Come in ogni transizione, anche nella vicenda italiana, si possono distinguere diverse fasi, quella della resa dei conti, quella dei processi e quella della riconciliazione. Ogni momento è animato da motivazioni e emozioni diverse: la vendetta, la volontà di giustizia, quella di dimenticare e di pacificare il paese. Se i primi due stadi guardano al passato, la pacificazione mira al futuro. La giustizia di transizione infatti è un fenomeno complesso, ed assolve un duplice ruolo, essendo pervasa da un misto di propositi retrospettivi e programmatici. Da una parte infatti nella fase di passaggio l’obbiettivo principale da perseguire è quello di punire i responsabili di crimini di guerra o di regimi politici autoritari, di vendicare e rendere giustizia alle vittime, segnando una rottura e una separazione con il passato.
Francesca Gori, Ausiliarie, spie, amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013
Se la delinquenza comune aveva destato preoccupazioni a ragione del mutamento qualitativo e quantitativo, un ulteriore fattore destabilizzante aveva riguardato la componente resistenziale. Infatti, le bande criminali avevano occasionalmente incluso individui riconoscibili come partigiani, sia per l’abbigliamento e la presenza di simboli politici apparentemente inequivocabili - come il fazzoletto rosso -, sia perché noti sul territorio. Non si trattava di un fenomeno eccezionale: le circostanze del dopoguerra avevano fatto sì che tutte le categorie di combattenti attive durante il conflitto, dagli alleati agli ex-fascisti, avessero poi alimentato le fila della delinquenza. Tuttavia, la deriva delinquenziale di una minoranza partigiana, ampiamente ribadita dalla stampa locale, aveva avuto un grande impatto sull’immaginario pubblico e aveva fatto leva sulla diffidenza e il sospetto ancora diffusi a livello popolare nei confronti dei patrioti; i dirigenti partigiani e i CLN locali erano quindi stati costretti ad affrontarlo pubblicamente, ribadendo la moralità del movimento e l’alterità rispetto alle sue derive degradanti derive. <51 In alcuni casi l’abbigliamento aveva costituito un escamotage utilizzato dai ladri o dai rapinatori per muoversi indisturbati e suscitare negli interlocutori qualsiasi sentimento permettesse loro la riuscita del colpo, fosse questo il rispetto, la fiducia o la paura; occasioni simili avevano permesso ai patrioti di prendere le distanze dagli episodi con facilità. <52 Tuttavia, talvolta si era trattato realmente di patrioti e partigiani combattenti e queste situazioni avevano ulteriormente complicato il processo di legittimazione della Resistenza, iniziato dai Comitati durante il conflitto. La sezione bolognese del «Giornale dell’Emilia», ad esempio, il 25 agosto 1945 aveva pubblicato un articolo dal titolo "Particolari sui 14 arresti avvenuti a Crevalcore", in merito all’azione condotta dalle forze dell’ordine per «stroncare la delittuosa attività di una banda bene organizzata», responsabile di continui furti, grassazioni e rapine. <53 Tra gli arrestati comparivano 9 ex partigiani. In questo caso specifico, un altro gruppo di resistenti locali aveva coadiuvato l’azione dei Carabinieri di San Giovanni in Persiceto, dando al giornale l’occasione per distinguere i «veri paladini di una nuova giustizia» dai criminali, arrestati a dispetto della vita condivisa in montagna. <54 Un secondo episodio esplicativo è quello di Savigno (BO), che l’11 dicembre 1945 era stato teatro di una serie di rapine che avevano simultaneamente coinvolto due banche, le poste e l’ANPI. Le vie di accesso al paese erano state tutte bloccate, i carabinieri erano stati disarmati e due di loro - un brigadiere e un appuntato - erano stati minacciati di morte. All’azione, che secondo i responsabili aveva lo scopo di raccogliere il denaro necessario per la sepoltura dei partigiani caduti in zona, avevano partecipato anche ex partigiani. L’esperienza aveva poi condizionato le scelte politiche del paese, che alle elezioni successive aveva espresso una massiccia preferenza per la DC. <55 La frequenza e la risonanza di questi episodi avevano condotto a prese di posizioni del movimento resistenziale. Era scattata una vera e propria caccia al “falso partigiano”, condotta a livello sociale e mediatico, ma anche tra le stesse istituzioni. La questione della moralità della Resistenza si era confermata in questo senso fondamentale e discriminante.
[...] Pur riconoscendo l’eterogeneità del fenomeno, che ha raccolto al proprio interno istanze differenti in conformità con i tempi e le specificità locali, l’analisi proposta da Mirco Dondi nell’ambito della sua ricerca sulla «lunga liberazione» ha offerto un quadro di riferimento funzionale alla sommaria comprensione della dinamica, basata sull’intensità delle violenze e sull’estensione cronologica. <62 In conformità con l’analisi proposta dall’autore, la prima forma di violenza sarebbe stata quella «insurrezionale», approssimativamente collocata tra il 20 aprile e il 10 maggio 1945 e caratterizzata dalle mobilitazioni popolari e partigiane proprie del contesto urbano a ridosso della Liberazione, così come dalle esecuzioni di fascisti e collaborazionisti coeve o immediatamente successive. <63 Corrispondeva dunque all’esplosione del livore accumulato durante il ventennio e nel biennio della guerra civile, che tendeva ad indirizzarsi verso figure note e riconosciute dall’opinione pubblica o dai partigiani come collaboratori degli occupanti o della RSI, per «ripulire» il Paese una volta per tutte. <64 Questa prima fase aveva coinvolto sia le forze partigiane che i civili fino ad allora estranei alla guerra di liberazione, che quindi non avevano compiuto la scelta radicale di combattere per la Resistenza e che non si erano adoperati per essa. Si trattava in questo senso di esplosioni di violenza causate dal ricordo e dalle conseguenze delle devastazioni e dei soprusi, ma anche di episodi connessi con la volontà di rivendicare la propria partecipazione all’insurrezione, prima che il conflitto volgesse al termine. I linciaggi e le umiliazioni pubbliche inflitte ai compatrioti e alle compatriote - talvolta compaesani e compaesane - avevano quindi dato sfogo alle tensioni e contemporaneamente rappresentato un rituale simbolico di riappropriazione della sovranità a fronte di uno Stato ancora assente e di purificazione e ricostituzione della comunità di appartenenza. <65
[NOTE]
51 Cfr. Mirco Dondi, op. cit., 2004, pp. 81-90.
52 Mirco Dondi, op. cit., 2004, p. 88. Sulla questione si vedano anche le analisi coeve al fenomeno in: Alessandro Trabucchi, I vinti hanno sempre torto, Torino, De Silva, 1947, p. 240. In merito ad alcuni episodi avvenuti nel reggiano: Vittorio Pellizzi, Trenta mesi: Appunti e documenti sulla lotta di liberazione e sulla prima ricostruzione nella provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Poligrafica Reggiana, 1954, pp. 14-16 e pp. 34-36.
53 [s.a.], Particolari sui 14 arresti avvenuti a Crevalcore, «Giornale dell’Emilia», 25.8.45.
54 Ibidem.
55 Archivio Istituto Parri, Bologna, Fondo Leonida Casali, b.35, f. 18.
62 Mirco Dondi, La lunga liberazione: Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma, 2004.
63 Ivi, p. 8 e p. 91.
64 Cfr. Simeone Del Prete, Il partito comunista italiano dinanzi al «Processo alla Resistenza»: Il Comitato di Solidarietà Democratica e la difesa degli ex-partigiani (1948-1953), tesi di Dottorato, A.A. 2018/2019, Tutor: Gianluca Fiocco, inedita, p. 36; Mirco Dondi, op. cit., 2004, p. 91.
65 Cfr. Toni Rovatti, Ansia di giustizia e desiderio di vendetta. Esperienze di punizione nell’Italia del Centro-nord, 1945-1946, in Enrico Acciai et al., op. cit., p. 79.
Lidia Celli, Giudicare, punire, normalizzare: collaborazioniste e partigiane tra Bologna, Forlì e Ravenna (1944-1955), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2021-2022
“Se i fascisti avevano tanto spesso realizzato la “messa in scena della morte”, il desiderio di chiudere i conti con chi ha insanguinato la propria terra, dopo averla tenuta vent'anni sotto una dittatura, richiede una “messa in scena della vendetta” <968, attraverso linciaggi pubblici, bastonature di prigionieri costretti a passare tra due ali di folla inferocita o “rinchiusi significativamente in gabbie usate solitamente per il trasporto dei suini, e avviati a una tragica tournée nei paesi limitrofi, una “esposizione della colpa” che precede la eliminazione fisica dei condannati, eliminazione che però non avviene pubblicamente ma si traduce nella sparizione nel nulla anche dei cadaveri” <969.
Sono tanti coloro che, a ruoli invertiti, devono bere l'olio di ricino e pulire le latrine. E sono anche tanti i fascisti costretti a compiere la “marcia della vergogna”, tra insulti, urla, botte. Qualcuno riesce a salvarsi <970, qualcun altro viene ucciso a bastonate e poi bruciato. È quanto accade ad un sottufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, riconosciuto e inseguito da un gruppo di donne, negli stessi luoghi in cui, un anno prima, i nazisti hanno compiuto un massacro: “[…] Gli uomini, compreso il parroco e il medico, in tutto 80 individui, vennero condotti ed ammassati nella piazza del paese […] Uno dei disgraziati tentò di fuggire. Una scarica di mitraglia lo raggiunse e cadde esanime […] Compiuta la strage, gli agonizzanti e i feriti vennero finiti a colpi di pistola. Quell'ammasso di cadaveri venne ricoperto con delle lenzuola, sopra le quali vennero poste delle ramaglie secche e del legname. Tutto venne cosparso di benzina ed incendiato […] Alla popolazione, o meglio alle sole donne rimaste venne impedito per tre giorni di recuperare le salme dei loro cari. I tedeschi rispondevano che lo spettacolo doveva essere visto dagli inglesi […]” <971.
Le donne sono artefici della vendetta ma anche oggetto di punizioni simboliche. In un paese abruzzese, i carabinieri arrestano, per metterla in salvo da una folla di circa 3.000 persone, una ragazza di ventiquattro anni accusata di essere stata l'amante del comandante tedesco e di aver denunciato quattro persone, in seguito fucilate dai nazisti. La caserma, però, viene assaltata e la ragazza viene “afferrata, trascinata nella piazza antistante, massacrata a colpi di scure, di coltello e di altri corpi contundenti dopo essere stata denudata. Ancora viva fu legata con una fune al di sopra del ginocchio destro ed appesa ad un ramo dell'unico albero esistente sulla piazza, nuovamente colpita con bastoni e con sassi fino alla sua morte, avvenuta mezz'ora dopo” <972.
Molte donne sono sottoposte alla completa rasatura dei capelli, spesso in pubblico, così come avviene anche in altri paesi europei. Si tratta di una punizione simbolica che tende a “mettere a nudo” una colpa commessa ai danni della comunità di appartenenza, a volte attraverso la delazione, e a vantaggio degli occupanti con i quali sono intercorsi rapporti di “collaborazione” <973.
C'è, in questi comportamenti, una dimensione pubblica della pena, commisurata ai reati compiuti o dei quali si è accusati. Tutti devono e vogliono vedere e partecipare. La stessa violenza diventa anche rappresentazione e “spettacolo”, attraverso un percorso di espiazione dei colpevoli e di rigenerazione della comunità. Giuseppe Sidoli, responsabile del carcere dei Servi, luogo di prigionia e di torture compiute dai fascisti a Reggio Emilia, viene ucciso a seguito di un pestaggio e il suo corpo, seguito dalla folla, attraversa le strade del centro fino al cimitero <974.
Anche le esecuzioni devono essere pubbliche, in un clima di vendetta e di “festa”: “Chi disgrazieè lè [quei delinquenti] andavano fucilati in piazza, non al poligono. Al poligono? Lo stesso posto dei Cervi e di don Pasquino? Non gli andava fatto un onore così […] io li ho conosciuti […] andavano fucilati in piazza, a mezzogiorno, con la banda” <975.
La folla assiste alla celebrazione della “giustizia”, sia nella versione “popolare” sia nella versione ufficiale dei tribunali. È presente nelle aule in cui si svolgono i processi, fa sentire tutto il suo peso, quasi fisico, la sua rabbia a lungo repressa, ora libera di esplodere e di travolgere il debole diaframma che si frappone tra la Corte e il pubblico, tra il pubblico e gli imputati, tra la procedura formale e la “verità” sostanziale. Si ha difficoltà a contenere questa folla che reclama giustizia e grida vendetta. Nelle sue urla, quasi un prolungamento del dolore patito negli anni del fascismo e della guerra, c'è già la sentenza ritenuta giusta. È, quasi sempre, una sentenza di morte. In alcuni casi, precede quella emessa dal tribunale. A Brescia, “il più feroce rastrellatore fascista, Ferruccio Sorlini, viene ucciso durante il dibattimento da un carabiniere che gli spara una raffica di mitra; subiscono un linciaggio che li porta alla morte anche due imputati, rispettivamente a Padova e a La Spezia” <976. Proprio a La Spezia, “la stessa sentenza di morte non viene considerata sufficiente dal pubblico. Temendo infatti un annullamento della condanna, il pubblico […] uccide nella gabbia l'ex brigatista nero Mario Passalacqua” <977.
Spesso la sentenza di morte è emessa al di fuori delle aule di tribunale e viene eseguita con modalità diverse anche in relazione ai “colpevoli”. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 un gruppo di partigiani compie un'irruzione nel carcere di Schio, preleva un gruppo di detenuti e li uccide a raffica di mitra. I morti sono oltre cinquanta e numerosi sono i feriti. Si tratta di una esecuzione pianificata e insensata che suscita sdegno e condanne anche all'interno del variegato fronte partigiano, tra le forze politiche nazionali e negli ambienti alleati. La comunità vicentina è però divisa e lo sarà anche in seguito. I figli di una delle vittime così ricorderanno quegli avvenimenti: “La massa a Schio odiava quelli che erano stati uccisi, questa è la verità. Fu una rivelazione. E diventò impossibile continuare a stare là […] Pensi che il giorno dopo, quando passarono le cinquantatrè bare, non fermarono neanche le giostre […] Mia madre in chiesa, in cimitero, davanti a quelle cinquantatrè bare ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi e dire: “Di fronte a tutte queste vittime dobbiamo giurare che perdoniamo”. Io l'avrei uccisa. Ancora oggi quando c'è una massa di persone io non resisto, devo scappare via […] Le donne che gridavano, quell'atmosfera d'odio […]” <978.
[NOTE]
968 Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Marsilio, Venezia, pp. 102-103.
969 Ivi, p.103.
970 “Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di botte […] apparvero le prime case di Sondrio. La folla si infittì. Un urlo continuo, prolungato, ossessionante ci accompagnò in quell'ultimo tratto”, Giorgio Pisanò, Io fascista. La testimonianza di un superstite, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 71.
971 ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1944-1947, f. 19-13/12545, Eccidio e atrocità tedesche a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo). Testimonianze firmate, citato in Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., pp. 258-259.
972 Rapporto dei Carabinieri, in ACS, MI PS AGR 1944-1946, b. 75, f. 1/55/2/28, citato in Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., p. 256. “Qualche anno dopo un sindaco decise di sradicare quell'albero: unico albero della piazza ed elemento della sua identità, ma anche luogo in cui si era consumata la parte finale della tragedia. Qui è forte la tentazione di abbandonare la ricostruzione storica per la metafora: sembra quasi che la piazza debba mutilarsi di una parte di sé per mutilarsi di memoria. Ma deve mutilarsi di memoria per poter continuare ad essere piazza, luogo collettivo, sede di memoria. Luogo di storia che può convivere con la propria storia solo rimuovendola”, ivi, p. 257.
973 “Ne hanno poi tosata un'altra che l'avevano pescata che insegnava ai fascisti dove erano andati i partigiani. L'hanno tosata proprio vicino a casa mia. E poi buona grazia che le hanno solo tosato i capelli, perché se i fascisti prendevano i partigiani gli tagliavano la testa, mica i capelli”. Testimonianza riportata in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, cit., p.127.
974 “Mi ricordo bene quella cosa lì, quando s'è sparsa la voce 'Han masè Sidoli …[hanno ucciso Sidoli]', la gente che correva al cimitero perché voleva vedere, chi gli sputava addosso, chi rideva, una donna, piccoletta, col fazzoletto in testa a dire 'L'è ancora poc [è ancora poco]'. Era la gente che non ne poteva più […] non è stato bello […] ma anch'io forse avrei fatto lo stesso […] ma ero in divisa e allora cercavo di tenerli indietro”. Testimonianza riportata in ivi, p.116.
975 Gabriele Ranzato, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di Gabriele Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. IV, citazione riportata in ivi, p.117.
976 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, cit., p.50 e p.212, nota 90.
977 Ivi, p. 55
978 Silvano Villani, L'eccidio di Schio, Mursia, Milano 1994, p. 67. Citato da Guido Crainz, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, cit., p.268. Su questi avvenimenti vedi: Sarah Morgan, Rappresaglie dopo la Resistenza. L'eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda, Bruno Mondadori, Milano 2002; Ezio Maria Simini, … e Abele uccise Caino. Elementi per una rilettura critica del bimestre della “resa dei conti”. Schio 29 aprile-7 luglio 1945, B.M. Marcolin, Schio 2000; Sentenza pronunciata dalla corte di assise di Milano per l'eccidio di Schio: Milano, 13 novembre 1952, Tipografia F. Meneghini, Thiene 1987; Giuseppe Mugnone, Operazione Rossa. Analisi storica degli eccidi e dei delitti isolati compiuti in Italia dal 1945 al 1948, Tip. Gori di Tognana, Padova 1959. Sottotitolo in copertina: Il processo della Corte alleata per l'eccidio di Schio. Vedi anche: Archivio dell'Istituto Storico della Resistenza di Vicenza, Sezione “Il dopoguerra nel vicentino”, sottosezione “L'eccidio di Schio (luglio 1945)”. 1 busta contenente: Cartella 1. Documenti e cronache sull'eccidio di Schio. Cartella 2. Relazione medica sui feriti dell'eccidio. Cartella 3. Promemoria Legione Carabinieri sull'eccidio. Cartella 4. Interrogatori condotti da John Valentino [agente della V Armata americana che conduce l'inchiesta]. Cartella 5. Processo del 1945. Cartella 6. Articoli 1948-1949 sull'eccidio. Cartella 7. Articoli sull'eccidio di Schio 1950-2000. Cartella 8. Sulla morte di Germano Baron (“Turco”) [Comandante partigiano, Medaglia d'oro al Valor Militare]. Più in generale vedi: Elena Carano, Oltre la soglia. Uccisioni di civili nel Veneto 1943-1945, Cluep, Padova 2007.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011