La prima prova che il Partito Democratico e il suo Segretario Veltroni dovettero affrontare furono le elezioni per il rinnovo del Parlamento, nel 2008, a seguito della caduta del governo Prodi dopo una sfiducia al Senato.
Dal punto di vista della composizione interna, il PD si strutturava attorno a cinque fazioni riconducibili a singoli leader: Massimo D’Alema, Enrico Letta, Romano Prodi, Francesco Rutelli e Walter Veltroni. A queste andavano sommati altrettanti gruppi di minor rilievo e componenti più ideologizzate - i popolari, i teodem e gli ecodem -, la cui attività sui territori rispecchiava il loro carattere settoriale.
Il contesto elettorale era quello di un sistema proporzionale con premio di maggioranza (legge 270/2005), così come era avvenuto nel 2006. Sebbene le regole fossero le stesse, l’ingresso nell’arena competitiva di due soggetti come il Partito Democratico e il Popolo delle Libertà hanno modificato le dinamiche elettorali e lo scenario in uscita, con risultati differenti rispetto alle consultazioni precedenti.
La novità più rilevante fu la scelta di creare minicoalizioni: il PD, in ossequio alla vocazione maggioritaria e per un assetto bipolare, decide di correre insieme all’IdV per affinità di programma; il PdL, invece, si presenta in coalizione con la Lega Nord e il Movimento per l’autonomia.
Come ricorda Di Virgilio (2008), si trattava di cambiare strategie a regole invariate, con Veltroni chiamato a scegliere tra una coalizione ampia e fallimentare sulla falsariga dell’esperienza unionista o se prediligere una corsa in solitaria, comunque difficilmente vittoriosa, ma perlomeno a tutela della vocazione del partito.
Come previsto, l’esito della consultazione non fu positivo per il Partito Democratico.
[...] La riflessione post elettorale spinge Veltroni alla creazione di un governo ombra e a chiedere l’impegno da parte degli eletti nelle varie circoscrizioni, in modo da accelerare il processo di radicamento territoriale del partito.
Si trattava di un “governo” privo di riconoscimento istituzionale e il cui compito, a detta di Veltroni, sarebbe stato quello di incalzare l’azione del governo ed evitare che il governo del Presidente avesse in mano in esclusiva le chiavi del Paese <78.
Come evidenziato da La Stampa, però, con questo shadow cabinet all’inglese Veltroni paga dazio alle “correnti” del partito: se nel governo ombra porta alcune delle personalità su cui punta, è anche vero che deve piegarsi a una sorta di “manuale Cencelli” interno nella scelta dei ministri ombra: tutti, peraltro, di alto profilo. Ecco dunque i dalemiani, gli ex popolari, i rutelliani e i fassiniani <79”.
[...] Tra i membri del governo ombra non compare, però, Massimo D’Alema. Era il primo sospettato di una futura offensiva contro la segreteria Veltroni, considerati i movimenti dei dirigenti e le attività delle fondazioni a lui vicini. All’ipotesi della contrapposizione tra gli assi Veltroni-Marini-Fassino-Franceschini e D’Alema-Letta, però, Bersani - neo ministro ombra dell’Economia e vicino a D’Alema - forniva la sua visione di una rinnovata logica correntizia post elettorale: “Nella fisiologia di un partito, il confronto su piattaforme programmatiche diverse ci sta. Ma bisogna rimescolare tutto, darsi un pensiero che vada oltre quello che siamo stati fin qui, nel proprio piccolo o grande recinto. Non immagino un partito del futuro senza aree politiche, però non voglio che esista uno schema di correnti fermo a dieci anni fa. Nei fatti, io non lo vedo neanche adesso. Pensare che D'Alema abbia in testa di fare, di mestiere, il capo dei dalemiani, vuol dire non conoscerlo. Ciascuno dalla propria postazione partecipi al dibattito ma in un clima non correntizio, che sarebbe un errore” <80. Lo scontro tra i sostenitori di Veltroni e la componente di Bersani e D’Alema si teneva anche rispetto alla forma che il partito avrebbe dovuto prendere per non ripetere gli errori delle elezioni. Da una forma-partito americana o europea, successivamente il dibattito si imperniò sulla leggerezza o sulla pesantezza del partito. Veltroni sosteneva l’idea di un partito leggero, a vocazione maggioritaria, con una leadership forte e trasversale, per sopperire all’iniziale lacuna territoriale con progetti riformisti largamente condivisi dalla società civile. Bersani e D’Alema, invece, guidavano una componente che richiedeva un partito particolarmente strutturato, rappresentativo di pochi e specifici settori di popolazione, aperto ad alleanze con altre forze politiche <81. Si può quindi affermare che il Partito Democratico si trovava ancora in una fase embrionale, che stentava a crescere. A riprova di ciò, gli esiti delle elezioni regionali in Abruzzo <82 e in Sardegna <83, decisivi per la sorte della segreteria PD.
I malumori interni e l’immagine del partito agli occhi degli elettori indussero Veltroni a rassegnare le dimissioni dal suo incarico. Ad appesantire la condizione del partito, le elezioni europee <84 previste per giugno dello stesso anno [2009]: i dirigenti, dunque, preferirono una fase di transizione a un nuovo congresso e scelsero come “traghettatore” il vicesegretario Dario Franceschini (ex La Margherita).
[NOTE]
78 La Repubblica, Veltroni presenta il “suo” governo: 21 ministri, pressing su Berlusconi, 9 maggio 2008
79 La Stampa, Pd: ecco il governo ombra di Veltroni: c’è Bersani, Chiamparino alle riforme, 9 maggio 2008
80 LaRepubblica, Bersani: un errore rifare le correnti. Usciamo dai recinti e rimescoliamo tutto, 11 maggio 2008
81 P. Natale e L. Fasano, L’ultimo partito. 10 anni di Partito Democratico, Giappichelli Editore, Torino, 2017, p.8
82 Alle elezioni del 14 dicembre 2008, in un contesto di bassa affluenza, il candidato del centro destra (Popolo delle Libertà) Gianni Chiodi venne eletto Presidente contro il candidato di centrosinistra Carlo Costantini.
83 Le elezioni regionali in Sardegna si tennero il 15 e 16 febbraio 2009, in anticipo rispetto alla naturale scadenza della legislatura. Renato Soru, governatore in carica, si dimise dopo scontri con la maggioranza sulla legge urbanistica regionale. Alle elezioni del 2009 fu sostenuto da PD e IdV, insieme ad altre liste locali, ma la vittoria andò al candidato del Popolo delle Libertà Ugo Cappellacci.
84 Fu poco soddisfacente anche l’esito delle elezioni europee del 7 giugno 2009: il PD, infatti, ottenne il 26,13% dei consensi (9 punti in meno rispetto al Popolo delle Libertà, che raggiunse il 35,26%). Archivio storico elezioni- Ministero dell’Interno
Cristiana Di Tommaso, Il Partito Democratico e le sue fazioni: anime e correnti a congresso, Tesi di laurea magistrale, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2016-2017
Dal punto di vista della composizione interna, il PD si strutturava attorno a cinque fazioni riconducibili a singoli leader: Massimo D’Alema, Enrico Letta, Romano Prodi, Francesco Rutelli e Walter Veltroni. A queste andavano sommati altrettanti gruppi di minor rilievo e componenti più ideologizzate - i popolari, i teodem e gli ecodem -, la cui attività sui territori rispecchiava il loro carattere settoriale.
Il contesto elettorale era quello di un sistema proporzionale con premio di maggioranza (legge 270/2005), così come era avvenuto nel 2006. Sebbene le regole fossero le stesse, l’ingresso nell’arena competitiva di due soggetti come il Partito Democratico e il Popolo delle Libertà hanno modificato le dinamiche elettorali e lo scenario in uscita, con risultati differenti rispetto alle consultazioni precedenti.
La novità più rilevante fu la scelta di creare minicoalizioni: il PD, in ossequio alla vocazione maggioritaria e per un assetto bipolare, decide di correre insieme all’IdV per affinità di programma; il PdL, invece, si presenta in coalizione con la Lega Nord e il Movimento per l’autonomia.
Come ricorda Di Virgilio (2008), si trattava di cambiare strategie a regole invariate, con Veltroni chiamato a scegliere tra una coalizione ampia e fallimentare sulla falsariga dell’esperienza unionista o se prediligere una corsa in solitaria, comunque difficilmente vittoriosa, ma perlomeno a tutela della vocazione del partito.
Come previsto, l’esito della consultazione non fu positivo per il Partito Democratico.
[...] La riflessione post elettorale spinge Veltroni alla creazione di un governo ombra e a chiedere l’impegno da parte degli eletti nelle varie circoscrizioni, in modo da accelerare il processo di radicamento territoriale del partito.
Si trattava di un “governo” privo di riconoscimento istituzionale e il cui compito, a detta di Veltroni, sarebbe stato quello di incalzare l’azione del governo ed evitare che il governo del Presidente avesse in mano in esclusiva le chiavi del Paese <78.
Come evidenziato da La Stampa, però, con questo shadow cabinet all’inglese Veltroni paga dazio alle “correnti” del partito: se nel governo ombra porta alcune delle personalità su cui punta, è anche vero che deve piegarsi a una sorta di “manuale Cencelli” interno nella scelta dei ministri ombra: tutti, peraltro, di alto profilo. Ecco dunque i dalemiani, gli ex popolari, i rutelliani e i fassiniani <79”.
[...] Tra i membri del governo ombra non compare, però, Massimo D’Alema. Era il primo sospettato di una futura offensiva contro la segreteria Veltroni, considerati i movimenti dei dirigenti e le attività delle fondazioni a lui vicini. All’ipotesi della contrapposizione tra gli assi Veltroni-Marini-Fassino-Franceschini e D’Alema-Letta, però, Bersani - neo ministro ombra dell’Economia e vicino a D’Alema - forniva la sua visione di una rinnovata logica correntizia post elettorale: “Nella fisiologia di un partito, il confronto su piattaforme programmatiche diverse ci sta. Ma bisogna rimescolare tutto, darsi un pensiero che vada oltre quello che siamo stati fin qui, nel proprio piccolo o grande recinto. Non immagino un partito del futuro senza aree politiche, però non voglio che esista uno schema di correnti fermo a dieci anni fa. Nei fatti, io non lo vedo neanche adesso. Pensare che D'Alema abbia in testa di fare, di mestiere, il capo dei dalemiani, vuol dire non conoscerlo. Ciascuno dalla propria postazione partecipi al dibattito ma in un clima non correntizio, che sarebbe un errore” <80. Lo scontro tra i sostenitori di Veltroni e la componente di Bersani e D’Alema si teneva anche rispetto alla forma che il partito avrebbe dovuto prendere per non ripetere gli errori delle elezioni. Da una forma-partito americana o europea, successivamente il dibattito si imperniò sulla leggerezza o sulla pesantezza del partito. Veltroni sosteneva l’idea di un partito leggero, a vocazione maggioritaria, con una leadership forte e trasversale, per sopperire all’iniziale lacuna territoriale con progetti riformisti largamente condivisi dalla società civile. Bersani e D’Alema, invece, guidavano una componente che richiedeva un partito particolarmente strutturato, rappresentativo di pochi e specifici settori di popolazione, aperto ad alleanze con altre forze politiche <81. Si può quindi affermare che il Partito Democratico si trovava ancora in una fase embrionale, che stentava a crescere. A riprova di ciò, gli esiti delle elezioni regionali in Abruzzo <82 e in Sardegna <83, decisivi per la sorte della segreteria PD.
I malumori interni e l’immagine del partito agli occhi degli elettori indussero Veltroni a rassegnare le dimissioni dal suo incarico. Ad appesantire la condizione del partito, le elezioni europee <84 previste per giugno dello stesso anno [2009]: i dirigenti, dunque, preferirono una fase di transizione a un nuovo congresso e scelsero come “traghettatore” il vicesegretario Dario Franceschini (ex La Margherita).
[NOTE]
78 La Repubblica, Veltroni presenta il “suo” governo: 21 ministri, pressing su Berlusconi, 9 maggio 2008
79 La Stampa, Pd: ecco il governo ombra di Veltroni: c’è Bersani, Chiamparino alle riforme, 9 maggio 2008
80 LaRepubblica, Bersani: un errore rifare le correnti. Usciamo dai recinti e rimescoliamo tutto, 11 maggio 2008
81 P. Natale e L. Fasano, L’ultimo partito. 10 anni di Partito Democratico, Giappichelli Editore, Torino, 2017, p.8
82 Alle elezioni del 14 dicembre 2008, in un contesto di bassa affluenza, il candidato del centro destra (Popolo delle Libertà) Gianni Chiodi venne eletto Presidente contro il candidato di centrosinistra Carlo Costantini.
83 Le elezioni regionali in Sardegna si tennero il 15 e 16 febbraio 2009, in anticipo rispetto alla naturale scadenza della legislatura. Renato Soru, governatore in carica, si dimise dopo scontri con la maggioranza sulla legge urbanistica regionale. Alle elezioni del 2009 fu sostenuto da PD e IdV, insieme ad altre liste locali, ma la vittoria andò al candidato del Popolo delle Libertà Ugo Cappellacci.
84 Fu poco soddisfacente anche l’esito delle elezioni europee del 7 giugno 2009: il PD, infatti, ottenne il 26,13% dei consensi (9 punti in meno rispetto al Popolo delle Libertà, che raggiunse il 35,26%). Archivio storico elezioni- Ministero dell’Interno
Cristiana Di Tommaso, Il Partito Democratico e le sue fazioni: anime e correnti a congresso, Tesi di laurea magistrale, Università Luiss "Guido Carli", Anno Accademico 2016-2017