«[...] à partir de 1945, les ruines ne renvoient plus au passé, mais au présent - un présent qui voit le pouvoir de destruction changer d’échelle» <51: Michel Makarius ha individuato con precisione, integrandoli fra loro, due momenti decisivi dell’imponente riflessione sorta, nel secondo Novecento, a proposito degli effetti della Seconda guerra mondiale, quella che secondo Gerhard L. Weinberg si potrebbe definire come «the Greatest War» (in evidente opposizione alla Prima, «the Great») <52. Più di ogni altro conflitto <53, infatti, quello che si scatenò fra il 1939 e il 1945 insanguinando quattro continenti cambiò per sempre il modo di combattere e di percepire la guerra: si trattò anzi propriamente di un nuovo genere di guerra, l’evoluzione con mezzi più radicali della predente o, semmai, il vertice parossistico di un conflitto iniziato nel 1914 e durato per più di trent’anni, per via di quell’«estensione del tempo di guerra» che ha implicato «una sovrapposizione di situazioni e immagini» fra i due conflitti <54. «La memoria della prima guerra dell’era tecnologica assurge insomma a paradigma della sostanza traumatica del mondo: sebbene alla “grande” guerra ne sia seguita un’altra, infinitamente più distruttiva, che ha conosciuto gli orrori assoluti dei bombardamenti strategici e dello sterminio razziale. Come se nella memoria collettiva fosse da sempre sedimentata l’idea di un’unica lunga guerra, durata trent’anni, che occupi per intero la prima metà del “secolo breve”» <55.
Al centro dell’«età della catastrofe», nell’«epoca della guerra totale» <56, il conflitto del 1939-45 si caratterizzò peculiarmente. Fu mondiale: perché al pari di quello del 1914-18 conobbe un’estensione su vastissima scala, ma ben maggiore (raggiungendo le Hawaii e il Giappone attraverso tutta l’Europa) <57, ed ebbe un numero di morti vertiginosamente più alto; pervasivo: perché penetrò entro i confini della maggior parte dei paesi che la combatterono avendo spesso come teatro dei conflitti più cruenti le città (facendo così conoscere direttamente gli orrori e la tragedia tanto ai militari quanto ai civili, che vennero colpiti in questo caso più delle forze armate) <58; e mediale: perché (certo ancora sulla scia del primo conflitto mondiale) quello che Hans Blumenberg ha chiamato «il pathos della conquista tecnica» offrì alla Seconda guerra mondiale strumenti inediti di distruzione di massa d’ineguagliata potenza, che contribuirono decisamente non solo alla ridefinizione del concetto di corpo - bersaglio e vittima da quel momento annientabile, in un solo istante, non nel numero di unità bensì di decine e centinaia di migliaia - ma che implicarono inoltre un ineluttabile ripensamento epistemologico che coinvolse la condizione identitaria e collettiva dell’intera umanità <59. Insomma si verificò quel cambiamento di scala indicato (fra gli altri) da Makarius, per cui l’ordine delle vittime di quei nuovi ordigni passava dalla classe ‘uomini’ a quella di ‘umanità’. «In both war and torture, there is a destruction of “civilization” in its most elemental form», ha spiegato Elaine Scarry, ma «when Berlin is bombed, when Dresden is burned, there is a deconstruction not only of a particular ideology but of the primary evidence of the capacity for self-extension itself: one does not in bombing Berlin destroy only objects, gestures, and thoughts that are human, not Dresden buildings or German architecture but human shelter» <60.
Oramai, osserva Daniel Dennett, «le innovazioni della scienza - non solo i microscopi, i telescopi o i computer, ma i suoi legami con la ragione e i dati - sono i nuovi organi di senso della nostra specie» <61: l’età contemporanea, insomma, non può più fare a meno di quella tecnologia sempre più progredita che si è infiltrata inestricabilmente nel tessuto di quest’ultimo secolo e mezzo di esistenza, fino ad arrivare a corrodere e penetrare nelle frontiere di quelle discipline che da secoli regolavano la vita della società, la giurisprudenza e la medicina. Di tale infiltrazione della tecnica nel mondo del diritto ne offre una testimonianza d’eccezione il libro delle Erinnerungen di Albert Speer, architetto del Führer e, dal 1942, ministro agli armamenti e alla produzione bellica: questi, l’ha finemente ricordato di recente Natalino Irti <62, racconta di quando fu tradotto dinanzi al tribunale di Norimberga Karl Dönitz, Großadmiral tedesco e comandante della flotta sottomarina nazista (Befehlshaber der U-Boote), imputato, fra l’altro, d’aver affondato senza preavviso navi nemiche contravvenendo così all’accordo di Londra disciplinante la guerra sottomarina; Dönitz «lottò [...] con accanimento per se stesso e per i suoi sommergibili, ed ebbe una notevole soddisfazione personale quando il suo avvocato poté esibire una dichiarazione dell’ammiraglio Nimitz, comandante della flotta americana del Pacifico, che riconosceva di aver seguito, nella guerra sottomarina, criteri identici a quelli tedeschi» <63. Come recita la sentenza riportata da Speer, «In considerazione [però] delle risposte al questionario da parte dell’ammiraglio Nimitz, secondo il quale dai primi giorni dell’entrata in guerra degli Stati Uniti questa nazione aveva condotto un’indiscriminata guerra sottomarina nell’oceano Pacifico, la condanna inflitta a Dönitz non è stata fondata sulle sue infrazioni delle disposizioni internazionali per la guerra sottomarina» <64.
La chiosa di Speer impressiona ancora per lucidità e lungimiranza: "In questo caso uno sviluppo tecnico (impiego di aerei, migliori metodi di localizzazione) sopraffece, sconvolse, annullò la norma giuridica. Fu il primo esempio della possibilità che la tecnica ha oggi di stabilire nuove valutazioni giuridiche che possono avere come per conseguenza l’uccisione legalizzata di innumerevoli uomini". <65
Ciò che interessa qui è generalmente quel «principio di alterazione» che fu la Greatest War e sul quale si è soffermato (a proposito di due romanzi della Seconda guerra mondiale: V. di Thomas Pynchon e Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo) Gabriele Frasca, mostrando come «la guerra, insomma, non ha soltanto straziato vite e paesaggi ma è penetrata radicalmente, e definitivamente, nelle strutture sociali, abbiano o meno esperito direttamente le sue devastazioni» <66. Principio di alterazione che si è tradotto in una rivoluzione assiologica, una violenta svolta cognitiva della visione del mondo dell’uomo medio europeo <67: la Seconda guerra mondiale ha insomma pregiudicato irreparabilmente la Weltanschauung dell’Occidente compromettendo due delle fondamentali categorie di riferimento umane (per l’identià e la relazione), vale a dire il corpo e la città.
Ha scritto Alberto Casadei che «la lotta nelle trincee è ripensata, da chi non l’ha vissuta, come lotta di singoli individui» e che se pure la Prima guerra mondiale «rappresentò una svolta profonda nella storia bellica, certificando fra l’altro la necessità di una supremazia tecnologica; tuttavia, essa rimase almeno in parte una lotta di uomini, cioè in qualche modo ancora una guerra antica, che produsse sconvolgimenti soprattutto per le sue conseguenze politiche e sociali»; inoltre, i «profondi sconvolgimenti della personalità, la nuova percezione tecnico-mitica della realtà, la concezione “macchinistica” della guerra stessa (con gli addentellati modernisti ormai ben noti), che si produssero nel periodo 1914-18 [...], nella narrativa romanzesca, questi elementi furono metabolizzati con una certa lentezza». E ancora: «In un certo senso, la grande letteratura accolse dapprima gli aspetti sociologici oppure quelli simbolici della PGM più che quelli antropologici: saranno soprattutto i romanzi sulla successiva guerra mondiale che sperimenteranno nuove forme di realismo in rapporto all’evento da rappresentare».
"La SGM portò anche nuove forme di combattimento, in cui la tecnologia guidava la lotta, anziché essere utilizzata dagli uomini in lotta, che d’altronde erano ormai predisposti a considerare la guerra moderna come un’organizzazione di tipo industriale (Steinbeck, nel 1943, la paragona ad una catena di montaggio automobilistica). E, se è vero che la SGM ha racchiuso in sé tante guerre diverse, le varie esperienze a posteriori sono cofluite in un quadro davvero mondiale, cosicché ogni singolo combattimento è diventato un tassello da interpretare in prospettiva: la condizione umana subì modifiche radicali nel suo insieme (basti pensare alla concezione della storia prima e dopo Auschwitz e
Hiroshima). Perciò il grande romanzo sulla SGM non è quello che appare più vicino alla cronaca, ma quello che fa comprendere, attraverso l’interpretazione della guerra, l’ormai collettiva consapevolezza del “male radicato” raggiunto»". <68
[NOTE]
51 M. MAKARIUS , Ruines [2004], Champs arts, Barcelone 2011, p. 245, che, prendendo le mosse dal saggio di E. PROUST, L’Histoire à contretemps. Le temps historique chez Walter Benjamin [1994], Le Livre de Poche, Paris 1999, ragiona sulle «ruptures consommées par la modernité et l’accumulation des désastres» che, «depuis le siècle dernier», «ont rendu la ruine indissociable de la perception générale de l’histoire»; al punto che queste «ne témoignent plus du passé mais du présent» (un «présent [qui] se donne comme ruine») e, in quest’ottica, «représenter les ruines, c’est mettre en scène la réalité elle-même» (M. MARKARIUS, Ruines cit., pp. 11-2). Importante per queste pagine è stata la lettura dello studio di E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Bologna 2010.
52 G.L. WEINBERG , A World of Arms. Global History of World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 3.
53 Non si intende certo sminuire la porata della Prima guerra mondiale e dei suoi effetti: si pensi per esempio, sul versante culturale, alle riflessioni musiliane dei primi anni Venti: R. MUSIL, L’Europa inerme: ovvero viaggio di palo in frasca [1922], trad. it. F. Valagussa, con riflessioni di V. Vitiello, F. Valagussa e A. Brandalise, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 e ID ., L’uomo tedesco come sintomo [1923], trad. it. F. Valagussa, Pendragon, Bologna 2014; come pure a quelle di E. JÜNGER, Foglie e pietre [1934], trad. it. F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 113-38 (in part. il § 3), o, per altri versi, alle considerazioni di G. BATESON, Da Versailles alla cibernetica, conferenza tenuta il 21 aprile 1966 al «Two Worlds Symposium» presso lo Stage College di Sacramento, ora in ID., Verso un’ecologia della mente cit., pp. 511-20 (in part. le pp. 513-7).
54 G. ALFANO, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Franco Cesati, Firenze 2014, p. 76.
55 A. CORTELLESSA, Fra le parentesi della storia, in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di ID ., prefazione di M. Isnenghi, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 960, pp. 15-6.
56 Colgo le definizioni da E.J. HOBSBAWM , Il secolo breve 1914-1991 [1994], trad. it. B. Lotti, Rizzoli, Milano 2014.
57 «La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché l’Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il mondo era cambiato e non aveva più un centro» (E. GENTILE, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008, p. 20).
58 Cfr. E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta cit. «Since the era of air raids, civilians have their own war tales too: as an old woman explained to me once, in World War I “they fought among themselves out there”, but in World War II “we all were involved”» (A. PORTELLI, The Battle of Valle Giulia: Oral History and the Art of Dialogue, University of Winsconsin Press, Madison 1997, p. 7).
59 H. BLUMENBERG, Perdita d’ordine e autoaffermazione. Comprensione e ordinamento nel divenire dell’epoca tecnica [1962], in ID., Storia dello spirito della tecnica, a cura di A. Schmitz e B. Stiegler, trad. it. R. Scolari e B. Simona, Mimesis, Milano 2014, pp. 63-87 (cit. p. 63): questo pathos «non ha più niente a che fare con le necessità e i bisogni, bensì [...] è tale per cui condetermina la produzione derivata dei bisogni in ragione del grado di tecnicizzazione raggiunto» (pp. 63-4); ecco perché «“la tecnica” è in questo senso un elemento costitutivo dell’epoca moderna» (p. 64). La definizione di armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction) nacque con il bombardamento di Guernica (per cui cfr. P. PRESTON, La guerra civile spagnola 1936-1939 [1986], trad. it. C. Lazzari, Mondadori, Milano 1999, specie dalle pp. 203-sgg.) e fu brevettata dall’arcivescovo di Canterbury Cosmo Gordon Lang (Archibishop’s Appeal, in «Times», London, 28 December 1937, p. 9); per il concetto di «guerra mediale» cfr. G. FRASCA, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Costa & Nolan, Genova 1996, cap. III, La sostanza traumatica del mondo, pp. 69-160, specie pp. 100-sgg (la definizione è a p. 105); cfr. M. DAVIS , Città morte. Storie di inferno metropolitano [2002], trad. it. G. Carlotti, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 71-89; si veda inoltre infra.
60 E. SCARRY, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, New York-Oxford 1987, p. 61.
61 Così D.C. DENNET , L’evoluzione della libertà [2003], trad. it. M. Pagani, Cortina, Milano 2004, p. 7.
62 Si veda N. IRTI, Introduzione ai lavori in Il Diritto governa la Tecnica? Focus sulla dematerializzazione dei documenti: stato dell’arte e prospettive, Atti del seminario CNEL (Roma 16 dicembre 2008), a cura di E. B ROGI e M. POTENTE, Documenti CNEL n. 12, Roma 2009, pp. 10-4, qui a p. 10; si vedano inoltre ID., Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli 2007 (in part. la prima parte, Tecno-diritto, pp. 9-20) e E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001.
63 A. SPEER, Memorie del Terzo Reich [1969], trad. it. E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1997, p. 601.
64 Ibidem, n. 6 pp. 672-3.
65 Ibidem, p. 673.
66 G. FRASCA, La scimmia di Dio cit., pp. 127-sgg. (cit. a p. 127). Su Pynchon si veda anche C. L ÉVY, Territoires postmodernes. Géogritique de Calvino, Echenoz, Pynchon et Ransmayr, préface de B. Westphal, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2014, pp. 70-4 e 125-8, su D’Arrigo cfr. G. ALFANO, Gli effetti della guerra. Su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Sossella, Roma 2000.
67 Poiché si trattò, seppure non ancora di una guerra “in diretta” come quella del Vietnam (per cui si veda B. CUMINGS, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra [1992]. trad. it. P. Cairoli e F. Pece Venturi, Baskerville, Bologna 1993), di un conflitto che godé di una notevole esposizione mediatica, anzitutto fotografica (se certo «sin dal 1839, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha infatti “corteggiato” la morte e la guerra», è però vero che «nelle prime guerrre importanti di cui esistono resoconti fotografici, quella di Crimea e le Guerra civile americana, e in tutte quelle che precedettero la prima Guerra mondiale, il combattimento vero e proprio era al di là della portata della macchina fotografica»; G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 19 e 20), rispetto al primo conflitto mondiale, le cui immagini furono spesso censurate - e che stanno però riemergendo negli ultimi anni (cfr. A fuoco l’obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra, a cura di A. FACCIOLI e A. S CANDOLA, Persiani, Bologna 2014, specie A. FACCIOLI, Il cinema italiano e la Grande Guerra: rovine, eroi, fantasmi, pp. 14-31). Ha scritto Susan Sontag che «il fotogiornalismo vide riconosciuto il proprio ruolo all’inizio degli anni Quaranta - in tempo di guerra»: proprio la Seconda guerra mondiale «offrì ai fotoreporter una nuova legittimità» (S. SONTAG, Davanti al dolore degli altri [2003], trad. it. P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2006, p. 35). Se non altro, è certo che la Seconda guerra mondiale conobbe un’immediata fortuna mediatica alla sua conclusione, in specie dovuta ai suoi due emblemi tragicamente caratterizzanti: Auschwitz (e tutta l’esperienza concentrazionaria - che però emerse complessivamente solo a partire dalla metà degli anni Sessanta) e Hiroshima (e la paura della bomba che aleggiò per tutto il resto del secolo).
68 Questa e le precedenti citazioni non segnalate provengono da A. CASADEI, Romanzi di Finisterre. Narrazioni della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000, pp. 27-8.
Tommaso Gennaro, «La traccia dell’addio delle cose». L’Europa postbellica e il caso Beckett, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2015-2016
Al centro dell’«età della catastrofe», nell’«epoca della guerra totale» <56, il conflitto del 1939-45 si caratterizzò peculiarmente. Fu mondiale: perché al pari di quello del 1914-18 conobbe un’estensione su vastissima scala, ma ben maggiore (raggiungendo le Hawaii e il Giappone attraverso tutta l’Europa) <57, ed ebbe un numero di morti vertiginosamente più alto; pervasivo: perché penetrò entro i confini della maggior parte dei paesi che la combatterono avendo spesso come teatro dei conflitti più cruenti le città (facendo così conoscere direttamente gli orrori e la tragedia tanto ai militari quanto ai civili, che vennero colpiti in questo caso più delle forze armate) <58; e mediale: perché (certo ancora sulla scia del primo conflitto mondiale) quello che Hans Blumenberg ha chiamato «il pathos della conquista tecnica» offrì alla Seconda guerra mondiale strumenti inediti di distruzione di massa d’ineguagliata potenza, che contribuirono decisamente non solo alla ridefinizione del concetto di corpo - bersaglio e vittima da quel momento annientabile, in un solo istante, non nel numero di unità bensì di decine e centinaia di migliaia - ma che implicarono inoltre un ineluttabile ripensamento epistemologico che coinvolse la condizione identitaria e collettiva dell’intera umanità <59. Insomma si verificò quel cambiamento di scala indicato (fra gli altri) da Makarius, per cui l’ordine delle vittime di quei nuovi ordigni passava dalla classe ‘uomini’ a quella di ‘umanità’. «In both war and torture, there is a destruction of “civilization” in its most elemental form», ha spiegato Elaine Scarry, ma «when Berlin is bombed, when Dresden is burned, there is a deconstruction not only of a particular ideology but of the primary evidence of the capacity for self-extension itself: one does not in bombing Berlin destroy only objects, gestures, and thoughts that are human, not Dresden buildings or German architecture but human shelter» <60.
Oramai, osserva Daniel Dennett, «le innovazioni della scienza - non solo i microscopi, i telescopi o i computer, ma i suoi legami con la ragione e i dati - sono i nuovi organi di senso della nostra specie» <61: l’età contemporanea, insomma, non può più fare a meno di quella tecnologia sempre più progredita che si è infiltrata inestricabilmente nel tessuto di quest’ultimo secolo e mezzo di esistenza, fino ad arrivare a corrodere e penetrare nelle frontiere di quelle discipline che da secoli regolavano la vita della società, la giurisprudenza e la medicina. Di tale infiltrazione della tecnica nel mondo del diritto ne offre una testimonianza d’eccezione il libro delle Erinnerungen di Albert Speer, architetto del Führer e, dal 1942, ministro agli armamenti e alla produzione bellica: questi, l’ha finemente ricordato di recente Natalino Irti <62, racconta di quando fu tradotto dinanzi al tribunale di Norimberga Karl Dönitz, Großadmiral tedesco e comandante della flotta sottomarina nazista (Befehlshaber der U-Boote), imputato, fra l’altro, d’aver affondato senza preavviso navi nemiche contravvenendo così all’accordo di Londra disciplinante la guerra sottomarina; Dönitz «lottò [...] con accanimento per se stesso e per i suoi sommergibili, ed ebbe una notevole soddisfazione personale quando il suo avvocato poté esibire una dichiarazione dell’ammiraglio Nimitz, comandante della flotta americana del Pacifico, che riconosceva di aver seguito, nella guerra sottomarina, criteri identici a quelli tedeschi» <63. Come recita la sentenza riportata da Speer, «In considerazione [però] delle risposte al questionario da parte dell’ammiraglio Nimitz, secondo il quale dai primi giorni dell’entrata in guerra degli Stati Uniti questa nazione aveva condotto un’indiscriminata guerra sottomarina nell’oceano Pacifico, la condanna inflitta a Dönitz non è stata fondata sulle sue infrazioni delle disposizioni internazionali per la guerra sottomarina» <64.
La chiosa di Speer impressiona ancora per lucidità e lungimiranza: "In questo caso uno sviluppo tecnico (impiego di aerei, migliori metodi di localizzazione) sopraffece, sconvolse, annullò la norma giuridica. Fu il primo esempio della possibilità che la tecnica ha oggi di stabilire nuove valutazioni giuridiche che possono avere come per conseguenza l’uccisione legalizzata di innumerevoli uomini". <65
Ciò che interessa qui è generalmente quel «principio di alterazione» che fu la Greatest War e sul quale si è soffermato (a proposito di due romanzi della Seconda guerra mondiale: V. di Thomas Pynchon e Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo) Gabriele Frasca, mostrando come «la guerra, insomma, non ha soltanto straziato vite e paesaggi ma è penetrata radicalmente, e definitivamente, nelle strutture sociali, abbiano o meno esperito direttamente le sue devastazioni» <66. Principio di alterazione che si è tradotto in una rivoluzione assiologica, una violenta svolta cognitiva della visione del mondo dell’uomo medio europeo <67: la Seconda guerra mondiale ha insomma pregiudicato irreparabilmente la Weltanschauung dell’Occidente compromettendo due delle fondamentali categorie di riferimento umane (per l’identià e la relazione), vale a dire il corpo e la città.
Ha scritto Alberto Casadei che «la lotta nelle trincee è ripensata, da chi non l’ha vissuta, come lotta di singoli individui» e che se pure la Prima guerra mondiale «rappresentò una svolta profonda nella storia bellica, certificando fra l’altro la necessità di una supremazia tecnologica; tuttavia, essa rimase almeno in parte una lotta di uomini, cioè in qualche modo ancora una guerra antica, che produsse sconvolgimenti soprattutto per le sue conseguenze politiche e sociali»; inoltre, i «profondi sconvolgimenti della personalità, la nuova percezione tecnico-mitica della realtà, la concezione “macchinistica” della guerra stessa (con gli addentellati modernisti ormai ben noti), che si produssero nel periodo 1914-18 [...], nella narrativa romanzesca, questi elementi furono metabolizzati con una certa lentezza». E ancora: «In un certo senso, la grande letteratura accolse dapprima gli aspetti sociologici oppure quelli simbolici della PGM più che quelli antropologici: saranno soprattutto i romanzi sulla successiva guerra mondiale che sperimenteranno nuove forme di realismo in rapporto all’evento da rappresentare».
"La SGM portò anche nuove forme di combattimento, in cui la tecnologia guidava la lotta, anziché essere utilizzata dagli uomini in lotta, che d’altronde erano ormai predisposti a considerare la guerra moderna come un’organizzazione di tipo industriale (Steinbeck, nel 1943, la paragona ad una catena di montaggio automobilistica). E, se è vero che la SGM ha racchiuso in sé tante guerre diverse, le varie esperienze a posteriori sono cofluite in un quadro davvero mondiale, cosicché ogni singolo combattimento è diventato un tassello da interpretare in prospettiva: la condizione umana subì modifiche radicali nel suo insieme (basti pensare alla concezione della storia prima e dopo Auschwitz e
Hiroshima). Perciò il grande romanzo sulla SGM non è quello che appare più vicino alla cronaca, ma quello che fa comprendere, attraverso l’interpretazione della guerra, l’ormai collettiva consapevolezza del “male radicato” raggiunto»". <68
[NOTE]
51 M. MAKARIUS , Ruines [2004], Champs arts, Barcelone 2011, p. 245, che, prendendo le mosse dal saggio di E. PROUST, L’Histoire à contretemps. Le temps historique chez Walter Benjamin [1994], Le Livre de Poche, Paris 1999, ragiona sulle «ruptures consommées par la modernité et l’accumulation des désastres» che, «depuis le siècle dernier», «ont rendu la ruine indissociable de la perception générale de l’histoire»; al punto che queste «ne témoignent plus du passé mais du présent» (un «présent [qui] se donne comme ruine») e, in quest’ottica, «représenter les ruines, c’est mettre en scène la réalité elle-même» (M. MARKARIUS, Ruines cit., pp. 11-2). Importante per queste pagine è stata la lettura dello studio di E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Bologna 2010.
52 G.L. WEINBERG , A World of Arms. Global History of World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 3.
53 Non si intende certo sminuire la porata della Prima guerra mondiale e dei suoi effetti: si pensi per esempio, sul versante culturale, alle riflessioni musiliane dei primi anni Venti: R. MUSIL, L’Europa inerme: ovvero viaggio di palo in frasca [1922], trad. it. F. Valagussa, con riflessioni di V. Vitiello, F. Valagussa e A. Brandalise, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 e ID ., L’uomo tedesco come sintomo [1923], trad. it. F. Valagussa, Pendragon, Bologna 2014; come pure a quelle di E. JÜNGER, Foglie e pietre [1934], trad. it. F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 113-38 (in part. il § 3), o, per altri versi, alle considerazioni di G. BATESON, Da Versailles alla cibernetica, conferenza tenuta il 21 aprile 1966 al «Two Worlds Symposium» presso lo Stage College di Sacramento, ora in ID., Verso un’ecologia della mente cit., pp. 511-20 (in part. le pp. 513-7).
54 G. ALFANO, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Franco Cesati, Firenze 2014, p. 76.
55 A. CORTELLESSA, Fra le parentesi della storia, in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di ID ., prefazione di M. Isnenghi, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 960, pp. 15-6.
56 Colgo le definizioni da E.J. HOBSBAWM , Il secolo breve 1914-1991 [1994], trad. it. B. Lotti, Rizzoli, Milano 2014.
57 «La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché l’Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il mondo era cambiato e non aveva più un centro» (E. GENTILE, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008, p. 20).
58 Cfr. E. PIRAZZOLI, A partire da ciò che resta cit. «Since the era of air raids, civilians have their own war tales too: as an old woman explained to me once, in World War I “they fought among themselves out there”, but in World War II “we all were involved”» (A. PORTELLI, The Battle of Valle Giulia: Oral History and the Art of Dialogue, University of Winsconsin Press, Madison 1997, p. 7).
59 H. BLUMENBERG, Perdita d’ordine e autoaffermazione. Comprensione e ordinamento nel divenire dell’epoca tecnica [1962], in ID., Storia dello spirito della tecnica, a cura di A. Schmitz e B. Stiegler, trad. it. R. Scolari e B. Simona, Mimesis, Milano 2014, pp. 63-87 (cit. p. 63): questo pathos «non ha più niente a che fare con le necessità e i bisogni, bensì [...] è tale per cui condetermina la produzione derivata dei bisogni in ragione del grado di tecnicizzazione raggiunto» (pp. 63-4); ecco perché «“la tecnica” è in questo senso un elemento costitutivo dell’epoca moderna» (p. 64). La definizione di armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction) nacque con il bombardamento di Guernica (per cui cfr. P. PRESTON, La guerra civile spagnola 1936-1939 [1986], trad. it. C. Lazzari, Mondadori, Milano 1999, specie dalle pp. 203-sgg.) e fu brevettata dall’arcivescovo di Canterbury Cosmo Gordon Lang (Archibishop’s Appeal, in «Times», London, 28 December 1937, p. 9); per il concetto di «guerra mediale» cfr. G. FRASCA, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Costa & Nolan, Genova 1996, cap. III, La sostanza traumatica del mondo, pp. 69-160, specie pp. 100-sgg (la definizione è a p. 105); cfr. M. DAVIS , Città morte. Storie di inferno metropolitano [2002], trad. it. G. Carlotti, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 71-89; si veda inoltre infra.
60 E. SCARRY, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, New York-Oxford 1987, p. 61.
61 Così D.C. DENNET , L’evoluzione della libertà [2003], trad. it. M. Pagani, Cortina, Milano 2004, p. 7.
62 Si veda N. IRTI, Introduzione ai lavori in Il Diritto governa la Tecnica? Focus sulla dematerializzazione dei documenti: stato dell’arte e prospettive, Atti del seminario CNEL (Roma 16 dicembre 2008), a cura di E. B ROGI e M. POTENTE, Documenti CNEL n. 12, Roma 2009, pp. 10-4, qui a p. 10; si vedano inoltre ID., Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli 2007 (in part. la prima parte, Tecno-diritto, pp. 9-20) e E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001.
63 A. SPEER, Memorie del Terzo Reich [1969], trad. it. E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1997, p. 601.
64 Ibidem, n. 6 pp. 672-3.
65 Ibidem, p. 673.
66 G. FRASCA, La scimmia di Dio cit., pp. 127-sgg. (cit. a p. 127). Su Pynchon si veda anche C. L ÉVY, Territoires postmodernes. Géogritique de Calvino, Echenoz, Pynchon et Ransmayr, préface de B. Westphal, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2014, pp. 70-4 e 125-8, su D’Arrigo cfr. G. ALFANO, Gli effetti della guerra. Su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Sossella, Roma 2000.
67 Poiché si trattò, seppure non ancora di una guerra “in diretta” come quella del Vietnam (per cui si veda B. CUMINGS, Guerra e televisione. Il ruolo dell’informazione televisiva nelle nuove strategie di guerra [1992]. trad. it. P. Cairoli e F. Pece Venturi, Baskerville, Bologna 1993), di un conflitto che godé di una notevole esposizione mediatica, anzitutto fotografica (se certo «sin dal 1839, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha infatti “corteggiato” la morte e la guerra», è però vero che «nelle prime guerrre importanti di cui esistono resoconti fotografici, quella di Crimea e le Guerra civile americana, e in tutte quelle che precedettero la prima Guerra mondiale, il combattimento vero e proprio era al di là della portata della macchina fotografica»; G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 19 e 20), rispetto al primo conflitto mondiale, le cui immagini furono spesso censurate - e che stanno però riemergendo negli ultimi anni (cfr. A fuoco l’obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra, a cura di A. FACCIOLI e A. S CANDOLA, Persiani, Bologna 2014, specie A. FACCIOLI, Il cinema italiano e la Grande Guerra: rovine, eroi, fantasmi, pp. 14-31). Ha scritto Susan Sontag che «il fotogiornalismo vide riconosciuto il proprio ruolo all’inizio degli anni Quaranta - in tempo di guerra»: proprio la Seconda guerra mondiale «offrì ai fotoreporter una nuova legittimità» (S. SONTAG, Davanti al dolore degli altri [2003], trad. it. P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2006, p. 35). Se non altro, è certo che la Seconda guerra mondiale conobbe un’immediata fortuna mediatica alla sua conclusione, in specie dovuta ai suoi due emblemi tragicamente caratterizzanti: Auschwitz (e tutta l’esperienza concentrazionaria - che però emerse complessivamente solo a partire dalla metà degli anni Sessanta) e Hiroshima (e la paura della bomba che aleggiò per tutto il resto del secolo).
68 Questa e le precedenti citazioni non segnalate provengono da A. CASADEI, Romanzi di Finisterre. Narrazioni della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000, pp. 27-8.
Tommaso Gennaro, «La traccia dell’addio delle cose». L’Europa postbellica e il caso Beckett, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2015-2016