione del «ritorno al tempo dell’uomo comune», del ripiegamento degli inglesi sulle loro faccende interne. La scelta degli elettori era stata per «uomini che rimuovessero il dibattito pubblico, meno militare e politico e più sociale ed economico», scriveva la giornalista, aggiungendo che si trattava di un «governo in prova», chiamato ad «alleviare le difficoltà della vita quotidiana». Il passaggio dall’Inghilterra alla Germania era la scoperta del «vuoto incommensurabile» che esisteva «tra la vittoria pagata a caro prezzo e la sconfitta senza speranza». Attraversando il territorio tedesco su quello che era stato il vagone privato di Hitler in compagnia di Byrnes, l’americana visitò città industriali come Francoforte, «praticamente morte e sepolte sotto la propria polvere», e constatò l’apatia e la demoralizzazione della popolazione. Berlino poi era «uno dei posti più strani in uno strano mondo», dove quattro governi lavoravano insieme e intanto erano in competizione tra loro. Qui criticò gli alleati per la loro incapacità a produrre in sette mesi «una politica congiunta» o almeno «un primo progetto di ciò che deve rimpiazzare la Germania distrutta». Quanto all’Ungheria, accessibile dalla Germania con il lasciapassare sovietico, aveva ripristinato una stampa relativamente libera, come poteva esserla quella di un paese occupato, e mostrava una certa ripresa della vita democratica; governata da un governo di coalizione in cui erano presenti solo due comunisti, nel 1945 tra tutti i paesi dell’Europa orientale era quello che presentava la situazione più aperta circa gli assetti interni e la collocazione internazionale futuri. La McCormick tuttavia sottolineò con preoccupazione che gli ungheresi da lei intervistati non si facevano illusioni sulla loro posizione rispetto all’Urss. Da Budapest tornò in Germania per seguire il processo di Norimberga, dove dall’ottobre le nazioni vincitrici erano riunite a giudicare 22 criminali di guerra nazisti, tra i quali Göring e Ribbentrop: uomini «così ordinari» all’apparenza, eppure «per questo più terribili», perché avevano dimostrato quanto «la loro limitata intelligenza e la loro perversa moralità avessero potuto fare con il potere di una nazione», dove ora regnavano solo «tremenda debolezza e malattia» <5.
A dicembre fu la volta di Parigi e Roma. Le sue impressioni erano positive, anche per il suo legame con i paesi dell’Europa latina e in particolare con l’Italia, dove la presenza del papa in Vaticano assumeva un valore particolare in quella fase di transizione; ma anche qui non mancavano note di preoccupazione. Chi come lei proveniva dalla Germania, «dalla spaventosa distruzione del popolo che non sorride», percepiva che «alla fine la Francia ha avuto la sua vendetta», «è sulla strada della ripresa, sta tornando nuovamente a vivere». Tuttavia nella sua descrizione di De Gaulle sembra riaffiorare la scarsa sintonia personale tra Roosevelt e il simbolo del riscatto francese, definito «l’uomo che riunisce in sé le più irritanti e le più eroiche qualità dei francesi». Anche in Italia, «fino all’anno scorso terra di rovina e disperazione, la ricostruzione - scrisse l’americana - è avviata a pieno ritmo»; «gli italiani, che contemplavano le loro rovine senza speranza, ora stanno sviluppando una sorprendente fiducia nelle loro capacità». In realtà il quadro economico non era così roseo: nell’inverno 1945-46 gli americani si stavano preoccupando soprattutto della Germania, e non avevano idee molto chiare sulla ripresa dell’economia in una fase in cui era già emersa l’inadeguatezza dei piani rooseveltiani sulla liberalizzazione degli scambi, ma non si era ancora delineata la soluzione del Piano Marshall.
Era soprattutto la politica a giustificare la soddisfazione della giornalista, poiché proprio in dicembre Ferruccio Parri fu sostituito alla guida del governo da De Gasperi che, scrisse la giornalista, «gode di grande consenso e fiducia fra la gente». L’avvicendamento ai vertici dell’esecutivo segnò un rafforzamento dell’influenza della Chiesa ed un declino di quella della sinistra; in un articolo la McCormick sottolineò che l’Italia, sconfitta e senza alcun peso sulla scena internazionale, poteva ancora contare sul Vaticano, rimasto «il solo centro internazionale» nel paese.
Accolta in udienza privata da Pio XII, riferiva di aver avuto la rassicurazione che «il pontefice sta lavorando per fare di Roma ancora una volta una capitale internazionale», per ridarle quel prestigio internazionale che - ricordava l’americana - solo il breve intervallo dell’impero fascista le aveva restituito <6.
Ora tuttavia la riproposizione del tema della grandezza di Roma, spesso declinata in senso classicista, non poteva più poggiare sull’impero fascista, ma solamente sul papato, centro del mondo cattolico. Inoltre influiva sulle posizioni della giornalista il suo affetto per l’Italia, che si saldava con l’interesse politico per il «precedente italiano», cioè per il primo paese in cui - in seguito alla caduta del regime - si era iniziato ad affrontare il dopoguerra in termini di assetti interni e collocazione internazionale. Il legame della giornalista con la comunità dei rifugiati antifascisti negli Stati Uniti continuava ad essere un altro elemento importante del suo rapporto con l’Italia, anche se dall’armistizio in poi - anche in seguito alle pressioni vaticane, prontamente accolte da Myron Taylor - divenne chiaro che gli alleati, magari a malincuore, avrebbero puntato sul partito cattolico più che sugli esuli di orientamento liberale nella ricostruzione politica del paese.
Max Ascoli, già presidente della ««Mazzini Society»», era stato tra coloro che avevano visto in Carlo Sforza il garante ideale di una transizione laica e moderata dal fascismo alla democrazia. Dopo il veto posto da Churchill sul suo nome, tra i più prestigiosi del liberalismo prefascista, Ascoli continuò ad avanzare proposte sulla ricostruzione dell’Italia; nell’estate del 1945 espose alla McCormick un piano per il rilancio dell’attività economica basato sulla rinascita della piccola impresa, e le chiese il suo aiuto per promuoverlo in Italia. E l’americana contattò l’ambasciatore in Italia Alexander Kirk pregandolo di «fare tutto il possibile per favorire il progetto» di Ascoli, «una voce molto influente negli Stati Uniti». Di fronte al «tragico dramma dell’Italia», dove «il vuoto politico seguito al fascismo» si sommava a condizioni di vita allarmanti, che non lasciavano spazio alla politica, il progetto di Ascoli era a suo giudizio «una delle poche costruttive idee uscite dalla confusa buona volontà degli amici americani e italoamericani» <7.
Il carattere centralistico dello stato italiano era stato frequentemente individuato come una delle tare storiche dello sviluppo democratico del paese e una concausa significativa del sorgere del fascismo; nel fermento di idee delle fasi finali della guerra e dell’immediato dopoguerra numerose proposte di decentramento politico-amministrativo venivano considerate una componente importante per trasformare il paese in direzione tale da evitare nuovi pericoli dittatoriali. Le tradizioni decentralizzatrici e localistiche del mondo cattolico, rinverdite ad esempio dalla proposte di Don Sturzo, vi giocavano una parte significativa ed è probabile che anche da questa fonte, oltre che dalla tradizione del federalismo americano, venisse la sensibilità della McCormick per questa proposta.
Altra figura di spicco della «Mazzini Society» era stato Alberto Tarchiani, ora ambasciatore italiano a Washington. Nella sua nuova veste egli era tra i fautori di un rafforzamento del ruolo degli Stati Uniti nelle vicende italiane, e subito dopo la liberazione utilizzò l’argomento del pericolo comunista per persuadere i vertici del dipartimento di Stato ancora esitanti a prendere l’iniziativa a scapito degli inglesi. Impegnato a presentare l’Italia agli americani come un paese amico e desideroso di intensificare i rapporti con Washington, Tarchiani nel settembre 1945 fu assai disturbato dalla pubblicazione sul «New York Times» delle dichiarazioni di un militare americano, il capitano Sidney Waugh, secondo il quale «gli italiani e i soldati americani si odiano, i G.I. devono guardarsi dalle insidie dei partigiani, e gli italiani non fanno il più piccolo sforzo per nascondere il loro rancore verso l’America, comportandosi come una grande potenza, anziché da paese di quarta o quinta classe». Queste parole sollevarono reazioni immediate nella stampa italiana e negli ambienti italiani in America, che temevano la diffusione di un’immagine dell’Italia preda del disordine politico e dell’antiamericanismo delle sinistre. «Questo capitano Waugh ha l’autorità di falsificare o alterare notevolmente i fatti nell’articolo del New York Times, contro la ben nota opinione di uomini come Montgomery, Alexander, MacFarley, MacMillian, Clark, Stone, Kirk, e naturalmente di scrittori e giornalisti» si rivolse Tarchiani alla McCormick con toni scandalizzati. «Questa è una notizia che merita di essere pubblicata o è solo un’evidente fantasia personale che dovrebbe essere onestamente rifiutata da un giornale di alta responsabilità come il New York Times?». Tarchiani le chiedeva di intervenire con «un sereno giudizio» sulla questione dato che «era perfettamente al corrente della recente storia italiana, dei fatti di cronaca ed aveva una solida personale esperienza della guerra e dell’occupazione dell’Italia» <8.
Intanto a dicembre, mentre la McCormick era a Roma, il quadro internazionale diede nuovi segni di deterioramento. I lavori del Consiglio dei ministri degli Esteri ripresero a Mosca e Byrnes, memore del fallimento di Londra, adottò un approccio più conciliante con l’Unione Sovietica; ne derivò un precario accordo sulla composizione pluralista dei governi di Romania e Bulgaria, che non avrebbe impedito la formazione di governi filosovietici nei mesi successivi. Truman, allarmato dalle notizie provenienti dall’Est europeo interpretazione sovietica degli impegni assunti a Yalta, non gradì l’iniziativa del segretario di Stato, mentre diplomatici come George Kennan ed esponenti repubblicani come Arthur Vandenberg e John Foster Dulles iniziarono a chiedere una minore disponibilità al compromesso, ed anche nell’opinione pubblica cresceva la diffidenza.
All’inizio del 1946 si ebbe un’accelerazione delle tensioni: a febbraio Stalin in un discorso al popolo russo delineava l’inevitabilità dello scontro tra società socialiste e capitaliste; a marzo Churchill denunciò l’espansionismo sovietico nel celebre discorso sulla «cortina di ferro» pronunciato a Fulton, nel Missouri; intanto Kennan nel «lungo telegramma» inviato a Washington dall’ambasciata di Mosca gettò le basi intellettuali della strategia del «contenimento», che avrebbe ispirato la condotta americana durante la guerra fredda. Si era ormai ad un punto di non ritorno, e di lì a poco la retorica anticomunista avrebbe di nuovo infiammato il dibattito politico interno, provocando un aspro dibattito che avrebbe lacerato anche gli ambienti liberal che fino a quel momento erano stati accomunati dal sostegno al New Deal e alla guerra.
La giornalista tornò a New York nel gennaio 1946, in una fase di grande attenzione per le vicende europee e, nonostante i suoi 66 anni, non si sottrasse ad un fitto calendario di apparizioni radiofoniche, dibattiti, seminari, spesso in sedi prestigiose, come la Columbia University, ed in compagnia di interlocutori noti, come Clare Boothe Luce, scrittrice cattolica, moglie dell’editore Henry Luce, rappresentante del Connecticut alla Camera e futura ambasciatrice in Italia dal 1953 al 1956.
Inizialmente la McCormick fu piuttosto prudente nel prendere atto del superamento definitivo della collaborazione alleata, ed anzi fece ricorso ad uno stile retorico che ricordava la rooseveltiana «libertà dalla paura».
Commentando il discorso di Churchill sulla «cortina di ferro» concesse all’ex primo ministro britannico che «se il pericolo è così imminente, la linea che auspica è la sola a fornire garanzie contro il disastro», ma aggiunse che «all’apice della nostra potenza, la politica americana non può basarsi sulla paura». E di fronte «al terrore che nelle ultime due settimane si è impadronito delle menti più calme e più ferme», aggiunse che «nessuna nazione può volere la guerra. Per nessuna potenza mondiale un sistema di sicurezza collettiva è così importante come per Stati Uniti e Unione Sovietica. Perciò nessuno, a meno che non sia pazzo, può desiderare la guerra o non usare il suo potere per prevenirla» <9.
Ma gli eventi dei mesi successivi confermarono che la prospettiva rooseveltiana di collaborazione tra le potenze vincitrici stava lasciando il posto ad un assetto bipolare costruito sulla contrapposizione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. La McCormick sottolineò il «clima di pessimismo» che si stava diffondendo in seguito al difficile andamento del Consiglio dei ministri degli Esteri sui trattati di pace con le potenze minori dell’Asse, che riprese i lavori a Parigi in aprile. «Il peggiore effetto del clamoroso disaccordo fra i tre grandi è la corruzione dello spirito della vittoria e il venir meno della fiducia di tutte le nazioni nella volontà delle grandi potenze di restaurare un ordine mondiale». «La questione principale - continuava - non è quando possiamo fare la pace. La questione preoccupante è se possiamo fare la pace». Attribuendo le tensioni fra le potenze «ad una sorta di orgoglio adolescenziale» dei sovietici, al «sospetto verso gli stranieri», all’«antica spinta all’espansione indefinita», la McCormick amplificava le rinnovate diffidenze dei funzionari americani verso i fini della diplomazia sovietica. «Nessuno che ha onestamente vissuto gli sviluppi delle conferenze internazionali da San Francisco a Parigi può nutrire il più piccolo dubbio sul fatto che andare d’accordo con la Russia sia stato lo scopo principale della nostra politica di pace. Il primo normale tentativo di costruire la pace ha deluso le aspettative e enfatizzato le differenze tra Russia e potenze occidentali e nessuno può essere sicuro dei trattati preparati nel corso di un anno e di un intenso lavoro di undici settimane a Parigi».
I toni della McCormick sull’andamento della conferenza di pace di Parigi riflettevano l’accelerazione verso la costituzione di due sfere di influenza, evidenziata nell’estate 1946 dagli eventi europei. In Germania i sovietici rifiutarono la proposta americana di giungere ad una gestione comune delle quattro zone di occupazione, in vista della stipulazione del trattato di pace. Stati Uniti e Gran Bretagna decisero allora di procedere unilateralmente e di unificare le zone di loro competenza nella cosiddetta bizona: era il primo passo significativo verso l’unificazione delle tre zone occidentali.
Le preoccupazioni americane per la Germania si trasformavano in allarme nel caso di Cecoslovacchia e Ungheria, che per la giornalista erano ormai «satelliti nell’orbita sovietica», benché nel 1946 il loro quadro politico fosse più fluido rispetto agli altri paesi dell’Europa orientale e balcanica.
Intanto stavano per svolgersi le prime elezioni del dopoguerra in Europa, un voto «pro o contro il comunismo» secondo la giornalista. Francia e Italia erano rappresentate come «custodi della civiltà occidentale» che prevedevano una pluralità di posizioni politiche e un argine alle «sinistre marxiste» costituito dai partiti «del socialismo cristiano che stanno crescendo in ogni paese per combatterle».
[NOTE]
1. Per orientarsi nella sterminata letteratura sulle origini della Guerra fredda si veda il saggio
bibliografico in W.I. Cohen, The Cambridge History of American Foreign Relations, Vol. IV,
America in the Age of Soviet Power 1945-1991, Cambridge, Cambridge University Press,
1995. Tra i lavori più significativi citiamo J.L. Gaddis, The United States and the Origins of
the Cold War 1941-1947, New York, Columbia University Press, 1972; M.P. Leffler, A
Preponderance of Power. National Security, the Truman Administration and the Cold War,
Stanford, Stanford University Press, 1992; M.P. Leffler, D.S. Painter (eds.), Origins of the
Cold War. An International History, London, Routledge, 1994.
2. No one power will prevail in conference, in «NYT», 30 aprile 1945; Hope of Polish Settlement
Heartens Conference, NYT, 5 maggio 1945; The Work of Organization Goes Ahead, NYT,
7 maggio 1945. I rapporti fra M. e Byrnes erano destinati a rinsaldarsi nei mesi successivi, vedi
AOMCC papers, box n. 3 April-June 1945, lettere di M. a Byrnes per fissare un incontro a
Washington dopo la conferenza a San Francisco, 30 aprile 1945 e 2 maggio 1945; box n. 4
January-March 1947, lettera di Byrnes a M. gennaio 1947 del segretario di Stato; box n. 3 July-
December 1944, lettera di M. a Edward Stettinius settembre 1944, predecessore di Byrnes.
3. W.I. Cohen, op.cit., pp. 17-20; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali…, cit.,
pp. 554-564; A False Picture of «Crisis» at San Francisco, in «NYT», 9 giugno 1945; The
Delegates Look Ahead from the Conference, in «NYT», 21 maggio 1945; The Great Post-War
Power Is Hunger, in «NYT», 26 maggio 1945; The Logistics of Peace Are Also a Problem, in
«NYT», 28 maggio 1945; Signing the declaration of Interdependence, in «NYT», 4 luglio 1945;
Withdrawal of American Forces from Europe, in «NYT», 11 luglio 1945; The Big Three Reresume
Where SHAEF Left Off, in «NYT», 16 luglio 1945; Too-Little, Too-Late Policy Will Not Win
Peace, Either, in «NYT», 23 luglio 1945; Firm stand urged on Foreign Policy, in «NYT»,
7 marzo 1945; U.S. Is Urged To Use Its Thinking Capacity, in «NYT», 12 aprile 1945; Two
Votes That Represent Reversals of Policy, in «NYT», 30 luglio 1945; Echoes of Conversations at
Potsdam, in «NYT», 25 luglio 1945; Potsdam Inaugurates a Great Experiment, in «NYT»,
4 agosto 1945; British Labor at Potsdam and Beyond, in «NYT», 6 agosto 1945; AOMCC
papers, box n. 3, July-December 1945, lettera di Byrnes 30 luglio 1945.
4. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali…, cit., pp. 638 sgg.; R.L. Messer, The End
of an Alliance. James Byrnes, Roosevelt, Truman and the Origins of the Cold War, Chapell Hill,
The University of North Carolina Press, 1982, pp. 192-193; The Stiffening Attitude Towards
Russia, in «NYT», 2 marzo 1946; Russia Is Losing British Good-Will, in «NYT», 26 settembre
1945; Council on Principles Not Procedures, in «NYT», 3 ottobre 1945; AOMCC papers, box
n. 3, January-March 1944, lettere 3 e 26 gennaio 1944; box n. 3, April-June 1945, discorso
di presentazione al «NYNW Club», 10 aprile 1945.
5. Labor Is a Government on Trial at Home and Abroad, in «NYT», 28 luglio 1945; Parlament
Looks the Same but Is Different, in «NYT», 10 ottobre 1945; English Coal Districts Stir with
Hope of Change, in «NYT», 22 ottobre 1945; Two Problems Confront Our Army in Germany,
in «NYT», 31 ottobre 1945; Forming a Pattern for the Rule of Berlin, in «NYT», 5 novembre
1945; Powers Ruling Berlin Compete To Do the Best Job, in «NYT», 10 novembre 1945. J.
Edwards, Women of the World..., cit., p. 84, riferisce del viaggio di M. insieme a Byrnes.
Nations East of Germany Not Subdued, in «NYT», 28 novembre 1945; Germany Little Enterested
in Trial of War Criminals, in «NYT», 1 dicembre 1945; Peace Hangs on Control of Germany, in
«NYT», 3 dicembre 1945; Rule in Germany Leaves Much To Be Desired, in «NYT», 5 dicembre
1945; Germany, Weak, Is Still a Great Problem, in «NYT Magazine», 16 dicembre 1945.
6. F. Romero, Gli Stati Uniti in Italia, cit., pp. 239-241; Paris Gives Evidence France Is on
Road to Recovery, in «NYT», 8 dicembre 1945, France Speaks as Voice of Western Europe, in
«NYT», 10 dicembre 1945, Flame of Courage Lights the House of France, in «NYT», 12 dicembre
1945; The Will To Leave Springs Up in Italy, in «NYT», 29 dicembre 1945; Influence
of Vatican Policy Shows in Italy, in «NYT Magazine», 26 dicembre 1945; Pope Gives Thanks
for Vatican Safety, in «NYT», 1 gennaio 1946; The Central Figure in the Roman Pageant,
in «NYT Magazine», 20 febbraio 1946; Italy Shocked by Moscow Decision, in «NYT»,
31 dicembre 1945.
7. M. inoltre preparò l’accoglienza a Roma di Ascoli, che avrebbe trovato un valido punto di
riferimento per pubblicizzare il suo progetto presso la contessa Mary Senny di Grottaferrata,
a cui portò in dono per conto di M. alcune paia di calze di nylon - introvabili in Italia - come
simbolico ringraziamento per le tante traduzioni di articoli di quotidiani italiani e commenti
sull’Italia che la contessa le aveva inviato durante l’estate. General «Maurizio» Appears in
Italian Politics, in «NYT», 18 giugno 1945; AOMCC papers, box n. 3, January-March 1944,
lettere dell’assistente sottosegretario di Stato, Frances E. Villis, a M. 12 luglio 1945, lettera di
M. a Tarchiani, luglio 1945; box n. 3, April-June 1945, Max Ascoli a M. giugno 1945,
risposta di M. 28 giugno 1945.
8. D.W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 150 sgg.; la risposta all’ambasciatore, in assenza di
M. che era in Europa, venne dal direttore generale Edwin L. James, che segnalò altri recenti
articoli sul «New York Times» che «spero considererete controbilanciare l’articolo di cui vi
lamentate». Mentre anche nelle corrispondenze europee di M. dell’inverno 1945 erano
evidenziati gli «incoraggianti segnali sul piano del recupero individuale e umano» delle popolazioni
particolarmente in Italia, Francia e Olanda, e si presentava un atteggiamento di
assoluta fiducia degli europei verso gli Stati Uniti, «l’unica grande potenza che desiderino
esaltare. Gli europei - aggiungeva - sono più preoccupati di noi quando ci vedono sciupare la
nostra forza, compromettere i nostri principi o rinunciare a quel predominio che tutti, tra
noi, sono convinti sia sufficientemente indiscutibile per formare la politica del mondo»,
Foulder Edwin L. James 1936-1949, NYT Archives, lettera di Tarchiani 6 settembre 1945;
Returned Officer Distrusts Italy, in «NYT», 6 settembre 1945; Capt. Waugh Denounced, in
«NYT», 8 settembre 1945; Disagreement on Italians, in «NYT», 10 settembre 1945; Attack
on Italians Seen, in «NYT», 14 settembre 1945; Italy’s Part in War, 19 giugno 1945; The
European Landascape in Retrospect, in «NYT», 12 gennaio 1946.
9. Mr. Churchill Proposal to the Middle West, in «NYT», 6 marzo 1946; Time Grows Short for
Peace Offensive, in «NYT», 13 marzo 1946; The United States and the United Nations, in
«NYT», 20 marzo 1946; The Three Agreements on UNO Clear the Air, in «NYT», 23 marzo
1946; AOMCC papers, box n. 4, January-March 1946, lettera di M. a Edward Spencer
Cowles del marzo 1946.
Marco Mariano, V - Ricostruzione e guerra fredda, 1946-1954 in Federica Pinelli - Marco Mariano, Europa e Stati Uniti secondo il New York Times. La corrispondenza estera di Anne O’Hare McCormick. 1920 - 1954, Otto editore, Torino, 2000