domenica 20 marzo 2022

Scrittori francesi di fronte alla bufera della seconda guerra mondiale


In questa sede, più che il ruolo assunto dagli intellettuali italiani nella Resistenza partigiana - alla quale essi approdarono perlopiù solo tra il 1942 e il 1943 e soltanto «dopo un lungo girovagare attraverso le illusioni e le prospettive del regime» <384 - preme mettere in evidenza il caso francese, poiché in esso si riconosce un’essenziale continuità personale e soprattutto ideale con l’impostazione che i membri francesi avrebbero cercato a più riprese di imporre alla SEC negli anni Cinquanta. <385
Epicentro della Resistenza da parte degli intellettuali francesi fu il Comité national des écrivains (CNE), strumento letterario di lotta, che ebbe i suoi rappresentanti più insigni in Jacques Decour (1910-1942), Jean Paulhan, Jacques Debû-Bridel (1902-1993), Jean Guéhenno (1890-1978), Jean Blanzat (1906-1977), Charles Vildrac e nel padre domenicano Jean-Augustin Maydieu al Nord, in Louis Aragon, Elsa Triolet, Claude Aveline (1901-1992), Albert Camus (1913-1960), Jean Cassou, Pierre Emmanuel (1916-1984), Louis Martin-Chauffier (1894-1980), Claude Roy (1915-1997), Pierre Seghers (1906-1987) e altri nella zona Sud. <386 Tra questi principali rappresentanti del CNE, Maydieu, Aveline, Cassou, Emmanuel, Martin-Chauffier e Roy avrebbero accettato di entrare a far parte della Société européenne de culture (alcuni svolgendovi un’attività continuativa e di primo piano come Maydieu).
Il CNE si diede principalmente tre ordini di funzioni: la promozione di opere letterarie a sostegno della Resistenza ai tedeschi, lo scambio di informazioni e la denuncia degli scrittori collaborazionisti. Esso divenne ben presto un’istanza fondamentale nel contesto bellico e punto di non ritorno per l’organizzazione degli intellettuali europei. Si trattava, infatti, di un «[g]roupement littéraire à vocation politique» da considerare pienamente erede delle forme di mobilitazione collettiva degli intellettuali sviluppatesi a partire dall’affaire Dreyfus e giunte a maturità nel corso della lotta antifascista degli anni Trenta. <387
In un quadro nel quale lo sforzo individuale dell’uomo di cultura si univa in senso profondamente democratico allo spirito di decine di altri combattenti, di tutte le condizioni e classi sociali, il senso di comunità che ne scaturiva possedeva una grande forza emblematica. Nella nuova gerarchia sociale che emergeva dalla Resistenza, l’intellettuale, fino a quel momento spesso proveniente dalla media o alta borghesia e dotato di un capitale di studi e conoscenze che lo aveva integrato all’élite della nazione, poteva assicurarsi di mantenere una posizione centrale e insostituibile, al di là di quanto sarebbe potuto accadere all’organizzazione della società nel corso di una guerra che sconvolgeva le fondamenta stesse della convivenza civile. <388
Il CNE doveva la sua origine all’incontro «entre des écrivains dépossédés de leurs moyens d’expression et les structures organisationnelles et mobilisatrices du parti communiste clandestin».389 Tale convergenza faceva certamente notizia nei primi anni Quaranta: il PCF, infatti, in seguito alla guerra civile spagnola e al patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania, si era trovato in cattive acque, costretto a rinunciare a fare politica nella legalità e diviso dalle altre forze di sinistra. La conferenza di Monaco del settembre del 1938 aveva in effetti provocato una profonda spaccatura tra i propugnatori di un pacifismo integrale, disposti a non porre limiti alle concessioni da accordare a Hitler pur di evitare la guerra, e gli antifascisti convinti della necessità di frenare a ogni costo le pretese naziste. <390 Per queste ragioni, il ricostituirsi dell’alleanza a sinistra era da considerarsi in toto frutto delle particolari condizioni dell’Occupazione, e non per caso tale politica unitaria non sarebbe sopravvissuta alla conclusione della guerra. <391
Per chiarire il grande successo della mobilitazione degli scrittori nel CNE non è sufficiente rifarsi alle pratiche associative degli anni Trenta, sebbene esse si rivelassero punto di riferimento imprescindibile, dato che oltre la metà degli intellettuali del CNE era già stata attiva nelle organizzazioni antifasciste. Neppure la politicizzazione di nuovi elementi (ad esempio cattolici, anche di destra, o personalità come Jean-Paul Sartre, come si vedrà fino a quel momento distante da qualunque coinvolgimento politico) poteva chiarire in maniera convincente tale espansione, in quanto quella dello scrittore rappresentava plausibilmente «la “profession” la plus individualiste, la moins organisée, la moins réglementée». <392 Solamente il riferimento alla volontà di sfuggire all’irreggimentazione che anche il regime di Vichy aspirava a imporre agli intellettuali, sulla scorta dei progetti sviluppati negli anni precedenti anche dal fascismo italiano e dal nazismo, nonché alla minacciata (e attuata) soppressione della libertà d’espressione era in grado di spiegare l’affermazione del CNE. <393
La difesa dell’autonomia del campo letterario da ogni ascendente esterno rappresentava, in effetti, la prima forza motrice in grado di sollecitare gli scrittori all’arruolamento. Lo stesso carattere corporativo (e, di conseguenza, difensivo) del CNE era precisamente una delle chiavi del suo successo, dal momento che «[c]’est parce qu’on a offert aux écrivains les moyens de lutter avec leurs armes propres que, réactivant la dimension subversive de la littérature, ils ont assuré à la Résistance intellectuelle son prestige». <394
Il CNE costituiva pertanto, in qualità di istanza collegiale, l’espressione di un «principe de protestation collective»: <395 fu probabilmente in riferimento a esso che molti membri francesi della Société européenne de culture, diversi dei quali, come si è visto, attivi nel CNE durante la guerra, avrebbero tentato di influenzare e condurre l’azione dell’associazione veneziana. L’epoca della guerra fredda, tuttavia, si presentava come un tempo profondamente differente rispetto al periodo del conflitto antitedesco e le stesse strutture del CNE, che finì per essere debitore per la sua organizzazione al partito comunista francese, non erano equiparabili a quelle della SEC. Dalla mancata comprensione di questa fondamentale differenza sarebbe nata all’interno della Société européenne de culture negli anni Cinquanta una lunga serie di polemiche e malintesi.
Gli intellettuali che si rifacevano all’esperienza acquisita nel CNE erano, almeno nel frangente della guerra, scrittori dominati nel campo letterario <396 e uomini della sinistra laica già partecipi alle lotte antifasciste degli anni Trenta, <397 così come sarebbero stati prevalentemente dominati e appartenenti alla sinistra laica molti dei membri più attivi della SEC. Nonostante le differenze di vedute tra i diversi gruppi nazionali o con il Segretario generale Umberto Campagnolo, questa affinità avrebbe comportato una similare aspirazione all’autonomia del mondo della cultura dalle strettoie politiche imposte dalla guerra fredda.
Il progetto (mai realizzato) di un codice di comportamento per tutti gli scrittori, che il CNE sembrava intenzionato a stilare, si fondava sull’affermazione dell’autorità del giudizio dei pari su questioni di natura etica. Nel desiderio di fare approvare da De Gaulle, quale dirigente capo della Resistenza, un simile regolamento, vi era per prima cosa proprio la sentita necessità di garantire «l’autonomie du champ littéraire en imposant une instance propre face aux autres instances de la Résistance». <398 La stessa esigenza di salvaguardare l’autonomia del mondo intellettuale sarebbe stata fatta propria dalla SEC, ma le nuove minacce all’indipendenza dell’uomo di cultura, diverse da quelle esperite dagli aderenti al CNE in tempo di guerra dichiarata, avrebbero portato a ricercare strumenti possibilmente più efficaci.
[NOTE]
384 ASOR ROSA, La cultura, cit., p. 1584.
385 Per ovvi motivi non sussiste il confronto con la situazione tedesca su questo specifico punto. L’emigrazione intellettuale, intervenuta a partire dal 1933, per i suoi caratteri di Resistenza armata contro il nazismo (ancora una volta in senso sia metaforico sia letterale, come si è ricordato, nel corso della guerra di Spagna) potrebbe essere considerata valido termine di paragone, ma si tratta di un tema tangente rispetto alla presente ricerca. Per questi aspetti cfr. comunque ENZO COLLOTTI, L’emigrazione come resistenza, in NATOLI (a cura di), La Resistenza tedesca, cit., pp. 104-126.
386 LEYMARIE, Les intellectuels et la politique en France, cit., pp. 63-64.
387 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., p. 467.
388 WILKINSON, The Intellectual Resistance in Europe, cit., pp. 49-50.
389 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., p. 467.
390 Cfr. WINOCK, Le siècle des intellectuels, cit. pp. 315-323.
391 SAPIRO, La guerre des écrivains, cit., pp. 468-469.
392 Ivi, p. 469.
393 Ibid.
394 Ivi, p. 467.
395 Ivi, p. 535.
396 Gisèle Sapiro ha calcolato che «la moitié des membres du Comité seulement accèdent à la reconnaissance littéraire de leur temps et entreront dans la postérité» (ivi, p. 544).
397 Ivi, p. 546.
398 Ivi, p. 549.
Fabio Guidali, Uomini di cultura e associazioni intellettuali nel dopoguerra tra Francia, Italia e Germania occidentale (1945-1956), Tesi di dottorato, Freien Universitàt Berlin ed Università degli Studi di Milano, Berlino, 2013

Camus parlò pubblicamente della sua esperienza nella Résistance solo con scrupolosa discrezione. La scelta primordiale di prender partito nel movimento di Resistenza «Combat», certificata alla fine del 1943, non è testimoniata né giustificata, al di fuori degli editoriali di «Combat» e della selezione di articoli operata nelle "Actuelles", da nessun frammento dei "Carnets", né da alcuna intervista posteriore alla Libération.
Il redattore capo del più influente tra i fogli clandestini sorti dalla Résistance scelse di stendere sulla questione un velo di censura volontaria.
In realtà, sappiamo che Camus non rivelò mai i dettagli della sua esperienza vissuta tra la fine del 1943 e il settembre 1944 per una questione di coerenza e di fedeltà.
Egli riteneva infatti di aver recitato un ruolo ai margini della grande lotta per la Liberazione della Francia.
[...] Camus restò, di fatto, sempre fedele a questa affermazione paradossale secondo cui gli unici ad aver il diritto di parlare della Resistenza sono i suoi morti. Queste parole sono dettate dallo sconforto per la perdita dell’amico Leynaud e dalla consapevolezza che uomini come Leynaud «étaient entrés dans la lutte, convaincu qu’aucun être ne pouvait parler avant de payer de sa personne» (CAC 8, 292) <179. Questo punto di vista è condiviso da molti esponenti della Resistenza intellettuale a cominciare da Canguilhem secondo cui parlare dei morti della Resistenza «ne va pas sans quelque sentiment de honte, puisque, si on lui survit, c’est qu’on a fait moins que lui» <180.
La Resistenza fu per Camus una «absurde tragédie» riassumibile nella sventura dei suoi morti.
Esiste, di fatto, una questione sacra in seno alla Resistenza: la morte. In tutti i memoriali di coloro che hanno preso parte alla Resistenza europea sono presenti parole di commiato destinate ai morti, alle vittime, agli “eroi caduti”. I “martiri” <181 sono considerati “eroi” poiché hanno dato la vita in nome di quei valori che la Resistenza si proponeva di difendere e di riaffermare. Il motivo della “morte del rivoltoso” è un ingrediente essenziale di cui Camus si serve per tracciare i contorni morali e psicologici dell’atto della rivolta in "Remarque sur la révolte", nota pubblicata un anno dopo la Liberazione della Francia dall’Occupazione tedesca. La disposizione alla morte viene concepita da Camus come quell’esperienza fondamentale che genera la presa di coscienza della frontiera - e del valore da essa custodito - nel movimento di rivolta del funzionario, nella "Remarque sur la révolte", e dello schiavo rivoltoso, ne "L’homme révolté": «Plutôt mourir debout que de vivre à genoux» (III, 73) <182. Lo schiavo che prende coscienza della frontiera nella rivolta sa che «quella parte dell’uomo» che intende far rispettare è al di sopra di tutto, anche della propria vita. Il «bene supremo» presuppone un «Tout ou Rien» che non ammette compromessi. Quel «Rien» annuncia la possibilità del sacrificio dell’uomo a quel «Tout». In apparenza, queste parole sembrano collocate nel regno dell’astrazione; come cercherò di dimostrare, invece, esse sono tinte del sangue dell’esperienza, sostengono il peso e lo sguardo di chi come Leynaud ha dato la vita per quel «Tout».
La discrezione con cui Camus si è approcciato a un tema intricato come quello della Resistenza è inoltre stata generata da una motivata svalutazione dell’azione degli intellettuali “in situazione”. Il giudizio dell’ex redattore capo di «Combat» muove da una pura e semplice convinzione: la Resistenza l’ha fatta chi ha preso le armi: «Je n’ai jamais mis très haut l’action des écrivains (at d’abord la mienne) pendant la Résistance. En particulier, elle ne souffre aucune comparaison avec l’action de ceux qui ont pris les armes» (III, 936). Gli unici intellettuali che possono definirsi resistenti tout court sono quelli che hanno rischiato la vita, come René Char, la cui opera è «le miroir fidèle d’une vertu libre et fière dont le souvenir nous soutient encore» (III, 937). Il vincolo che Camus stabilisce tra Resistenza e morte - o rischio assunto responsabilmente di perdere la vita - è dunque strettissimo. Gli scrittori, in realtà, hanno fatto relativamente poco per la Résistance; al contrario, la Résistance ha dato molto agli scrittori perché ha fornito loro un insegnamento fondamentale: «Elle leur a enseigné le prix des mots» (III, 936). Con questo Camus vuole intendere che lo scrivere non è un semplice diverissement, un esercizio accessibile a tutti; le parole hanno un prezzo e quel prezzo, a volte, coincide con la vita: «risquer sa vie, si peu qui ce soit, pour faire imprimer un article, c’est apprendre le vrai poids des mots. [...] Et l’écrivain, découvrant soudain que les mots sont chargés, est porté à les employer avec mesure» (III, 936-937). Non si tratta insomma di dissertare sull’impegno, ma di impegnarsi anche senza combattere, come uomini <183. L’impegno, per coloro che hanno preso volontariamente parte alla Resistenza, era «un fatto dell’esistenza quotidiana, di una esistenza pericolosa dedicata completamente alla lotta senza quartiere» <184.
[NOTE]
179 Trad. it. da: Ibidem: «erano entrati nella lotta con la convinzione che nessun essere potesse parlare prima di pagare di persona».
180 G. CANGUILHEM, Vie et mort de Jean Cavaillès, 1903-1944, Éditions Allia, Paris, 1996, p. 38.
181 In tutti i paesi in cui Resistenza vi è stata, i morti ammazzati durante atti di resistenza sono chiamati comunemente anche “martiri”. Questo fatto, come vedremo testimonia della complessità del fenomeno della Resistenza europea, sempre in bilico tra mito e storia. Già nel primo numero di «Combat» - come si è mostrato - il linguaggio della morale e della religione era cominciato a penetrare nei fogli clandestini dei movimenti. Molti termini del vocabolario religioso verranno presi a prestito dal lessico resistente anche nei discorsi finalizzati a “ripensare” la Resistenza dopo la Liberazione.
182 Trad. it. da: A. CAMUS, L’uomo in rivolta, cit., p. 635: «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio».
183 «J’aime mieux les hommes engagés que les littératures engagées» (II, 1070). Queste convinzioni saranno al centro della polemica con Sartre, dopo la pubblicazione de L’homme révolté.
184 V. JANKÉLÉVITCH, Omaggio alla Resistenza universitaria, in Perdonare?, Giuntina, Firenze, 1987, p. 54.
Andrea Trabaccone, Esperienza e Rivolta. Implicazioni storico-filosofiche dell’esperienza dell’assurdo e della Resistenza in Albert Camus (1939-1947), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2011/2012

La questione dell’epurazione divise in maniera chiara e netta gli intellettuali francesi. I comunisti, in particolare, si mostrarono intransigenti e perseguirono una giustizia terrena necessaria, a loro dire, per bilanciare gli orrori perpetrati dal regime nazista durante la guerra, grazie anche alla collaborazione più o meno decisiva di alcuni intellettuali francesi. Il PCF (Partito Comunista Francese), sfruttando la sua posizione egemonica in seno al CNS (Comitato Nazionale degli Scrittori) e grazie al ruolo chiave di Louis Aragon (indiscusso riferimento culturale del partito), condusse una meticolosa e inflessibile politica di epurazione. Dall’altro lato i cosiddetti “indulgenti”, i quali includevano, tra gli altri, due figure di particolare spessore come Jean Paulhan ma soprattutto François Mauriac, erano di tutt’altro avviso. Continuare a seminare odio non avrebbe aiutato in alcun modo a superare il dramma della guerra e della barbarie nazista. Bisognava andare avanti e concentrarsi sulla ricostruzione materiale del paese.
Che posizione assunse Albert Camus in tale controversia? Lo scrittore di origini algerine, come vedremo, cambierà rapidamente opinione a riguardo, mostrando un dinamismo ed una capacità d’autocritica fuori dal comune, specialmente se paragonate a quelle dei suoi omologhi, poco importa se appartenenti al campo degli intransigenti o a quello degli indulgenti, che non furono quasi mai in grado di distinguere tra i singoli casi e di comprendere fino in fondo lo spirito dell’epoca. La sua opinione iniziale era già chiaramente percepibile dalla diatriba che Camus ebbe con François Mauriac nell’ottobre del 1944. Quest’ultimo aveva criticato gli eccessi dell’epurazione, promuovendo, in coerenza con la sua fede cattolica, gli ideali di carità e di perdono, condivisi peraltro dal generale de Gaulle.
Camus si oppose duramente a questa linea. Anche se fortemente contrario alla pena di morte e al sentimento di odio caratterizzante l’epurazione portata alle sue estreme conseguenze dai comunisti, lo scrittore si mostrò comunque avverso alla concessione del perdono incondizionato. L’11 gennaio del 1945, sulle colonne di Combat egli scrisse, in risposta a Mauriac: “[…], posso dire al signor Mauriac che noi non ci scoraggeremo e che, fino all’ultimo momento, rifiuteremo una carità divina che frustrerebbe gli uomini della loro giustizia” [Camus (1945), 1977, p.62]. Da quell’articolo emerse chiaramente l’opposizione tra gli ideali cattolici di Mauriac e la filosofia atea di Camus.
Un profondo senso di giustizia è il sentimento preponderante nell’animo irrequieto dell’autore de "Lo straniero".
Tuttavia, contro ogni attesa, la posizione di Camus sulla questione dell’epurazione evolse rapidamente e lo scrittore raggiunse in poco tempo il campo degli indulgenti. Il confronto con Mauriac, intellettuale di rilievo e sicuramente capace di stimolare una riflessione intima e personale nel più giovane collega giocò, senza alcun dubbio, un ruolo assai importante. Tuttavia, l’episodio decisivo per il cambio di fronte dello scrittore di origine algerina fu certamente il caso di Robert Brasillach, illustre scrittore francese pesantemente compromesso con il regime nazista e, per questo motivo, condannato a morte. Numerosi intellettuali, tra i quali spiccavano nomi come quelli di Paul Valéry, lo stesso François Mauriac, Jean Paulhan e Marcel Aymé, firmarono una petizione per chiedere la grazia al generale de Gaulle ed evitare così l’esecuzione di Brasillach. Aymé, incaricato di raccogliere l’adesione del maggior numero possibile di intellettuali francesi, riuscì a convincere Camus a firmare l’appello, malgrado i forti dubbi di quest’ultimo. Questa firma segnerà il suo distacco sulla questione da Sartre e da Simone de Beauvoir, i quali si mostreranno inamovibili in tal senso, rifiutando categoricamente di firmare la petizione. L’autrice de "Il Secondo Sesso" spiegherà in seguito la sua posizione, richiamando gli imperdonabili errori di Brasillach che portarono alla morte di alcuni suoi amici per mano dei nazisti: “è nei confronti degli amici morti o moribondi che mi mostrai solidale; se avessi alzato un dito in favore di Brasillach, avrei meritato che mi sputassero in faccia. Non esitai nemmeno un istante, la questione non si pose nemmeno” [Beauvoir 1963, pp.31-32, cit. in Dosse 2018, p.94].
Malgrado l’appello firmato da cinquantanove intellettuali e nonostante l’influenza che Mauriac già all’epoca esercitava sul generale de Gaulle, quest’ultimo rifiutò di accordare la grazia e Brasillach venne così fucilato. Lo scrittore di Perpignan fu però l’ultimo intellettuale celebre a essere condannato alla pena di morte: a partire da quel momento, le pene furono molto meno severe e la linea dettata dagli indulgenti prevalse nettamente.
Come ho già affermato in precedenza, il caso Brasillach rappresentò il punto cruciale per il cambio di rotta di Camus sulla questione dell’epurazione. Durante l’estate del 1945 egli visse una vera e propria crisi di coscienza, arrivando ad affermare, il 30 agosto su Combat: “è palese ormai che l’epurazione in Francia sia non solamente mancata, ma nemmeno più considerabile. La parola stessa, epurazione, era già abbastanza dolorosa. La cosa è divenuta odiosa” [Camus (1945), 1977, p.65]. Il caso in questione è quello di René Gerin, pacifista condannato ad otto anni di lavori forzati dalla stessa Corte che condannò a solamente cinque anni Georges Albertini, un reclutatore della LVF (Legione dei Volontari Francesi contro il bolscevismo). Camus affermò che “né in logica, né in giustizia, ciò sia ammissibile”, sottolineando poi il fatto che “bisognerebbe rispettare le proporzioni e giudicare gli uomini secondo ciò che realmente sono” [Id., p.66].
L’evoluzione del pensiero di Camus sulla questione dell’epurazione è un chiaro indice della complessità della vicenda stessa. L’opinione pubblica francese, ma anche gli stessi intellettuali, erano, come detto, nettamente divisi. Tuttavia, la maggior parte di loro privilegiò un rassicurante agnosticismo, evitando di esprimersi in maniera esplicita sulla questione. La difficoltà principale in questo caso, come afferma François Dosse, professore dell’Università Sciences Po di Parigi, è quella di coniugare “memoria ed oblio, […], necessario esercizio della giustizia e non meno necessario bisogno di ricucire i fili dell’unità nazionale” [Dosse 2018, p.98].
Alessandro Pucci, Intellettuali, politica e società: Albert Camus e il ruolo dell’intellettuale engagé, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2018-2019