giovedì 7 luglio 2022

Le conseguenze di questa politica economica ebbero forti ripercussioni anche all’interno della Democrazia Cristiana


Tuttavia, il passaggio dei poteri dalla monarchia alla Repubblica fu tutt’altro che semplice. Quando il 4 giugno iniziarono a fare le somme definitive, non essendo state ancora calcolate né le astensioni né le schede annullate, mancava il conto complessivo dei voti validi. Si pose così l’interrogativo se la maggioranza della Repubblica fosse assoluta e su questo dubbio iniziarono a sollevarsi le prime polemiche dei monarchici sul risultato del referendum <86. In un secondo momento, quando il 10 giugno la Cassazione annunziò la vittoria della Repubblica non in termini definitivi, il Governo si pose il problema se, in assenza di un risultato conclusivo, si sarebbero potuti trasferire al Presidente del Consiglio i poteri del Re, così come stabiliva l’articolo 2 della legge del 16 marzo 1946 in caso di vittoria della repubblica sulla base della maggioranza assoluta dei voti validi. Il consenso del Re, Umberto II, era necessario affinché non si andasse oltre la lettera contenuta nel testo di legge. Peraltro, era fondato il pericolo che, qualora il sovrano avesse conservato la pienezza dei suoi poteri, avrebbe potuto anche revocare il mandato al governo con l’intento di formare un gabinetto di sua fiducia con conseguenze inconcepibili. Anche in questo caso, Alcide De Gasperi tentò di individuare un giusto compromesso «che garantisse i poteri al governo attraverso una delega del Re, ma che formalmente non esautorasse quest’ultimo» <87. Nel mentre, lo statista trentino, oltre che osservare con attenzione quello che accadeva al Quirinale, invitava alla moderazione i suoi colleghi di governo. Diverse volte ebbe anche l’occasione di rivolgere al sovrano avvertimenti di serietà e importanza inequivocabile come, ad esempio, l’11 giugno, quando gli avrebbe detto: «senta, le parlo come in Sacramento. A me non importa nulla, posso sparire domani stesso dalla scena politica. Ho due cose sole a cuore, che ho sempre difeso: l’unità morale e l’unità territoriale dell’Italia. Sono entrambe in pericolo. Non faccia un passo falso. Danneggerebbe oltretutto la dinastia, che sinora si è comportata in moda tale da potere in un eventuale domani aspirare a ritornare. Non rovini la sua reputazione» <88. Ciononostante, il 12 giugno, il sovrano inviò una lettera a De Gasperi in cui ribadiva la sua intenzione di voler attendere la pronuncia definitiva della Cassazione per chiudere la questione della delega dei poteri al governo, avanzando anche la pretesa che la maggioranza venisse calcolata sul numero di elettori votanti e non sul numero dei voti validi. Lo statista trentino, dinnanzi a tali dichiarazioni, capì che una decisione necessitava di essere presa dal Consiglio dei ministri e, a tal fine, consultò alcuni autorevoli giuristi per ottenere pareri che gli avrebbero permesso di arrivare ad una soluzione accettabile. Riaffermando il proprio punto di vista, De Gasperi spiegò che «l’errore della tesi monarchica sta principalmente in ciò, nel ritenere cioè che la proclamazione provvisoria dei risultati del referendum, sol perché tale, non sia idonea a produrre alcun effetto giuridico e che debba attendersi la proclamazione definitiva, con la decisione dei ricorsi e delle opposizioni, per potersi far luogo ad ogni trapasso di poteri sovrani del Monarca» <89. Decidendo di respingere la proclamazione affrettata della repubblica, per considerare lecito il passaggio delle funzioni della Corona al Presidente del Consiglio, De Gasperi sottolineava come questa linea garantiva la continuità costituzionale dello Stato, sulla quale comunque richiedeva l’approvazione del governo. Salvo Cattani, nessuno mosse obbiezioni e, tra il 12 e il 13 giugno, il Consiglio dei ministri votò un ordine del giorno che attribuiva, per legge e in via transitoria, le funzioni di capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica fintantoché non fosse stato designato un nuovo Presidente della Repubblica.
Eletto Enrico De Nicola a capo provvisorio, il 28 giugno 1946, lo statista trentino rassegnò le dimissioni del suo primo governo. Il successo ottenuto alle elezioni del 1946 gli garantiva il reincarico. Essendo venuto meno l’obbligo dell’unità ciellenista, De Gasperi, per la formazione del nuovo gabinetto, puntò ad un’alleanza con i socialisti e comunisti. Una novità la rappresentò l’ingresso nella squadra di governo del Partito repubblicano italiano. Quanto ai liberali, essi si collocarono all’opposizione mentre le formazioni azionistiche, nella pochezza del loro risultato, decisero di appoggiare il Governo dall’esterno. In questo esecutivo, lo statista trentino si assicurò una preminenza che prima non aveva mai avuto: mantenne ad interim gli Interni e gli Esteri con la condizione che, una volta concluso il Trattato di pace, avrebbe lasciato il secondo incarico a Nenni. Scoccimarro ottenne il ministero delle Finanze e Corbino mantenne quello del Tesoro.
Un primo importante obiettivo del nuovo governo era quello di procedere alla ricostruzione del sistema economico della nazione, completamente distrutto dopo il secondo conflitto mondiale. Per tale ragione, la politica economica andò ad assumere un ruolo determinante. Nel 1946, l’intero andamento dell’economia italiana era caratterizzato da un alto tasso di inflazione che dava luogo ad evidenti processi speculativi, legati soprattutto alle modalità con cui si era intervenuti sul cambio, e generava forti squilibri nella distribuzione dei redditi. Tutto questo creava ulteriore instabilità sociale e introduceva fattori di frizione tra le forze politiche. La linea liberista di politica economica, non condivisa dalle sinistre ma portata avanti con determinazione da Einaudi e De Gasperi, era parsa la soluzione migliore in quel momento per fronteggiare la difficile situazione economica. Quella linea andava ben oltre il «primitivo liberismo» di Corbino, finalizzato solo ad un contenimento della spesa pubblica per fronteggiare il processo inflattivo, poiché promuoveva una liberalizzazione del mercato interno e degli scambi con l’estero che implicava un allentamento del controllo del cambio della lira sul dollaro <90. Tutto questo portò alla creazione di un imbrogliato sistema di cambi multipli che sollecitò l’apertura di alcuni settori industriali e innescò una serie di fenomeni virtuosi accompagnati anche da una forte espansione del credito bancario con caratteristiche spesso speculative. L’effetto nell’immediato fu quello di aumentare, senza alcun controllo, la massa monetaria in circolazione generando una forte inflazione: poiché la Banca d’Italia non adottò nessuna delle misure necessarie per ripristinare la situazione, la politica di bilancio perse la sua operatività <91. La conseguenza fu l’impossibilità di sanare il debito statale con i prestiti a breve termine che Corbino aveva preferito per i più bassi tassi di interesse.
In realtà, Einaudi aveva ben calcolato i rischi dell’inflazione. Se è vero che da una parte essa nel breve periodo diede una scossa al sistema produttivo, garantendo la tenuta dell’occupazione, è altrettanto vero che dall’altra avrebbe innescato una spirale prezzi-salari che non poteva essere cauterizzata se non con un intervento di tipo politico. Alcide De Gasperi, che aveva ben compreso la situazione, dinnanzi alle richieste avanzate dai dipendenti statali di un aumento del 100 per cento sulla paga base al fine di tenere conto dell’inflazione, notava che l’aumento sarebbe stato possibile solo del 10 per cento. Lo statista trentino era consapevole che le rivendicazioni degli operai erano giuste ma sapeva anche che in quel momento non sarebbe stato possibile intervenire e, dunque, preferì rimanere fermo sulla proposta del blocco dei salari. In effetti così avvenne nei primi mesi del 1946, quando la Cgil accettò l’accordo sulla ricostruzione, in base al quale il salario medio di un lavoratore statale veniva fissato ad un livello di almeno un quarto inferiore a quello dell’anno precedente, ottenendo in cambio una temporanea riconferma del blocco dei licenziamenti <92.
Le conseguenze di questa politica economica ebbero forti ripercussioni anche all’interno della Democrazia Cristiana. In particolare, Giuseppe Dossetti avanzò delle critiche a De Gasperi che rappresentarono il punto di partenza di un dissenso profondo. L’attacco di Dossetti era chiaramente di natura politica e costituì «la prima formalizzazione della presenza dossettiana» <93 all’interno del partito. Egli aveva percepito che «la linea liberista assumeva i caratteri di una discriminante trasversale che determinava l’intera dinamica politica, costituendo tra l’altro l’antidoto decisivo alle eventuali pretese integraliste del partito cattolico» <94. In verità, anche per De Gasperi, che aveva la più alta responsabilità di Governo, era chiaro che l’espansione monetaria necessitava di essere arrestata nel più breve tempo possibile ma egli sapeva che per farlo erano necessarie condizioni politiche ancora non maturate. In particolare, come ha ricordato Piero Craveri, «qualsiasi impostazione di politica economica per la ricostruzione italiana postulava la pregiudiziale e realistica considerazione di quale sarebbe stato l’assetto dei rapporti internazionali in cui si sarebbe venuta a collocare» <95. E dunque, per il politico trentino, un’altra questione urgente che necessitava di essere affrontata nell’immediato riguardava la definizione del Trattato di pace. La struttura di quest’ultimo venne ben definita durante un incontro che si svolse nel 1946 e che vide la partecipazione dei quattro ministri degli Esteri dei paesi vincitori del secondo conflitto mondiale. Le clausole contenute nel documento imponevano condizioni molto onerose per l’Italia: la perdita della Venezia Giulia, la cessione di Briga e Tenda alla Francia, la rinuncia da parte dell’Italia delle sue colonie, la cessazione del Dodecaneso alla Grecia e l’isolotto di Saseno all’Albania. In aggiunta, ammontò a cento milioni di dollari l’entità delle riparazioni di guerra all’Urss. Alla Conferenza di pace, che si tenne a Parigi tra il 29 luglio e il 15 ottobre 1946, De Gasperi partecipò accompagnato da una delegazione che aveva come segretario Antonio Meli Lupi di Soragna e composta dagli ambasciatori Quaroni, Carandini, Tarchiani, Fornari e Reale. Nel tentativo di migliorare la posizione della nazione, la delegazione portò avanti una serie di trattative diplomatiche con i ventuno paesi alleati che, tuttavia, non furono sufficienti a rimettere in discussione il compromesso raggiunto tra le potenze vincitrici <96. Il Trattato, infatti, pur riconoscendo all’Italia il merito di aver contribuito al rovesciamento del regime fascista, le attribuiva la responsabilità della guerra di aggressione contro le potenze alleate.
Le posizioni internazionali che andavano definendosi si riflettevano sull’opinione pubblica italiana e sulle relazioni tra partiti, i cui legami iniziarono a deteriorarsi. In particolare, l’atteggiamento del Pci, dopo il 10 agosto, iniziò a mutare proprio in merito alla questione del Trattato di pace. È rilevante notare che il Partito comunista, se da una parte risultava essere allineato nelle deliberazioni di governo, dall’altra, non perdeva occasione per sollevare critiche nei confronti dell’operato di De Gasperi. Consapevole di questo, lo statista trentino, durante il Consiglio nazionale democristiano del settembre 1946, accusò il Partito comunista di praticare «una politica del doppio binario» <97, di governo e di opposizione.
[NOTE]
86 P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 236.
87 Ibidem.
88 P. Craveri, De Gasperi, p. 237.
89 Ibidem.
90 P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 243.
91 Ibidem.
92 P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 240 ss; S. Turone, Storia del sindacato in Italia, 1943-1989, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 126.
93 P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia cristiana italiana (1938-1948), Il Mulino, Bologna, 1979, p. 331; P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 245.
94 Ibidem.
95 G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere, cit., p. 150 ss; P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 246.
96 Ivi, p. 249.
97 Si veda «il Popolo», 19 settembre 1946; P. Craveri, De Gasperi, cit., p. 267.
Martina Cirelli, La ricostruzione degasperiana dell'Italia: il decennio 1943-1953: dal partito alla nazione, Tesi di laurea, Università LUISS "Guido Carli", Anno accademico 2020/2021