domenica 2 ottobre 2022

Berlinguer si trovò davanti ad uno scenario politico-economico del tutto nuovo


Quando nel marzo del 1972 approdò alla guida del Pci Enrico Berlinguer, iniziò a soffiare nella sede del Partito comunista italiano un vento nuovo: egli non voleva solamente, dal punto di vista interno, aprire la strada della piena legittimazione al suo partito dal punto di vista governativo e parlamentare; ma voleva, sul piano esterno, cercare di allontanarsi sempre di più dall’Unione Sovietica che aveva influenzato le scelte del Partito comunista, il quale risultava una vera e propria cellula affiliata del Partito comunista dell’Urss. La strategia del segretario venne denominata Eurocomunismo: l’obiettivo era quello di costruire un polo comunista che fosse alternativo a quello sovietico, alla guida del quale si candidò il Pci, che voleva radunare tutti gli altri partiti comunisti occidentali per percorrere la cosiddetta “terza via” tra quella sovietica e quella delle socialdemocrazie Nord europeo. Berlinguer, Ingrao e molti altri esponenti comunisti, pensavano di poter far sposare democrazia, socialismo e rivoluzione democratica e antifascista, creando in Italia la cosiddetta “terza via” che poteva diffondersi in altri paesi del mondo. Con questa strategia volle riprendere il progetto dell’unità democratica di Togliatti, interrotto nel 1947. Berlinguer era convinto che la rivoluzione potesse innestare la terza via, credeva che «era indispensabile che in Occidente si avviasse una rivoluzione diversa da quella del ’17 […] la rivoluzione iniziata dai Bolscevichi ha toccato i suoi limiti storici, ha dato tutto quello che poteva dare, e oggi noi, suoi eredi, dobbiamo andare oltre di essa. Ecco perché la terza via» <91. «L’impianto ideologico aveva bisogno, quindi, di un rinnovamento che lo rendesse compatibile con le democrazie dell’Occidente, nonostante dovesse comunque rimanere legato alla matrice comunista; trovare un’alternativa al capitalismo rimase un presupposto fondante, che però fu effettivamente messo in discussione, precisamente in un’ottica più democratica» <92. Attraverso il progetto di Berlinguer sarebbe potuta venir meno la conventio ad excludendum che aveva impedito l’accesso al governo dei comunisti.
Arrivato nel 1972, Berlinguer si trovò davanti ad uno scenario politico-economico del tutto nuovo. La recessione italiana venne segnata dall’intreccio fra stragi e terrorismo nero e rosso. L’inflazione e la svalutazione evidenziarono gli squilibri tra i profitti delle imprese delle attività in crescita, con i salari dei ceti medi e degli operai in netto calo. A questo si aggiunse un fenomeno di secolarizzazione e modernizzazione del paese che venne dimostrato dalla scelta al referendum sul divorzio del 1974. La recessione prese il via sotto la pesante influenza del contesto internazionale, marcato dalla sconfitta degli americani in Vietnam e dall’iniziativa pressante dell’Unione Sovietica in Africa e in Asia <93. Secondo il neosegretario Enrico Berlinguer si stava assistendo anche ad una recessione del sistema capitalistico e imperialistico, connotata dal crollo delle attività produttive, dal caos nel sistema monetario, dalla crisi in atto negli Stati Uniti e dalla riduzione del Pil nei sette paesi più produttivi del mondo. A questa visione, però, si accompagnava una percezione positiva della condizione dei paesi dell’area socialista: «Ma il dato è che in tutti i paesi socialisti si è registrato e si prevede un forte sviluppo produttivo […]. Nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no. E’, inoltre, ormai universalmente riconosciuto che in quei paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici, e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione» <94.
Questa convinzione di maggiore benessere dei paesi dell’area socialista convinse Berlinguer, già all’interno della sua relazione al XIII Congresso del Pci a Milano nel 1972, ad elaborare la strategia del compromesso storico: «in un Paese come l’Italia una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le tre grandi correnti popolari: comunista, socialista e cattolica» <95. La strategia che si voleva attuare nel compromesso puntava a diffondere “elementi di socialismo” all’interno della società italiana, cercando di modificarla nel profondo, attraverso “una sorta di rivoluzione ad occidente, che sarebbe stata resa possibile grazie alle originali peculiarità del caso italiano” <96. Per comprendere la volontà di mettere in atto questo compromesso, bisognava capire a fondo quale fosse l’obiettivo: «ogni alleanza comporta determinati compromessi: Lenin ce lo insegna. Si tratta di distinguere tra i diversi tipi di compromesso. Vi è il compromesso che [...] rende il movimento operaio subalterno all’egemonia delle classi dominanti. Esso va respinto. Vi è invece il compromesso che consente al movimento operaio [...] di spostare a proprio favore i rapporti di forza, di far convergere movimenti diversi verso obiettivi di progresso politico e sociale. Questo è il compromesso necessario e giusto, possiamo dire “rivoluzionario”» <97.
I successi alle elezioni del 1975-1976 portarono alla convinzione, all’interno del Pci, di poter avere un ruolo di grande rilievo sul piano mondiale, di edificare un nuovo modello di società in cui le caratteristiche del socialismo avrebbero modificato a fondo il sistema produttivo capitalistico. Alle elezioni del 1976, quindi, il Partito comunista si presentò in un altro modo, e cioè come unico partito in grado di apportare un forte rinnovamento nel sistema politico italiano. L'appoggio al compromesso trovò un appoggio nell'area di sinistra della Democrazia cristiana, che aveva come esponente massimo Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini; non ebbe mai l'avallo dall'ala di destra della Dc, rappresentata da Andreotti. Gli esponenti delle correnti della destra e del centro vedevano l’apertura ai comunisti come un atto opposto ai principi dell’identità della Democrazia cristiana. Lo stesso Andreotti, infatti, dichiarò: «secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all'atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista» <98. Un compromesso parziale si raggiunse, grazie all’appoggio di Moro, attraverso l’appoggio esterno dato dal Pci al governo della “non sfiducia” nel 1976, al quale si sostituì poi nel 1978 la coalizione della solidarietà nazionale guidata da Giulio Andreotti, sostenuta dall’appoggio esterno del Pci, del Psi, del Psdi e, infine, del Pri <99. Berlinguer stava così portando a compimento il suo piano di compromesso.
L'incontro problematico fra Pci e Dc spinse però l'estrema sinistra a sabotare il Partito comunista e portò le Brigate rosse a rapire e poi ad uccidere Aldo Moro, proprio nel giorno della prima discussione sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV il 16 marzo del ‘78. Caduto questo governo, e senza il sostegno di Moro, il compromesso storico venne messo da parte.
[NOTE]
91 IG, APC, Fondo Berlinguer, Congressi Nazionali del Pci, fasc. 27, “Osservazioni sulla relazione di Berlinguer al XV Congresso del Pci”, nota dattiloscritta, 15 marzo 1979 in V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 312.
92 F. Andreucci, Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del PCI 1921-1991, Della Porta Editori, Pisa, 2015.
93 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 158.
94 XIV Congresso del Partito Comunista italiano, Relazione di Enrico Berlinguer, Editori Riuniti, Roma, 1975, pag.18-20 in V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 313.
95 XII Congresso del Partito Comunista italiano, Relazione di Enrico Berlinguer, Editori Riuniti, Roma, 1975, pag. 56. Come sopra
96 C. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pag. 104.
97 V. Gioiello, Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, in A. Hobel e M. Albertaro (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 322.
98 O. Fallaci, Intervista a Giulio Andreotti nel dicembre 1973, contenuta in Intervista con la storia, Rozzoli, 1973.
99 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 128.
Carolina Polzella, Dc, Pci e Psi: la crisi delle grandi famiglie politiche nella “prima repubblica”, Tesi di Laurea, Università LUISS, Anno accademico 2018/2019

Il nodo attorno al quale in questi anni furono ripensate e si ridefinirono le strategie politiche dei partiti della sinistra istituzionale e delle forze extraparlamentari maggiormente strutturate fu il «compromesso storico» proposto dal partito comunista italiano dopo il colpo militare in Cile del settembre 1973, che pose fine al governo del socialista Salvador Allende.
Quella proposta, formulata da Enrico Berlinguer ed esposta in tre articoli pubblicati su «Rinascita» nell’autunno 1973 <1, segnò una forte rottura nella politica comunista. Sebbene nella sua tradizione repubblicana il PCI avesse sempre manifestato un interesse verso le masse cattoliche, quel progetto politico rappresentava un passaggio che segnava una marcata discontinuità con la linea impostata da Togliatti in poi. La ricerca di un rapporto con il mondo cattolico prima, e con alcune componenti della DC poi, durante la segreteria di Longo, era completamente diversa dalla proposta di Berlinguer: adesso, il segretario del PCI cercava un dialogo ed un accordo con la Democrazia cristiana in quanto partito popolare, nella sua totalità.
Negli anni immediatamente precedenti il pronunciamento di quella formula, infatti, le proposte politiche dei comunisti erano state rivolte soltanto alla sinistra della DC. Al XII congresso del febbraio 1969, ad esempio, Longo, a partire dall’idea che si fosse consumato il fallimento dell’esperienza dei governi di centro-sinistra, aveva indicato nella costituzione di una «nuova maggioranza», che ponesse fine all’esclusione dei comunisti dall’area di governo, la soluzione per far uscire l’Italia dalla crisi economica e sociale. All’inizio del 1969, però, questa «nuova maggioranza» proiettata verso un dialogo con la sinistra democristiana, appariva ancora lontana <2.
La prospettiva di una «nuova maggioranza» sarebbe stata avvertita da alcuni dirigenti del partito con una maggiore urgenza nei mesi successivi, quando, in pieno «autunno caldo», parve ad alcuni che stessero maturando le condizioni per un avvicinamento tra comunisti, socialisti e la sinistra democristiana. La convergenza sul piano sindacale, infatti, spingeva, fra gli altri, Macaluso e Napolitano, a ritenere che anche su quello politico si stessero mettendo in moto le stesse dinamiche. In altre parole, essi sostenevano che i rapporti tra maggioranza e opposizione stessero procedendo nella direzione di una maggiore unità, quanto meno in merito ai problemi del mondo del lavoro, e che quindi si stessero configurando le basi per risolvere in maniera unitaria la crisi economica e sociale che stava attraversando il paese. Longo e Berlinguer, al contrario, erano più prudenti: pur condividendo la convinzione che soltanto uno spostamento a sinistra dell’orientamento del governo avrebbe reso possibile l’attuazione di una serie di riforme, a loro quella della «nuova maggioranza» appariva una prospettiva verso cui tendere piuttosto che un obiettivo a breve scadenza <3. Fra gli altri, anche Amendola, alla chiusura del festival dell’«Unità» di Livorno a settembre dello stesso anno, aveva apertamente esortato i socialisti e la sinistra della DC a collaborare con i comunisti per formare una «nuova maggioranza» che fosse l’espressione di «un’alternativa democratica» ad un centro-sinistra ritenuto ormai irrimediabilmente in crisi <4.
Più tardi, in vista del XIII congresso e delle elezioni politiche, entrambi del 1972, si fece sempre più strada tra i dirigenti comunisti l’obiettivo di una «nuova maggioranza», da realizzare a partire da una «nuova opposizione» <5.
La ricerca di contatti con la sinistra cattolica era anche una conseguenza del fatto che, come ha scritto Simona Colarizi, il PCI in quegli anni si trovava «nell’occhio del ciclone»: per tutta la durata della V legislatura, fra il 1968 e il 1972, i comunisti erano stati costretti a fronteggiare forze politiche nate alla propria sinistra e a cercare di riassorbire nel corpo del partito i vari i «deviazionismi», a costo, però, di rallentare la marcia verso una revisione politica e ideologica. Questi elementi, secondo la studiosa, spiegano il ritardo con cui il partito acquisì i valori europeisti, l’ambiguità sul leninismo, mai rinnegato apertamente, e la lentezza del distacco da Mosca, ostacolo principale alla rimozione della conventio ad excludendum. Tuttavia, l’isolamento a sinistra fu parzialmente ridimensionato non tanto dalla presenza dello PSIUP, quanto dalla ripresa del dialogo con i socialisti di Mancini e soprattutto dai contatti intessuti con la sinistra cattolica. In una fase caratterizzata da diffusi fermenti contestativi, l’erosione delle basi di massa del socialismo apriva di nuovo il problema di come riuscire a garantire un largo consenso popolare al governo e contemporaneamente proponeva il PCI, forte di una crescita costante proprio nelle fasce sociali in agitazione, come l’interlocutore ideale, sebbene non spendibile in una coalizione governativa. La «strategia dell’attenzione» avanzata da Moro suggeriva proprio la ricerca di intese sul programma per governare attraverso accordi preventivi con l’opposizione che garantissero alle leggi varate dal centro-sinistra il consenso di quel 27 per cento della popolazione controllato dal PCI <6.
L’obiettivo di spostare più a sinistra l’asse della politica nazionale per creare le condizioni per un’alternativa di governo sostenuta dalle forze comunista, socialista e della sinistra cattolica fu esplicitamente confermato da Berlinguer al XIII congresso, dove fu acclamato segretario del partito.
A partire dalla convinzione che fosse ormai giunta a termine l’esperienza del centro-sinistra e che l’unità a sinistra fosse una condizione necessaria ma non sufficiente, Berlinguer concentrò l’attenzione sull’esigenza di approfondire il dialogo con il mondo cattolico - specialmente con le sue componenti progressiste che erano emerse dal Concilio Vaticano II in poi -, unica via, dal suo punto di vista, per rinnovare lo stato e renderlo maggiormente ricettivo nei confronti delle spinte provenienti dalla società. L’intervento del nuovo segretario era incentrato sull’esigenza di portare a compimento quella che lui chiamava una «svolta democratica», che sarebbe passata attraverso la liquidazione della «discriminazione anticomunista», premessa indispensabile per realizzare la «collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica» <7.
[...] Come si è già accennato, la proposta di un compromesso di portata «storica» fra diverse culture politiche fu annunciata da Berlinguer all’indomani del colpo di stato militare in Cile dell’11 settembre 1973. Il golpe capeggiato dal generale Augusto Pinochet che poneva fine al governo della coalizione di Unidad popular guidato da Salvador Allende che aveva vinto le elezioni tre anni prima, convinse il segretario comunista che non esistessero alternative alla collaborazione con i democristiani. I fatti cileni venivano letti da Berlinguer come la conferma della validità della proposta comunista di realizzare una convergenza «tra le grandi componenti politiche popolari della società nazionale» finalizzata alla piena applicazione della Costituzione e all’attuazione delle riforme sociali più urgenti <42. Il rifiuto dei socialisti cileni di collaborare con il partito cattolico veniva infatti interpretato come una delle principali cause che avevano favorito il colpo militare <43, appoggiato, sostenevano i comunisti, dal governo statunitense <44.
L’intreccio fra dimensione nazionale e internazionale era un aspetto che condizionava ancora fortemente la strategia comunista, sempre più orientata al superamento della divisione del mondo in blocchi <45 e volta a rivendicare una certa autonomia da Mosca nella realizzazione dell’«avanzata democratica al socialismo» in un paese, come l’Italia, appartenente alla NATO <46. Il peso che si riteneva avesse esercitato il contesto internazionale sugli avvenimenti cileni - a cui si aggiungeva il timore che si compisse una saldatura tra il centro e la destra italiani - aveva anche fatto maturare in Berlinguer la convinzione che fosse «del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra» fossero riusciti «a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare», questo risultato avrebbe garantito «la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento» <47. Ecco perché, concludeva il segretario del PCI, i comunisti non condividevano la proposta socialista di una «alternativa di sinistra» - che in realtà era sostenuta solo da una minoranza del PSI -, alla quale contrapponevano quella di una «alternativa democratica», ovvero la «prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica», indicata come l’unica prospettiva capace di far uscire l’Italia dalla crisi <48.
Nel formulare questa proposta, che sarebbe stata respinta dalla DC e dal PSI <49, la Direzione del partito comunista aveva esplicitamente invocato il superamento di «discriminazioni ed esclusivismi» <50. Secondo Simona Colarizi, infatti, la strategia di Berlinguer puntava proprio ad aggirare la conventio ad excludendum che sbarrava l’accesso al governo ai comunisti attraverso la ricerca di legittimazione da parte di una Democrazia cristiana che mostrava sempre maggiori difficoltà nel governare una società così conflittuale <51.
Il duplice effetto che Berlinguer intendeva ottenere, ha commentato Craveri, consisteva nel consolidamento del sistema e nel contemporaneo indebolimento del governo: da una parte, infatti, si offriva un importante contributo alla stabilità del sistema politico, caratterizzato da un rapporto sempre più critico con la società; e, dall’altra, reclamando il definitivo superamento della conventio ad excludendum, si voleva porre fine alla formula del centro-sinistra <52.
A partire dagli avvenimenti cileni, in sostanza, la proposta di Berlinguer escludeva l’esistenza di alternative alla collaborazione con la Democrazia cristiana e all’intesa tra le principali forze politiche. Secondo i comunisti, inoltre, questa era l’unica alleanza che avrebbe goduto di quell’ampio consenso popolare necessario per realizzare le riforme di cui il paese aveva bisogno per superare la crisi economica e sociale. Su questo punto si sarebbe delineata una netta divaricazione con le organizzazioni della sinistra extraparlamentare, che dai fatti cileni avrebbero tratto conclusioni di segno opposto. Secondo queste formazioni, infatti, era stata proprio questa vicenda a dimostrare a quali esiti avrebbe potuto condurre una collaborazione con i partiti di governo e ad indicare che solo un’azione apertamente «rivoluzionaria» avrebbe portato alla vittoria la sinistra in Italia.
[...] A pochi mesi di distanza dal colpo di stato in Cile, in Italia il clima si fece sempre più teso per la profonda crisi che investiva l’economia, la società e il sistema politico, il colpo di coda dello stragismo neofascista con le bombe a Brescia e sul treno Italicus, le indagini che svelarono l’organizzazione del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, e l’emergere del coinvolgimento di alcune strutture dei servizi segreti nella «strategia della tensione» con la conseguente rimozione del capo del Sid, il generale Miceli <63.
A ciò si aggiungeva un innalzamento del livello della violenza da parte delle Brigate Rosse, che proprio nel 1974 passarono a quella che Gian Carlo Caselli e Donatella Della Porta hanno individuato come la seconda fase della storia dell’organizzazione, quella dell’«attacco al cuore dello Stato» <64: il 18 aprile, alla vigilia della campagna elettorale per il referendum sul divorzio, l’organizzazione sequestrò il giudice Mario Sossi, che aveva rappresentato l’accusa al processo contro il gruppo genovese «XXII ottobre», processo che si era concluso con pene pesanti <65. La scelta emblematica della data e del periodo referendario, ha scritto Craveri, testimoniavano che la strategia brigatista pretendeva di radicalizzare le tensioni che attraversavano il paese per ostacolare il nuovo slancio riformista che sarebbe prevedibilmente seguito alla vittoria del referendum sul divorzio <66.
[NOTE]
1 E. Berlinguer, Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, in «Rinascita», n. 38, 28 settembre 1973; id., Via democratica e violenza reazionaria, ivi, n. 39, 5 ottobre 1973; id., Alleanze sociali e schieramenti politici, ivi, n. 40, 12 ottobre 1973
2 L. Longo, Il Partito comunista italiano di fronte ai problemi nuovi della lotta democratica e socialista in Italia cit., pp. 27-54. «La situazione è tale che impone di affrontare anche dall’opposizione i problemi più urgenti. Lottando per dare oggi, anche dall’opposizione, soluzioni positive ai problemi delle masse lavoratrici e del paese, non solo svolgiamo un’azione capace di far scoppiare le contraddizioni della maggioranza, ma contemporaneamente contribuiamo a far progredire il processo di avvicinamento, di collaborazione, di intesa, fra le forze di sinistra, socialiste, cattoliche, democratiche e a far mutare le condizioni per una nuova maggioranza e una nuova direzione politica del paese. Per questa via, che è una via di grandi e aspre lotte di massa e democratiche, avanzeremo verso il socialismo», ivi, p. 38
3 Riunione della Direzione del 19 settembre 1969, in IG, APC, 1969, Direzione, verbale n. 18, m. 006, pp. 1953-1999
4 Il comizio del compagno Giorgio Amendola. Il partito all’avanguardia nella lotta per il rinnovamento democratico del paese, in «l’Unità», 15 settembre 1969. Già un mese prima egli aveva promosso quella soluzione in G. Amendola, Partito di governo, ivi, 21 agosto 1969
5 A. Occhetto, Una nuova opposizione per una nuova maggioranza, in «Rinascita», 11 febbraio 1972; cfr. anche Intervista di Longo sulla crisi. E’ impossibile prescindere dalla forza e dalle proposte dei comunisti, in «l’Unità», 13 gennaio 1972
6 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica cit., p. 103
7 E. Berlinguer, Unità operaia e popolare per un governo di svolta democratica per rinnovare l’Italia sulla via del socialismo, in XIII Congresso del partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 15-66
42 Comunicato della Direzione del PCI, in «l’Unità», 13 settembre 1973
43 F. Barbagallo, Enrico Berlinguer cit., p. 183
44 E. Berlinguer, Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, cit. Secondo Valentine Lomellini, l’influenza del colpo di stato cileno sulla strategia del PCI avrebbe prodotto esiti ambivalenti: da una parte veniva confermato il tradizionale anti-americanismo, ma, dall’altra, una parte della classe dirigente più giovane, quella che sarebbe stata protagonista nei primi anni Novanta, avrebbe iniziato a ripensare i rapporti con gli Stati Uniti, avviando un dialogo con alcuni fra i più influenti intellettuali americani progressisti. Cfr. V. Lomellini, Bisbigliando al «nemico»? Il Pci alla svolta del 1973, tra nuove strategie verso Washington e tradizionale anti-americanismo, in «Ricerche di Storia Politica», n. 1, 2013
45 E. Berlinguer, Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni cit.
46 Comunicato della Direzione del PCI cit.
47 E. Berlinguer, Alleanze sociali e schieramenti politici cit.
48 Ibidem
49 Cfr. ad es. A. Giovagnoli, Il partito italiano cit., p. 167
50 Comunicato della Direzione del PCI cit.
51 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica cit., p. 117
52 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 527
63 Cfr. G. Crainz, Il paese mancato cit., p. 481 e sgg.
64 G. C. Caselli, D. Della Porta, La storia delle Brigate rosse: strutture organizzative e strategie d’azione, in D. Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, il Mulino, Bologna 1984, p. 155
65 Sossi, che aveva anche fatto arrestare per banda armata Giovanni Battista Lazagna, capo partigiano e dirigente dell’ANPI, sarebbe stato rilasciato il 23 maggio, dopo che la Corte d’appello aveva disposto, come richiesto dalle Br, la libertà provvisoria e il nulla osta per il passaporto agli otto militanti detenuti del Gruppo XXII ottobre, gruppo anarchico vicino ai GAP di Feltrinelli. Dopo il ritorno a casa del giudice, però, il procuratore generale di Genova, Francesco Coco, avrebbe impugnato il provvedimento impedendo la scarcerazione dei detenuti. Due anni più tardi, quello di Coco sarebbe stato il primo omicidio firmato dalle Brigate rosse. Cfr. S. Segio, Una vita in Prima Linea cit., pp. 366-368
66 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 517

Valentina Casini, Sinistra extraparlamentare e partito comunista in Italia 1968-1976, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2015