lunedì 6 maggio 2024

L’obiettivo dei magistrati milanesi era quello di saldare le loro inchieste con quelle di Palermo


Mannoia raccontava che Riina, Calò e altri uomini d’onore di spicco intrattenevano rapporti di intimità con Ciancimino, e che nelle mani della mafia vi era «quasi tutto l’ambiente politico di Palermo». Faceva luce anche su un incontro avvenuto nella primavera del 1980, in una villetta di proprietà del boss Inzerillo alla periferia di Palermo, dove, a un certo punto, era sopraggiunta un’Alfa Romeo blindata di colore scuro e con i vetri scuri con a bordo i cugini Salvo e Andreotti. Alla riunione aveva preso parte anche Lima, già sul posto. Giunto da Trapani, nel cui aeroporto si era recato a bordo di un aereo privato affittato dagli esattori, Andreotti avrebbe chiesto a Bontate chiarimenti sull’omicidio Mattarella. Il boss, diffidando l’onorevole dall’adottare interventi o leggi speciali, poiché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi, lo aveva minacciato così: "In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la DC dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accattatevi questi".
Interrogato sull’omicidio, Mannoia aggiungeva quindi che Lima era stato ucciso perché «non era più persona affidabile». Per quel che sapeva e che avrebbe potuto rivelare, era «una specie di mina vagante» che «non poteva campare in eterno». <1028 Anche Di Maggio faceva nuove dichiarazioni spontanee, il 16 aprile. Riferiva che, in veste di autista, nel settembre 1987 aveva accompagnato Riina a un incontro nell’abitazione palermitana di Ignazio Salvo, cui avevano partecipato anche Andreotti e Lima. Nella circostanza avrebbe visto Riina salutarli con un bacio sulla guancia. <1029
La Procura presentava perciò una seconda integrazione all’autorizzazione a procedere contro il senatore a vita, anche se - come hanno rivelato Caselli e Lo Forte - a partire da questa circostanza le acque del processo si sarebbero intorbidite notevolmente. Il “bacio” scatenava infatti i complottisti, mentre il fatto che Di Maggio avesse contribuito all’arresto di Riina e al crollo della cosca di San Giuseppe Jato da quel momento non contava più nulla. Si parlava di una “baggianata” cui solo quei “gonzi” che ipotizzavano la mafiosità di Andreotti potevano credere, mentre una sapiente regia ne faceva la chiave di volta per screditare l’intero processo. <1030 Per i magistrati, invece, Riina aveva compreso che il democristiano era un maestro del doppio gioco e che qualcosa nel suo atteggiamento era mutato. Gli voleva dunque far capire che ormai non poteva più prendere le distanze, che doveva ricordare che erano e avrebbero continuato a essere «la stessa cosa». E il boss glielo ricordava a modo suo, nel più tipico dei linguaggi mafiosi, baciandolo, assieme a Lima e a Ignazio Salvo, davanti al suo autista. Il messaggio era destinato tanto ad Andreotti, cui Riina ricordava che non gli si sentiva affatto inferiore, che a Di Maggio, in quel momento rappresentante del “popolo” mafioso. <1031 Mai prima di allora - ha scritto Santino senza nascondere perplessità verso questa raffigurazione - la mafia si era proiettata così in alto, come una «struttura ordinamentale» strettamente collegata, da pari a pari o addirittura con ruolo di supremazia o di comando, a un uomo di Stato e di potere così longevo. <1032
La Procura - secondo Lupo - non solo ricostruiva il fatto sulla base delle testimonianze di un pentito dalla dubbia credibilità, ma faceva propria l’interpretazione dell’episodio proposta dalla leadership mafiosa, che se ne serviva per auto-accreditarsi agli occhi dei gregari. <1033 La Giunta delle autorizzazioni e delle immunità del Senato, ad ogni modo, il 6 maggio 1993 dava parere positivo alla richiesta di procedere contro Andreotti, escludendo la sussistenza di fumus persecutionis nei suoi confronti. Su richiesta dello stesso senatore a vita, il 13 maggio, il Senato concedeva l’autorizzazione. I PM Lo Forte, Natoli e Scarpinato formulavano quindi la richiesta di rinvio a giudizio il 21 maggio 1994, poi disposta dal GIP Agostino Gristina il 2 marzo 1995.
3. Il processo Andreotti
A partire dall’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa e dalla relativa autorizzazione a procedere, passando per l’inizio del processo, il 26 settembre 1995, fino all’assoluzione in primo grado, il 23 ottobre 1999, la vicenda giudiziaria di Andreotti si intrecciava alla situazione politica italiana. La sua evoluzione era strettamente legata alla fine di Mani pulite e all’ingresso in scena di Berlusconi, che con i suoi canali Fininvest scatenava una violenta campagna di delegittimazione della magistratura (in particolare di quella milanese e di quella palermitana, che indagavano entrambe sui suoi trascorsi) che, col tempo, avrebbe mutato l’orientamento di buona parte dell’opinione pubblica. Anche grazie agli errori e alle debolezze della sinistra, il berlusconismo strumentalizzava la parola d’ordine del garantismo per precipitare il Paese in una vera e propria guerra, senza esclusione di colpi, tra quella che si presentava come la nuova classe politica e un potere giudiziario che - era la sua tesi - minacciava gli interessi economici, personali e le stesse prerogative del presidente del Consiglio. <1034 Già alla fine del 1999, i magistrati di Tangentopoli e dell’antimafia non sarebbero più stati considerati benemeriti della Repubblica, ma “toghe rosse”. Le loro inchieste non avrebbero più rappresentato il doveroso esercizio dell’azione penale per il ripristino della legalità, ma “complotti politici”, mentre i politici della prima Repubblica non sarebbero più stati “ladri, corrotti e collusi con la mafia”, ma “vittime e perseguitati dalla giustizia”. <1035
Nel 1993, tuttavia, i giudici milanesi si erano convinti di aver disegnato la mappa della corruzione dell’intero Paese. La “Tangentopoli siciliana” si sarebbe sviluppata sotto la regia di due successivi protagonisti: prima Siino, forte dei suoi legami con Lima e con Cosa nostra; poi Filippo Salamone, un imprenditore agrigentino che, in seguito all’arresto del primo, era diventato il nuovo punto di riferimento del cosiddetto "tavulinu". <1036 Era emerso che la «mente» della Sirap, la società regionale attraverso la quale politici, mafiosi e imprenditori avevano divorato centinaia di miliardi, era proprio Salvo Lima, che attraverso la sua mediazione aveva suggellato il patto fra Riina e il “comitato di affari”. Che fosse il «manovratore occulto» di mafia e tangenti lo dimostravano due anni di intercettazioni telefoniche, piene delle sue conversazioni con altri esponenti politici, fino ad allora solo sfiorati dall’indagine, e gli stessi amministratori della Sirap. Costituita dopo una lunga serie di riunioni, nel 1983, proprio nella sua segreteria, da qui Lima decideva a chi e in che modo dovevano essere assegnati gli appalti. Ufficialmente l’azienda serviva a sollecitare investimenti ed insediamenti industriali, artigianali e commerciali nel territorio siciliano, ma ben presto, secondo i giudici, l’«artificiosa costruzione giuridica» si era trasformata in un luogo di sperpero e spartizione delle ingenti risorse finanziarie, a tutto vantaggio di politici, amministratori, professionisti ed esponenti della criminalità organizzata. Di interesse rilevante, al riguardo, erano le dichiarazioni di Vincenzo Lodigiani e Claudio De Eccher, uno imprenditore lombardo e l’altro friulano, che dopo esser stati arrestati descrivevano il sistema della gestione lottizzatoria degli appalti imperniato sulle tangenti. <1037 Nelle tasche di Lima erano finiti anche i miliardi della maxitangente Enimont. Una prima conferma veniva da Cirino Pomicino, che nel novembre del 1993 raccontava a Di Pietro tutta una serie di rivelazioni sulla spartizione dei 150 miliardi pagati dal finanziere Raoul Gardini per conto della famiglia Ferruzzi (azionista di maggioranza della Montedison, polo della chimica), perché si arrivasse alla conclusione di un accordo (che non andava in porto) per la fusione con l’ENI. Attraverso Sergio Cusani,  l’intermediario del gruppo, la tangente passava per buona parte, circa 90 miliardi, sotto forma di titoli di Stato. Rendendo ancor più cupa la vicenda, l’ex ministro del Bilancio sorprendeva quindi i magistrati, che gliene contestavano 3 miliardi e mezzo, confessandone più di cinque. In una deposizione in cui Tangentopoli si sposava praticamente con il “manuale Cencelli”, per sconfinare nei misteri di Palermo, Pomicino spiegava che, nel corso di un convegno DC a Milano, nel novembre 1991, aveva consegnato 1 miliardo e mezzo a Lima, come contributo per la campagna elettorale della corrente andreottiana. <1038 Se Gardini non si fosse ucciso, il 23 luglio 1993, e se Lima fosse stato ancora in vita - ha raccontato Di Pietro in una recente intervista pubblicata da L’Espresso - l’europarlamentare democristiano sarebbe quindi sicuramente stato arrestato con l’accusa di associazione mafiosa. Secondo l’ex PM, infatti, Gardini sapeva che, andando a deporre quella mattina al Palazzo di Giustizia di Milano, avrebbe dovuto fare il nome di Lima. Mani pulite è quindi «una storia che andrebbe riscritta», perché, in un binario parallelo al processo sulla trattativa Stato-mafia, nasceva in sostanza dall’inchieste di Falcone e dal rapporto del ROS che, una volta finito nelle mani di Giammanco, a Palermo, sarebbe poi rimasto chiuso in cassaforte. L’obiettivo dei magistrati milanesi, dunque, non era solamente quello di arrivare a Craxi, come tuttora, spesso, ci si limita a raccontare, bensì quello di saldare le loro inchieste con quelle di Palermo e avere gli elementi probatori sufficienti per chiedere al Parlamento l’arresto di Andreotti. Se Gardini non fosse morto, in definitiva, il processo Cusani sarebbe diventato «il processo Mafia-appalti, Andreotti compreso». <1039 I magistrati palermitani, contestualmente, nello stesso 1993 erano convinti di aver raccolto le prove che Andreotti avesse nascosto i suoi rapporti con Cosa nostra e che avesse perfino suggellato l’isolamento prima, l’esecuzione poi, di Dalla Chiesa e Falcone. La sostanza dell’accusa emergeva in numerosi riscontri e testimonianze, che, secondo la Procura, spazzavano via ogni dubbio sull’intreccio dei rapporti che il senatore si ostinava a negare. Che l’esponente democristiano mentisse era dimostrato dall’inverosimiglianza di alcune sue affermazioni. Sui rapporti con Lima, ad esempio, sosteneva di non aver mai avuto «un minimo indizio che vi fosse qualche collegamento da parte sua con persone che non dovessero essere frequentate». Teneva lo stesso atteggiamento davanti alle dichiarazioni di Evangelisti, che aveva raccontato che Lima gli aveva confidato che Buscetta era un suo vecchio amico: né Lima né il suo fidato braccio destro, dichiarava Andreotti, gli avevano mai detto una cosa simile. Evangelisti veniva scaricato pure per le sue dichiarazioni sull’omicidio Mattarella, quando aveva raccontato che Lima gli aveva detto che, «quando si fanno dei patti, vanno mantenuti». Andreotti sosteneva la propria totale innocenza non solo da qualsiasi complicità, ma anche da ogni, per quanto occasionale, frequentazione mafiosa. Metteva quindi in discussione la legittimità dell’accusa, attribuendogli finalità politiche miranti a dimostrare l’esistenza «di una sorta di reato collettivo, compiuto dalla Democrazia cristiana siciliana» e da quella nazionale. A suo sostegno interveniva Berlusconi, secondo il quale il processo al maggior esponente politico dell’ultimo ventennio rappresentava l’ennesimo misfatto da parte della magistratura nonché il segno dell’autolesionistica calunnia italiana utile solamente a danneggiare il Paese agli occhi del mondo. <1040
Per i giudici, però, il senatore mentiva su tutta la linea.
[NOTE]
1028 AP, Senato della Repubblica, Leg. XI, Documenti, Doc. IV n. 102, Domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti, 27 marzo 1993, pp. 15-25.
1029 Ivi, Seconda integrazione alla domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti, 20 aprile 1993, pp. 8-9.
1030 G. C. Caselli - G. Lo Forte, La verità sul processo Andreotti, cit., pp. 34-42.
1031 La vera storia d’Italia, cit., pp. 761-768.
1032 U. Santino, Guida al processo Andreotti, in «Città d’utopia», novembre 1995, p. 4.
1033 S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 47. Durante il programma di protezione dei testimoni, tra il 1995 e 1997, Di Maggio tornò nella sua città natale e cominciò a farsi vendetta contro gli uomini del clan di Giovanni Brusca. Quando fu arrestato nuovamente, il 14 ottobre 1997, lo scandalo fu tale che avrebbe finito per danneggiare il programma di aiuto testimoni e il processo contro Andreotti.
1034 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 205. Sul berlusconismo ci si limita a citare Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013.
1035 G. Galli, Il prezzo della democrazia. La carriera politica di Giulio Andreotti, Kaos, Milano 2003, pp. 251-253.
1036 Gianni Barbacetto - Peter Gomez - M. Travaglio, Mani pulite 25 anni dopo. Per chi non c’era, per chi ha dimenticato, per chi ha ancora le mani sporche, PaperFirst, Roma 2018, pp. 283-284.
1037 Francesco Viviano, Era Salvo Lima il re di “mafiopoli”, in «la Repubblica», 28 maggio 1993.
1038 Gianluca Di Feo, Pomicino: diedi a Lima titoli avuti da Sama, «Corriere della Sera», 26 novembre 1993. Sull’espressione giornalistica, che allude all’assegnazione dei ruoli politico-governativi agli esponenti dei vari partiti in base al loro peso, cfr. R. Venditti, Il manuale Cencelli. Il prontuario della lottizzazione democristiana: un documento sulla gestione del potere, Editori riuniti, Roma 1981.
1039 S. Turco (colloquio con A. Di Pietro), Vi racconto la vera storia di Mani Pulite, in «L’Espresso», 19 gennaio 2020.
1040 G. Andreotti, Cosa loro, cit., p. 5.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica 1928-1992, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019