Nel corso dell’ottava legislatura, come abbiamo visto attraverso qualche cenno, si definiscono gli equilibri politici, basati sostanzialmente sull’accordo tra socialisti e democristiani, che si mantengono per tutti gli anni Ottanta e fino al 1992-1993, biennio che segna il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Pur trattandosi di un equilibrio caratterizzato da un alto livello di conflittualità interna tra i partiti della coalizione, in primo luogo tra il Psi e la Dc <14, ma anche tra le varie correnti di quest’ultima, il “pentapartito” costituisce la formula che permetterà di sostenere i governi che si susseguono nel corso del decennio.
Parallelamente, nei primi anni Ottanta, si cristallizza anche una contrapposizione che vede da una parte alcune forze politiche, a cominciare dal Psi di Craxi e da alcune aree della Dc, e dall’altra la magistratura; essa deriva, in massima parte, dall’atteggiamento di dura critica nei confronti dell’ordine giudiziario e di quell’attività di giurisdizione che contribuisce a svelare all’opinione pubblica condotte illegali da parte di politici, cosa evidentemente non gradita dagli esponenti di partito. Si tratta di una contrapposizione che deriva dal fatto che la magistratura ha ormai assunto pienamente le sue caratteristiche di potere diffuso, nell’ambito del quale esiste una pluralità di opinioni e di atteggiamenti circa le modalità di applicazione delle leggi e circa l’esercizio della giurisdizione e non, come fino circa alla fine degli anni Sessanta, una sostanziale contiguità e unità d’indirizzi e d’intenti tra magistratura e classe politica di governo.
Durante tutti gli anni Ottanta la tensione tra politici e magistrati riguarda in particolar modo il partito socialista e si sviluppa alternando periodi di maggior tranquillità istituzionali con vere e proprie crisi. Molte di queste coinvolgono in prima persona il Presidente della Repubblica (e presidente del Csm), Francesco Cossiga, a cominciare da quella che si verifica dopo la condanna di alcuni esponenti socialisti per diffamazione. Ugo Intini, Salvo Andò e Paolo Pillitteri, secondo una sentenza del novembre 1985 emessa dal Tribunale di Milano <15, avevano diffamato il pubblico ministero del capoluogo lombardo Armando Spataro per la sua gestione dell’accusa ai terroristi responsabili dell’omicidio di Walter Tobagi, socialista e amico personale di Craxi, avvenuto nel 1980. Dopo tale condanna il segretario del Psi conferma pubblicamente la sua solidarietà ai dirigenti e fa sue le critiche ai magistrati <16 per le pene, considerate troppo lievi, irrogate agli omicidi; queste dichiarazioni spingono il Csm, su iniziativa di Magistratura indipendente, a discutere il caso al fine di tutelare i magistrati attaccati. Ma l’ordine del giorno predisposto trova la netta opposizione da parte di Cossiga, il quale afferma che è inammissibile un intervento del Consiglio su atti o dichiarazioni del capo del governo; tutti i magistrati membri del Csm rassegnano allora le dimissioni, atto che induce Cossiga ad ammorbidire i toni. Il Presidente della Repubblica interviene poco dopo affermando che il Csm ha assunto grandi meriti durante il terrorismo, ma che ora si rende necessario tornare alla normalità <17.
Romano Canosa attribuisce al Csm la responsabilità maggiore in un secondo episodio di conflitto con Cossiga, che ha luogo nel mese di gennaio 1986 e che ha come oggetto l’organizzazione di un dibattito, proposto da alcuni consiglieri di Magistratura democratica, circa le linee di politica giudiziaria che i candidati a vicepresidente dell’organo di autogoverno adotterebbero in caso risultassero eletti. A tale dibattito si oppone con decisione Cossiga, argomentando che il Csm non può fissare le linee di attività del consiglio alle spalle del presidente, il quale verrebbe ad assumere un ruolo solo formale; questa volta Cossiga ha la meglio ed i commissari tornano sui loro passi.
Gli anni successivi però sono caratterizzati da una notevole tensione latente tra il Csm ed il capo dello Stato, tra pause e varie «punture di spillo» <18, praticamente durante tutto il settennato. Si tratta di una contrapposizione che deriva, in qualche misura dalla particolare personalità del capo dello Stato, ma che ha soprattutto valenza politica nella misura in cui ha come oggetto l’attribuzione e l’esercizio di poteri reali.
Il contrasto tra magistrati ed alcune forze politiche si manifesta anche attraverso l’organizzazione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, promosso all’inizio del 1986 da socialisti, radicali, liberali e socialdemocratici e definito di «carattere pretestuoso» da Pizzorusso <19. La proposta referendaria inizialmente include un quesito sulla legge elettorale del Csm, già presente nel programma del governo Craxi nel 1983 <20, ma questo viene bocciato dalla Corte costituzionale. Esso costituisce, secondo Canosa <21, la vera mira del Psi, anche perché questo partito non propone alcun sistema alternativo e quindi non è chiaro quale sia il suo fine (sul punto specifico) se non quello di delegittimare il Csm. Ma se le intenzioni dei socialisti sono «pretestuose» o oblique, la proposta politica, che consiste nel rendere i magistrati civilmente responsabili di fronte a casi dimostrati di danni ai cittadini causati da “colpa grave”, sembra condivisibile dalla gran maggioranza delle forze politiche, non escluso il partito comunista, il quale si pronuncia apertamente per il “sì”. L’intero ordine giudiziario però si schiera in senso contrario e anche Magistratura democratica afferma la necessità di salvaguardare i giudici. Non sono certo estranee a questo atteggiamento istanze tipicamente corporative, anche se unite, in particolare per quanto riguarda Md, ad esigenze reali che riguardano la realizzazione della libera espressione della giurisdizione, la quale potrebbe trovarsi condizionata dal timore di danni futuri a causa del maggior rischio di dover rispondere personalmente di eventuali errori. Eppure, al di là del merito, è difficile non vedere in questo appuntamento referendario un’espressione del conflitto ormai evidente tra il Psi e la magistratura e, contemporaneamente, è difficile negare un’estesa presenza di istanze corporative nell’ambito dell’ordine giudiziario in questa circostanza. L’atteggiamento da parte dell’Anm, ricorda Liberati <22, in particolare in occasione del congresso di Genova nel 1987, poco dopo il referendum, riflette l’emergere di «chiusure corporative, tentazioni di ripiegamento e demagogiche posizioni di scontro frontale con l’intera classe politica» <23.
In quella circostanza i giudici sono comunque costretti ad una riflessione circa l’orientamento della pubblica opinione, che è alquanto chiaro visto che la vittoria dei “sì” risulta schiacciante (ottiene oltre l’ottanta percento dei votanti); ma tale atteggiamento viene interpretato come insoddisfazione per il servizio giustizia nella sua generalità, a cominciare dalla lentezza dei processi, problema ormai annoso in Italia e che aveva già visto il Paese sul banco degli accusati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Oltre al quesito circa la responsabilità dei giudici, la tornata referendaria include anche la commissione inquirente, la cui sopravvivenza per giudicare i reati dei ministri viene rigettata da più dell’84 percento dei votanti. Negli anni precedenti, come abbiamo visto in queste pagine, questo istituto aveva dato un importante contributo per rallentare o porre fine a procedimenti giudiziari dotati di notevole portata politica, con l’unica e parziale (visto il proscioglimento di Rumor) eccezione costituita dal caso Lockheed.
Vale dunque la pena di chiedersi per quali ragioni il Psi, che pure non risparmia occasione di proclamare l’esigenza di tutelare esponenti dell’esecutivo o del Parlamento rispetto alle iniziative dei giudici, si adoperi per la soppressione della commissione inquirente. A questo proposito conviene ricordare che l’aspetto maggiormente insidioso delle inchieste è quello che riguarda la divulgazione delle notizie circa la condotta, in molti casi altamente censurabile, posta in atto dai politici interessati, assai più che l’irrogazione della pena in seguito alle eventuali condanne. Mentre l’inquirente può costituire un valido strumento per impedire quest’ultima, in particolare in presenza di un accordo parlamentare tra Psi e Dc, il suo utilizzo è assai più dubbio quando si tratta di evitare la divulgazione delle notizie; anzi, in determinati casi può ottenere l’effetto opposto perché le sedute della commissione fano circolare dati ed informazioni anche presso i membri dell’opposizione, che le possono in varie maniere divulgare, rendendo così l’inquirente un megafono di atti censurabili commessi da esponenti di partito. Del resto i ministri sono quasi sempre parlamentari e le inchieste giudiziarie devono pur passare attraverso il severo vaglio delle giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato, da sempre decisamente restie a permettere le inchieste a carico dei membri del Parlamento.
La tensione e le frequenti dichiarazioni circa la parzialità dei giudici, unite ad alcune storiche ed assai note disfunzioni del servizio giustizia, contribuiscono probabilmente, in questi anni, a incrinare, in qualche misura, l’immagine della magistratura presso la pubblica opinione e ad erodere parte di quel prestigio guadagnato dall’ordine giudiziario grazie al contrasto, costato tanti sacrifici, al terrorismo. Uno dei casi giudiziari che crea maggiore sconcerto nell’opinione pubblica è quello relativo al presentatore televisivo Enzo Tortora, accusato da un pregiudicato “pentito” di essere coinvolto in un traffico di stupefacenti e sottoposto a carcerazione preventiva nel 1983 per alcuni anni per poi essere completamente scagionato. Il caso è certamente meritevole di grande attenzione in quanto mette in risalto i rischi legati all’uso processuale dei collaboratori di giustizia; ma presso l’opinione pubblica contribuisce all’intensificarsi di una certa diffidenza nei confronti del sistema giudiziario nel suo complesso, a cui non sono estranee le prese di posizione di alcuni partiti. Il calo di fiducia e di prestigio dei giudici italiani sembra trovare riflessi anche nelle espressioni cinematografiche; se all’inizio degli anni Settanta il magistrato vi era rappresentato dal giudice istruttore Mariano Bonifazi, impegnato in difficili battaglie contro l’inquinamento e le frodi degli affaristi senza scrupoli e protetti dalla politica nella pellicola di Dino Risi “In nome del popolo italiano” (1971), nel decennio successivo questi cede il posto a Annibale Salvemini, giudice vanesio, molto sensibile alle attenzioni della stampa, e caratterizzato da un incomprensibile voluttà per gli arresti in gruppo, interpretato da Alberto Sordi in “Tutti dentro” (1984).
[NOTE]
14 Una cronaca dei conflitti tra i partiti negli anni Ottanta è fornita da L. Cecchini, Palazzo dei veleni. Cronaca litigiosa del pentapartito (1981-1987), Rubettino, Catanzaro, 1987.
15 Una narrazione dettagliata degli eventi è contenuta in L. Pepino, “Speciale: storia e analisi di una unanimità presunta (a proposito del conflitto Cossiga-Csm)”, Questione giustizia, 1986, Pag. 97
16 Il segretario del Psi dichiara «Noi confermiamo uno per uno i giudizi severi e critici che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura», citato in R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 131
17 Ibid.
18 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit.
19 A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. Cit. Pag. 60
20 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 211
21 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 139
22 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 218
23 Ibid. Pag. 233 L’atteggiamento dell’Anm sul referendum viene condannato, oltre che da Bruti Liberati, anche da Canosa e Pizzorusso.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013
Parallelamente, nei primi anni Ottanta, si cristallizza anche una contrapposizione che vede da una parte alcune forze politiche, a cominciare dal Psi di Craxi e da alcune aree della Dc, e dall’altra la magistratura; essa deriva, in massima parte, dall’atteggiamento di dura critica nei confronti dell’ordine giudiziario e di quell’attività di giurisdizione che contribuisce a svelare all’opinione pubblica condotte illegali da parte di politici, cosa evidentemente non gradita dagli esponenti di partito. Si tratta di una contrapposizione che deriva dal fatto che la magistratura ha ormai assunto pienamente le sue caratteristiche di potere diffuso, nell’ambito del quale esiste una pluralità di opinioni e di atteggiamenti circa le modalità di applicazione delle leggi e circa l’esercizio della giurisdizione e non, come fino circa alla fine degli anni Sessanta, una sostanziale contiguità e unità d’indirizzi e d’intenti tra magistratura e classe politica di governo.
Durante tutti gli anni Ottanta la tensione tra politici e magistrati riguarda in particolar modo il partito socialista e si sviluppa alternando periodi di maggior tranquillità istituzionali con vere e proprie crisi. Molte di queste coinvolgono in prima persona il Presidente della Repubblica (e presidente del Csm), Francesco Cossiga, a cominciare da quella che si verifica dopo la condanna di alcuni esponenti socialisti per diffamazione. Ugo Intini, Salvo Andò e Paolo Pillitteri, secondo una sentenza del novembre 1985 emessa dal Tribunale di Milano <15, avevano diffamato il pubblico ministero del capoluogo lombardo Armando Spataro per la sua gestione dell’accusa ai terroristi responsabili dell’omicidio di Walter Tobagi, socialista e amico personale di Craxi, avvenuto nel 1980. Dopo tale condanna il segretario del Psi conferma pubblicamente la sua solidarietà ai dirigenti e fa sue le critiche ai magistrati <16 per le pene, considerate troppo lievi, irrogate agli omicidi; queste dichiarazioni spingono il Csm, su iniziativa di Magistratura indipendente, a discutere il caso al fine di tutelare i magistrati attaccati. Ma l’ordine del giorno predisposto trova la netta opposizione da parte di Cossiga, il quale afferma che è inammissibile un intervento del Consiglio su atti o dichiarazioni del capo del governo; tutti i magistrati membri del Csm rassegnano allora le dimissioni, atto che induce Cossiga ad ammorbidire i toni. Il Presidente della Repubblica interviene poco dopo affermando che il Csm ha assunto grandi meriti durante il terrorismo, ma che ora si rende necessario tornare alla normalità <17.
Romano Canosa attribuisce al Csm la responsabilità maggiore in un secondo episodio di conflitto con Cossiga, che ha luogo nel mese di gennaio 1986 e che ha come oggetto l’organizzazione di un dibattito, proposto da alcuni consiglieri di Magistratura democratica, circa le linee di politica giudiziaria che i candidati a vicepresidente dell’organo di autogoverno adotterebbero in caso risultassero eletti. A tale dibattito si oppone con decisione Cossiga, argomentando che il Csm non può fissare le linee di attività del consiglio alle spalle del presidente, il quale verrebbe ad assumere un ruolo solo formale; questa volta Cossiga ha la meglio ed i commissari tornano sui loro passi.
Gli anni successivi però sono caratterizzati da una notevole tensione latente tra il Csm ed il capo dello Stato, tra pause e varie «punture di spillo» <18, praticamente durante tutto il settennato. Si tratta di una contrapposizione che deriva, in qualche misura dalla particolare personalità del capo dello Stato, ma che ha soprattutto valenza politica nella misura in cui ha come oggetto l’attribuzione e l’esercizio di poteri reali.
Il contrasto tra magistrati ed alcune forze politiche si manifesta anche attraverso l’organizzazione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, promosso all’inizio del 1986 da socialisti, radicali, liberali e socialdemocratici e definito di «carattere pretestuoso» da Pizzorusso <19. La proposta referendaria inizialmente include un quesito sulla legge elettorale del Csm, già presente nel programma del governo Craxi nel 1983 <20, ma questo viene bocciato dalla Corte costituzionale. Esso costituisce, secondo Canosa <21, la vera mira del Psi, anche perché questo partito non propone alcun sistema alternativo e quindi non è chiaro quale sia il suo fine (sul punto specifico) se non quello di delegittimare il Csm. Ma se le intenzioni dei socialisti sono «pretestuose» o oblique, la proposta politica, che consiste nel rendere i magistrati civilmente responsabili di fronte a casi dimostrati di danni ai cittadini causati da “colpa grave”, sembra condivisibile dalla gran maggioranza delle forze politiche, non escluso il partito comunista, il quale si pronuncia apertamente per il “sì”. L’intero ordine giudiziario però si schiera in senso contrario e anche Magistratura democratica afferma la necessità di salvaguardare i giudici. Non sono certo estranee a questo atteggiamento istanze tipicamente corporative, anche se unite, in particolare per quanto riguarda Md, ad esigenze reali che riguardano la realizzazione della libera espressione della giurisdizione, la quale potrebbe trovarsi condizionata dal timore di danni futuri a causa del maggior rischio di dover rispondere personalmente di eventuali errori. Eppure, al di là del merito, è difficile non vedere in questo appuntamento referendario un’espressione del conflitto ormai evidente tra il Psi e la magistratura e, contemporaneamente, è difficile negare un’estesa presenza di istanze corporative nell’ambito dell’ordine giudiziario in questa circostanza. L’atteggiamento da parte dell’Anm, ricorda Liberati <22, in particolare in occasione del congresso di Genova nel 1987, poco dopo il referendum, riflette l’emergere di «chiusure corporative, tentazioni di ripiegamento e demagogiche posizioni di scontro frontale con l’intera classe politica» <23.
In quella circostanza i giudici sono comunque costretti ad una riflessione circa l’orientamento della pubblica opinione, che è alquanto chiaro visto che la vittoria dei “sì” risulta schiacciante (ottiene oltre l’ottanta percento dei votanti); ma tale atteggiamento viene interpretato come insoddisfazione per il servizio giustizia nella sua generalità, a cominciare dalla lentezza dei processi, problema ormai annoso in Italia e che aveva già visto il Paese sul banco degli accusati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Oltre al quesito circa la responsabilità dei giudici, la tornata referendaria include anche la commissione inquirente, la cui sopravvivenza per giudicare i reati dei ministri viene rigettata da più dell’84 percento dei votanti. Negli anni precedenti, come abbiamo visto in queste pagine, questo istituto aveva dato un importante contributo per rallentare o porre fine a procedimenti giudiziari dotati di notevole portata politica, con l’unica e parziale (visto il proscioglimento di Rumor) eccezione costituita dal caso Lockheed.
Vale dunque la pena di chiedersi per quali ragioni il Psi, che pure non risparmia occasione di proclamare l’esigenza di tutelare esponenti dell’esecutivo o del Parlamento rispetto alle iniziative dei giudici, si adoperi per la soppressione della commissione inquirente. A questo proposito conviene ricordare che l’aspetto maggiormente insidioso delle inchieste è quello che riguarda la divulgazione delle notizie circa la condotta, in molti casi altamente censurabile, posta in atto dai politici interessati, assai più che l’irrogazione della pena in seguito alle eventuali condanne. Mentre l’inquirente può costituire un valido strumento per impedire quest’ultima, in particolare in presenza di un accordo parlamentare tra Psi e Dc, il suo utilizzo è assai più dubbio quando si tratta di evitare la divulgazione delle notizie; anzi, in determinati casi può ottenere l’effetto opposto perché le sedute della commissione fano circolare dati ed informazioni anche presso i membri dell’opposizione, che le possono in varie maniere divulgare, rendendo così l’inquirente un megafono di atti censurabili commessi da esponenti di partito. Del resto i ministri sono quasi sempre parlamentari e le inchieste giudiziarie devono pur passare attraverso il severo vaglio delle giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato, da sempre decisamente restie a permettere le inchieste a carico dei membri del Parlamento.
La tensione e le frequenti dichiarazioni circa la parzialità dei giudici, unite ad alcune storiche ed assai note disfunzioni del servizio giustizia, contribuiscono probabilmente, in questi anni, a incrinare, in qualche misura, l’immagine della magistratura presso la pubblica opinione e ad erodere parte di quel prestigio guadagnato dall’ordine giudiziario grazie al contrasto, costato tanti sacrifici, al terrorismo. Uno dei casi giudiziari che crea maggiore sconcerto nell’opinione pubblica è quello relativo al presentatore televisivo Enzo Tortora, accusato da un pregiudicato “pentito” di essere coinvolto in un traffico di stupefacenti e sottoposto a carcerazione preventiva nel 1983 per alcuni anni per poi essere completamente scagionato. Il caso è certamente meritevole di grande attenzione in quanto mette in risalto i rischi legati all’uso processuale dei collaboratori di giustizia; ma presso l’opinione pubblica contribuisce all’intensificarsi di una certa diffidenza nei confronti del sistema giudiziario nel suo complesso, a cui non sono estranee le prese di posizione di alcuni partiti. Il calo di fiducia e di prestigio dei giudici italiani sembra trovare riflessi anche nelle espressioni cinematografiche; se all’inizio degli anni Settanta il magistrato vi era rappresentato dal giudice istruttore Mariano Bonifazi, impegnato in difficili battaglie contro l’inquinamento e le frodi degli affaristi senza scrupoli e protetti dalla politica nella pellicola di Dino Risi “In nome del popolo italiano” (1971), nel decennio successivo questi cede il posto a Annibale Salvemini, giudice vanesio, molto sensibile alle attenzioni della stampa, e caratterizzato da un incomprensibile voluttà per gli arresti in gruppo, interpretato da Alberto Sordi in “Tutti dentro” (1984).
[NOTE]
14 Una cronaca dei conflitti tra i partiti negli anni Ottanta è fornita da L. Cecchini, Palazzo dei veleni. Cronaca litigiosa del pentapartito (1981-1987), Rubettino, Catanzaro, 1987.
15 Una narrazione dettagliata degli eventi è contenuta in L. Pepino, “Speciale: storia e analisi di una unanimità presunta (a proposito del conflitto Cossiga-Csm)”, Questione giustizia, 1986, Pag. 97
16 Il segretario del Psi dichiara «Noi confermiamo uno per uno i giudizi severi e critici che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura», citato in R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 131
17 Ibid.
18 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit.
19 A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. Cit. Pag. 60
20 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 211
21 R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 139
22 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della costituzione agli anni Novanta”, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 218
23 Ibid. Pag. 233 L’atteggiamento dell’Anm sul referendum viene condannato, oltre che da Bruti Liberati, anche da Canosa e Pizzorusso.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013