Una linea che esclude tanto l’opzione dossettiana delle sinistre interne, più attente alla questione sociale, quanto quella neoguelfa dei Comitati civici di Gedda, più sensibile alle istanze autoritarie dei settori ultraconservatori. In particolare la destra democristiana affondava le sue radici nel ritorno, a inizio anni Trenta, alla cultura intransigente, dopo la sconfessione vaticana del popolarismo sturziano, il compromesso con il fascismo e, successivamente, la delusione verso l’impossibilità di utilizzare il regime come strumento di cristianizzazione della società.
"Il cattolicesimo italiano reagisce alla delusione subita dal fascismo nel ’31 non già attraverso il ricupero dei valori di libertà e di democrazia […], ma con il ritorno alla più facile e, tutto compreso, più diffusa e radicata cultura intransigente. […] Le conseguenze di tutto questo nell’Azione cattolica di massa e nei gruppi furono molte: l’attesismo e l’estraneità - salvo alcune eccezioni - alla partecipazione alla lotta clandestina; la mancanza di ogni analisi politica di fronte alla nuova situazione che veniva emergendo; una sostanziale incomprensione del significato storico della spinta unitaria che si manifestava nelle masse popolari nella lotta contro il fascismo. L’estraneità di risolveva in definitiva nell’attesa del momento fatale e imminente della successione cattolica al fascismo […]". <544
Il tema della successione cattolica al regime è profondamente sentito dal conservatorismo dell’Azione cattolica (soggetto filo-monarchico ed estraneo all’innovazione democratica), che su molti suoi caratteri lo interpreta come restaurazione piena: "in concreto questo ideale di 'Stato cattolico' non si discostava forse gran che dai modelli franchista o salazariano ai quali del resto più volte la stampa cattolica si era rifatta in periodo fascista e si sarebbe rifatta ancora negli anni successivi; il comunismo appariva già come il maggiore pericolo da combattere". <545
Il centrismo rappresenta, anche da questo punto di vista, una sintesi profonda: la sua cultura politica è, almeno in linea di principio, interclassista (di fatto, la DC sarà un partito dall’eterogenea composizione sociale), nega profondamente la lotta di classe e il compito che essi affidano al centro dello scacchiere politico è precisamente "attrarre e assorbire in una specie di camera di deconflittualizzazione, e di ricomposizione moderata degli interessi, la gran parte delle forze sociali, a cominciare da quelle ostili agli eccessi di qualsiasi natura. […] La legittimità popolare e la qualità civile della loro inclinazione a ricorrere alla forza ed anche il diritto e l’onere di autorappresentarsi come guide imparziali di uno Stato democratico costretto a difendersi, con tutta la necessaria energia, da nemici potete ed agguerriti: un’autorappresentazione che, se si vuole, una singola automistificazione […]". <546
La cultura politica di De Gasperi e Scelba non riconosce quindi legittimità a ogni politica del conflitto che si ponga in termini antagonisti e classisti, salvo poi, in piena continuità con la tradizione giolittiana, prendere una posizione classista nei fatti. L’aspetto teorico paradossale del neopopolarismo di marca sturziana è anzitutto il riconoscere il peccato d’origine del Risorgimento e dell’età liberale nell’esclusione delle masse dalla costruzione dello Stato, ponendosi dunque come progetto di popolarizzazione della macchina statale dopo vent’anni di fascismo (interpretato appunto come regime antipopolare), e al tempo stesso continuare a negare cittadinanza politica alle classi subalterne, riassorbite e scomparse nel concetto di 'classe generale del Paese'.
"Uno dei riferimenti più costanti, una ricorrenza frequente, nei discorsi pubblici e nelle memorie di Scelba, è la comparazione tra primo e secondo dopoguerra. Le scelte che lo Stato repubblicano è chiamato a compiere sembrano spesso dipendere dagli insegnamenti forniti dalle drammatiche esperienze degli anni del 'biennio rosso' e dell’avvento del fascismo. Già dal 1922, grazie all’apprendistato politico al seguito di don Sturzo, Scelba sostiene di avere compreso 'il diritto dello Stato democratico di usare anche le armi contro qualsiasi tentativo diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale' ". <547
Curioso questo riferimento alla difesa dell’ordinamento costituzionale, nel momento in cui il ministro stesso in più occasioni sottolinea la priorità dell’ordine e del rafforzamento statale sulla stessa Costituzione o sulle libertà democratiche. <548 Nella concezione scelbiana (e centrista) della democrazia come regime forte, l’ordine pubblico repubblicano che egli teorizza e mette in pratica è profondamente schmittiano: "Decisamente convinto dell’innaturalità e della pericolosità del rapporto con i 'rossi', Scelba anticipò De Gasperi nell’adozione dello schema mentale della guerra fredda, adattandolo ad una visione centrista che comportava anche il formale rigetto del fascismo: da una parte gli amici, cioè tutti gli anticomunisti ad esclusione dei fascisti; dall’altra, i nemici, cioè il Pci e i suoi alleati e fiancheggiatori". <549
Al tempo stesso, però, ha notato Del Pero come le logiche della Guerra fredda uscissero in parte dalla chiarezza classica della teoria politica di Schmitt: "Ciò che manca nella guerra fredda è invece questo reciproco riconoscimento che, in caso di conflitto, trasforma l’altro, l’avversario, in uno justus hostis, un nemico legittimo, permettendo di dare senso alla guerra e soprattutto di limitarla. Nell’arena bipolare del secondo dopoguerra lo scontro trascende il politico: entrambi i contendenti presentano la guerra come una “guerra giusta”. In questo modo viene conseguentemente a cadere la distinzione tra nemico e criminale, e l’avversario - una volta trasformato in fuorilegge, in pirata dell’ordine internazionale - diventa 'un mostro disumano che non può essere solo sconfitto, ma deve essere definitivamente distrutto' ". <550
E l’arma principale dei nemici erano le agitazioni sindacali, i movimenti collettivi conflittuali, le rivendicazioni dei lavoratori, da quelle strettamente economiche a quelle di carattere politico più generale. Questa cultura di fondo permette la confluenza, all’interno della DC, delle varie anime dell’anticomunismo italiano che, secondo Giovagnoli, andranno a diminuirne l’autonomia: "La confluenza di componenti diverse ed eterogenee ha segnato profondamente la storia dell’anticomunismo italiano. Particolarmente importante è stata ad esempio l’influenza della Chiesa, che ha conferito all’anticomunismo specifiche connotazioni, sul piano religioso e ideologico […]. Ma c’è stato anche quello che si potrebbe definire l’anticomunismo dei ceti proprietari, espressione di classi e gruppi che hanno respinto il comunismo soprattutto per difendere i loro interessi […]. Un’altra componente, inoltre, è stata costituita dall’anticomunismo democratico […] e si deve anche ricordare l’anticomunismo legato alla tradizione della destra ideologica europea, politicamente antidemocratico e istituzionalmente eversivo […]. L’eterogeneità di queste componenti, tuttavia, ha provocato anche l’apertura di crepe e di contraddizioni all’interno di questo fronte, che hanno impedito a tale spaccatura di trasformarsi in una lacerazione assoluta. E la storia della Dc è stata profondamente segnata tanto da questa contrapposizione che dalle sue contraddizioni". <551
Da questo punto di vista, l’intera azione scelbiana è indirizzata anzitutto alla cancellazione della dualità di poteri prodotta dalla Resistenza attraverso il suo consiliarismo para-istituzionale (continuando l’azione di Giuseppe Romita e dello stesso De Gasperi, in quanto precedenti ministri degli Interni). Vedremo più avanti gli strumenti di cui si dota l’ordine repubblicano centrista per affrontare il 'male' del conflitto sociale, nel frattempo però vorremmo soffermarci sulla scelta che si pone al partito moderato nel momento in cui decide i criteri di riorganizzazione statale e ricostruzione sociale: quella tra 'alternativa salazariana' e 'contenimento democratico'.
Marino interpreta il bivio di fronte cui arriva la Repubblica in modo piuttosto netto e radicale: "si trattava di decidere se la repubblica dovesse approfondire la rottura storica operata dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione, imprimendo una forte discontinuità nella direzione del socialismo (la togliattiana 'democrazia progressiva') alle istituzioni e alla vita del Paese, anche al di là del vecchio Stato prefascista degenerato nella dittatura di Mussolini; oppure se la repubblica dovesse limitarsi a riprendere e a sviluppare la tradizione liberaldemocratica interrotta nel ’22 dalla marcia su Roma, accedendo ad un’idea di continuità dello Stato che avrebbe inevitabilmente comportato il recupero di ampia parte dei 'principi d’ordine', dei metodi, del personale burocratico e della stessa normativa del regime fascista […]". <552
Forse non è del tutto corretto interpretare uno dei due corni dell’alternativa necessariamente come la democrazia progressiva o addirittura la direzione verso il socialismo; tuttavia è indubbio che la scelta tra la rottura e la continuità ci fosse e che alla fine si propese nettamente a favore della seconda. Giuseppe Mammarella ha considerato invece una stretta correlazione tra la politica economica democristiana di questi anni e l’inclinazione repressiva sul fronte dell’ordine pubblico, notando che "nella concezione degasperiana la difesa dell’ordine pubblico acquistava un preciso significato che discendeva direttamente dalle scelte operate in materia di politica economica e dal ruolo attribuito allo Stato di tutore dell’iniziativa privata. […] [L’obiettivo era] la restaurazione della disciplina in ogni particolare contesto della vita sociale, a partire dalle fabbriche, per eliminare l’atmosfera di pressione psicologica che le masse organizzate dai partiti di estrema esercitavano sulle classi abbienti". <553
[NOTE]
544 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, pp. 38-39
545 Ibidem, p. 47
546 G. C. Marino, G.C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, Franco Angeli, 1995, p. 35
547 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, pp. 27-28, Unicopli, 2012
548 Si vedano, rispettivamente, il riferimento alla Carta come possibile 'trappola', citato nel capitolo precedente, e la distinzione tra libertà e 'licenza' nel discorso al convegno sturziano riportato in questo capitolo.
549 G. C. Marino, op. cit., p. 41
550 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, pp. 286-87
551 A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Editori Laterza, 1996, pp. 46-47
552 M. Del Pero, op. cit., p. 44
553 G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo: 1943-1945, p. 157, il Mulino 1974
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017
"Il cattolicesimo italiano reagisce alla delusione subita dal fascismo nel ’31 non già attraverso il ricupero dei valori di libertà e di democrazia […], ma con il ritorno alla più facile e, tutto compreso, più diffusa e radicata cultura intransigente. […] Le conseguenze di tutto questo nell’Azione cattolica di massa e nei gruppi furono molte: l’attesismo e l’estraneità - salvo alcune eccezioni - alla partecipazione alla lotta clandestina; la mancanza di ogni analisi politica di fronte alla nuova situazione che veniva emergendo; una sostanziale incomprensione del significato storico della spinta unitaria che si manifestava nelle masse popolari nella lotta contro il fascismo. L’estraneità di risolveva in definitiva nell’attesa del momento fatale e imminente della successione cattolica al fascismo […]". <544
Il tema della successione cattolica al regime è profondamente sentito dal conservatorismo dell’Azione cattolica (soggetto filo-monarchico ed estraneo all’innovazione democratica), che su molti suoi caratteri lo interpreta come restaurazione piena: "in concreto questo ideale di 'Stato cattolico' non si discostava forse gran che dai modelli franchista o salazariano ai quali del resto più volte la stampa cattolica si era rifatta in periodo fascista e si sarebbe rifatta ancora negli anni successivi; il comunismo appariva già come il maggiore pericolo da combattere". <545
Il centrismo rappresenta, anche da questo punto di vista, una sintesi profonda: la sua cultura politica è, almeno in linea di principio, interclassista (di fatto, la DC sarà un partito dall’eterogenea composizione sociale), nega profondamente la lotta di classe e il compito che essi affidano al centro dello scacchiere politico è precisamente "attrarre e assorbire in una specie di camera di deconflittualizzazione, e di ricomposizione moderata degli interessi, la gran parte delle forze sociali, a cominciare da quelle ostili agli eccessi di qualsiasi natura. […] La legittimità popolare e la qualità civile della loro inclinazione a ricorrere alla forza ed anche il diritto e l’onere di autorappresentarsi come guide imparziali di uno Stato democratico costretto a difendersi, con tutta la necessaria energia, da nemici potete ed agguerriti: un’autorappresentazione che, se si vuole, una singola automistificazione […]". <546
La cultura politica di De Gasperi e Scelba non riconosce quindi legittimità a ogni politica del conflitto che si ponga in termini antagonisti e classisti, salvo poi, in piena continuità con la tradizione giolittiana, prendere una posizione classista nei fatti. L’aspetto teorico paradossale del neopopolarismo di marca sturziana è anzitutto il riconoscere il peccato d’origine del Risorgimento e dell’età liberale nell’esclusione delle masse dalla costruzione dello Stato, ponendosi dunque come progetto di popolarizzazione della macchina statale dopo vent’anni di fascismo (interpretato appunto come regime antipopolare), e al tempo stesso continuare a negare cittadinanza politica alle classi subalterne, riassorbite e scomparse nel concetto di 'classe generale del Paese'.
"Uno dei riferimenti più costanti, una ricorrenza frequente, nei discorsi pubblici e nelle memorie di Scelba, è la comparazione tra primo e secondo dopoguerra. Le scelte che lo Stato repubblicano è chiamato a compiere sembrano spesso dipendere dagli insegnamenti forniti dalle drammatiche esperienze degli anni del 'biennio rosso' e dell’avvento del fascismo. Già dal 1922, grazie all’apprendistato politico al seguito di don Sturzo, Scelba sostiene di avere compreso 'il diritto dello Stato democratico di usare anche le armi contro qualsiasi tentativo diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale' ". <547
Curioso questo riferimento alla difesa dell’ordinamento costituzionale, nel momento in cui il ministro stesso in più occasioni sottolinea la priorità dell’ordine e del rafforzamento statale sulla stessa Costituzione o sulle libertà democratiche. <548 Nella concezione scelbiana (e centrista) della democrazia come regime forte, l’ordine pubblico repubblicano che egli teorizza e mette in pratica è profondamente schmittiano: "Decisamente convinto dell’innaturalità e della pericolosità del rapporto con i 'rossi', Scelba anticipò De Gasperi nell’adozione dello schema mentale della guerra fredda, adattandolo ad una visione centrista che comportava anche il formale rigetto del fascismo: da una parte gli amici, cioè tutti gli anticomunisti ad esclusione dei fascisti; dall’altra, i nemici, cioè il Pci e i suoi alleati e fiancheggiatori". <549
Al tempo stesso, però, ha notato Del Pero come le logiche della Guerra fredda uscissero in parte dalla chiarezza classica della teoria politica di Schmitt: "Ciò che manca nella guerra fredda è invece questo reciproco riconoscimento che, in caso di conflitto, trasforma l’altro, l’avversario, in uno justus hostis, un nemico legittimo, permettendo di dare senso alla guerra e soprattutto di limitarla. Nell’arena bipolare del secondo dopoguerra lo scontro trascende il politico: entrambi i contendenti presentano la guerra come una “guerra giusta”. In questo modo viene conseguentemente a cadere la distinzione tra nemico e criminale, e l’avversario - una volta trasformato in fuorilegge, in pirata dell’ordine internazionale - diventa 'un mostro disumano che non può essere solo sconfitto, ma deve essere definitivamente distrutto' ". <550
E l’arma principale dei nemici erano le agitazioni sindacali, i movimenti collettivi conflittuali, le rivendicazioni dei lavoratori, da quelle strettamente economiche a quelle di carattere politico più generale. Questa cultura di fondo permette la confluenza, all’interno della DC, delle varie anime dell’anticomunismo italiano che, secondo Giovagnoli, andranno a diminuirne l’autonomia: "La confluenza di componenti diverse ed eterogenee ha segnato profondamente la storia dell’anticomunismo italiano. Particolarmente importante è stata ad esempio l’influenza della Chiesa, che ha conferito all’anticomunismo specifiche connotazioni, sul piano religioso e ideologico […]. Ma c’è stato anche quello che si potrebbe definire l’anticomunismo dei ceti proprietari, espressione di classi e gruppi che hanno respinto il comunismo soprattutto per difendere i loro interessi […]. Un’altra componente, inoltre, è stata costituita dall’anticomunismo democratico […] e si deve anche ricordare l’anticomunismo legato alla tradizione della destra ideologica europea, politicamente antidemocratico e istituzionalmente eversivo […]. L’eterogeneità di queste componenti, tuttavia, ha provocato anche l’apertura di crepe e di contraddizioni all’interno di questo fronte, che hanno impedito a tale spaccatura di trasformarsi in una lacerazione assoluta. E la storia della Dc è stata profondamente segnata tanto da questa contrapposizione che dalle sue contraddizioni". <551
Da questo punto di vista, l’intera azione scelbiana è indirizzata anzitutto alla cancellazione della dualità di poteri prodotta dalla Resistenza attraverso il suo consiliarismo para-istituzionale (continuando l’azione di Giuseppe Romita e dello stesso De Gasperi, in quanto precedenti ministri degli Interni). Vedremo più avanti gli strumenti di cui si dota l’ordine repubblicano centrista per affrontare il 'male' del conflitto sociale, nel frattempo però vorremmo soffermarci sulla scelta che si pone al partito moderato nel momento in cui decide i criteri di riorganizzazione statale e ricostruzione sociale: quella tra 'alternativa salazariana' e 'contenimento democratico'.
Marino interpreta il bivio di fronte cui arriva la Repubblica in modo piuttosto netto e radicale: "si trattava di decidere se la repubblica dovesse approfondire la rottura storica operata dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione, imprimendo una forte discontinuità nella direzione del socialismo (la togliattiana 'democrazia progressiva') alle istituzioni e alla vita del Paese, anche al di là del vecchio Stato prefascista degenerato nella dittatura di Mussolini; oppure se la repubblica dovesse limitarsi a riprendere e a sviluppare la tradizione liberaldemocratica interrotta nel ’22 dalla marcia su Roma, accedendo ad un’idea di continuità dello Stato che avrebbe inevitabilmente comportato il recupero di ampia parte dei 'principi d’ordine', dei metodi, del personale burocratico e della stessa normativa del regime fascista […]". <552
Forse non è del tutto corretto interpretare uno dei due corni dell’alternativa necessariamente come la democrazia progressiva o addirittura la direzione verso il socialismo; tuttavia è indubbio che la scelta tra la rottura e la continuità ci fosse e che alla fine si propese nettamente a favore della seconda. Giuseppe Mammarella ha considerato invece una stretta correlazione tra la politica economica democristiana di questi anni e l’inclinazione repressiva sul fronte dell’ordine pubblico, notando che "nella concezione degasperiana la difesa dell’ordine pubblico acquistava un preciso significato che discendeva direttamente dalle scelte operate in materia di politica economica e dal ruolo attribuito allo Stato di tutore dell’iniziativa privata. […] [L’obiettivo era] la restaurazione della disciplina in ogni particolare contesto della vita sociale, a partire dalle fabbriche, per eliminare l’atmosfera di pressione psicologica che le masse organizzate dai partiti di estrema esercitavano sulle classi abbienti". <553
[NOTE]
544 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, pp. 38-39
545 Ibidem, p. 47
546 G. C. Marino, G.C. Marino, La repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo tempo, Franco Angeli, 1995, p. 35
547 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, pp. 27-28, Unicopli, 2012
548 Si vedano, rispettivamente, il riferimento alla Carta come possibile 'trappola', citato nel capitolo precedente, e la distinzione tra libertà e 'licenza' nel discorso al convegno sturziano riportato in questo capitolo.
549 G. C. Marino, op. cit., p. 41
550 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, pp. 286-87
551 A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Editori Laterza, 1996, pp. 46-47
552 M. Del Pero, op. cit., p. 44
553 G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo: 1943-1945, p. 157, il Mulino 1974
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017