domenica 20 settembre 2020

Un po' di tutto della mia prigionia


[...] Diario-memoria di Mario Cassini (1885-1963), falegname e agricoltore di Isolabona (IM). Fatto prigioniero nel maggio 1916, rinchiuso prima a Sigmundsherberg, successivamente trasferito a Vienna-Leopoldau e poi a Vienna-Breitenlee, fino al 1918 redige il suo diario-memoria di prigionia, che poi s’interrompe improvvisamente.

Umpo di tutto della mia prigionia
Pout-Pourì della mia Prigionia
Vienna Bei Breitenlee Leopoldau
Stò compiendo il 14° mese di questa mia vita collegiale, dopo
aver passato tanti guai nelle lunghe giornate del scorso estate e
nelle più lunghe ancora del rigido inverno, mai hò pensato di radunare
una serie di questi indimenticabili momenti, solo adesso
hò deciso di ricordare una collezione di episodi i quali presi dal
vero dove assistetti di mia presenza e dove toccai di mia pelle.
Questo disgraziato foglio il quale ci indosso queste righe di dolore,
mi rincresce che sia carta straccio vorrei che fosse carta pecora
che non avesse tanto a lacerarsi.
Naturalmente quando un giorno sarò nel mio ridente paese
non vorrò più ricordarmi di questa angoscie che stò ora passando,
ed i miei figli potranno leggere con giudizio la mia vita,
così potranno odiare maledire e vendicare quanto soffre suo padre.
Del poco e debole cervello che ancor mi è rimasto per le peripezie
passate (cioè: fame freddo, pidocchi, calciate di fucile e bastonate)
ricordo ciò che nessuno scrittore, nessun chiaravalle a
mai usato a descrivere, hà mai pensato ciò che avrebbe potuto
passare un prigioniero italiano in’Austria.
Voi hò legitori: non state a dar del matto a chi scrisse queste
righe, piuttosto pensate che le parole che dice un prigioniero
sono alquanto preziose di quelle che stà dicendo un padre
quando muore assistito dai suoi figli.
La storia d’Italia ricorda le cinque giornate di Milano, io ricordo
le otto giornate di Trento, dove là provai la disperata fame.
Si trovavano là circa 25 mila prigionieri fatti in quattro hò cinque
giorni, gniente c’èra di preparato, solo grandi gabbie di filo
di ferro spinoso, dove in ognuna di esse stavamo 500.
Il rancio una volta al giorno. Al’avvicinarsi di questo somigliavamo
iene in un seraglio quando vedono in mano al domatore
un pezzo di carnaccia di vecchio asino che dopo se la divorano
rabbiosamente.
Le sentinelle battevano senza pietà per tenerci all’ordine perché
oltre il poco rancio qualche d’uno rimaneva senza. Eravamo
tutti da una parte, e per due, passando uno prendeva tanta polenta
come un limone, l’altro un mescolo d’acqua calda con dentro
poche grane d’orzo ed’ambe due si passava dalla parte opposta
dividendo minutamente quel magro cibo (cotto senza sale)
che non sarebbe neanche bastato ad un pulcino.
Il sole èra cocente, eravamo di Maggio [1916], non c’èra neanche
l’ombra d’un filo d’erba, eravamo sdraiati come tante lucertole,
ed ognun di noi ricordava in Italia il buon rancio che si buttava
via, pensavamo alle nostre famiglie le quali erano senza
nostre notizie ed il tardo momento che avrebbero ricevuto, e
pensavamo anche che sin al domani nel nostro corpo non c’entrava
nulla.
L’acqua da bere èra poca e cattiva.
La notte era rigida. Alla mattina si trovavamo a gruppi come
tante nidiate di topi coperti di brina stretti stretti senza essersi
mai conosciuti.
Chi aveva la mantella per coprirsi e chi era vestito in tela figuratevi
con quella pancia vuota come si dormiva bene. Il 6° e il
7° giorno avevamo già il mento aquto e il naso affilato per il combattere
questi tre nemici cioè: caldo, freddo e fame.
Sigmundesbegh [Sigmundsherberg]
Il 25 ci portarono al concentramento a Sigbergh camminando
due giorni di treno sempre in solita.
Il primo giorno sempre traversando boschi d’abeti senza nulla
d’abitato, il 2° giorno tutto pianura campi di segala parmona e
patate e null’altro.
Il freddo èra intenso; il concentramento era situato in una vasta
pianura, vi erano altre cento baracche ben ordinate in
ognuna di esse stavamo 300
Il cibo èra meno che a Trento
Alla mattina un piccolo mescolo di tè, senza rum e senza zucchero,
èra acqua calda, a mezzogiorno come pure alla sera un
mescolo di brodo di poche patate e pepe, quando uno pescava
due patate uno èra certo che rimaneva senza. Alla mattina verso
le otto davano una grizza di pane di mezzo chilo in due.
Quando la corvè si vedeva da lontano che portava questo pane
si radunavano tutti sulla porta della baracca come ragazzini dicendo
arriva il pane come se in’alto mare avessimo veduto un
bastimento che dovesse portare un genitore. Dopo la distribuzione
uno tagliava l’altro scieglieva chi tagliava faceva le parti
eguali, perché se una parte era più grossa a questo non ci rimaneva
di certo.
Malgrado questo fosse di grano turco con patate paglia macimacinata,
fare ho ceci [farina di ceci] èra assai buono, e appena mangiato
v’assicuro che una formica non avrebbe trovato una briciola.
Due volte la settimana, alla mattina prima del pane davano
ad ognuno un’aringa, subito se la divoravano testa e coda senza
badare se odorasse ne se puzzasse e senza accorgersi se fosse ne
maschio ne femmina.
La nostra vita èra di dormire, ma sogni lunghi non se ne poteva
fare; eravamo sempre coricati e nell’alzarsi somigliamo ubbriachi,
ci duoleva la testa, la vista ci vedeva torbido, le tempia
somigliava averci due chiodi, e tante volte nell’alzarzi si cadeva
a bocconi, questo èra la gran debolezza.
Ci siamo messi diverse volte a rapporto per l’aumento del rancio
ci risposero che avrebbero ancora diminuito.
Chi mangiava erba e chi mangiava ciò che trovava.
Pur’io gli occhi mi guidarono nella mondizia che gettavano i
cucinieri a ricercar residui e guscie di patata per famamirmi [sfamarmi],
ma un pò di buon senzo mi disse che questo non mi
avrebbe salvato e le buttai.
Però sett’otto non seppero frenarsi di mangiare patate crude
e erba morirono; i dottori ci fecero l’utomia [autopsia] e non ci
trovarono altro che quel crudo vegetale e costatarono il caso per
via di questo, il suo corpo indebolito e deperito non poté digerire
e poveretti finirono i suoi giorni
Durante la distribuzione del rancio chi aveva la gavetta e chi
aveva gniente.
Certi si procurarono qualche latta, chi si faceva qualche scattola
di legno, e chi aveva gniente? Il proverbio dice: gabbatu u
santu passata a festa, ma prima di rimanere a sensa si levavano
una scarpa e se ne servivano da gavetta dicenfo ai cucinieri:
metti quà; s’altrimenti facevano il salto, in seguito poi hanno
dato gavette cucchiai ecc…
Il monte di pietà
Nell’accampamento c’èrano due baracche di soldati austriaci
i quali erano per il nostro ordine Ridevano al vederci cosi affamati,
il pane che loro avevano lo mettevano dalle finestre per
farci ancora più arabbiare.
Il fante per un pezzo di pane offriva fascie portafogli mantelle
ecc…. dopo pochi giorni per lo stesso pezzo di pane davano rasoi
anelli orologi e catene d’oro, e questi approfittavano, oggetti di
valore venti trenta lire per mezza pagnotta.
Se non si fossimo trovati agli estremi di questo si saremmo
spogliati?
Chi non aveva nulla da impegnare tirava la cinghia dicendo:
Morir non si morirà, ma patimenti in quantità.
La cantina
A ponente dell’accampamento vi era una piccola baracca attorniata
da gran moltitudine di fanti Si domanda! Che c’è là?
la cantina. Vendono il pane? nò! Vendono lucido spazzole gazzose
caramelle e sigari. Ai ai con questo la fame non si combatte,
un sigaro da sei cm. si pagava 50 cm. una sigaretta da due
cm. 10 cm. e via di seguito.
Vi fò sapere che pure in Austria vi sono degli ebrei
Il palo terribile
La disciplina era all’estremo.
Qualunque piccola mancanza d’un soldato che un caporale
avesse fatto rapporto questo veniva messo al palo, uno che
avesse preso un oggetto ad un compagno, ho fatto questione
fra di loro, o risposto a un caporale lostesso al palo.
A questi soldati ci legavano le mani di dietro, e per mezzo di
una corda legata alle braccia facendola poi passare in un anello
fisso nel palo all’altezza di tre metri li sospendevano da toccare
appena appena della punta dei piedi per terra.
La condanna era di due ore, e giornalmente ce n’erano diversi,
poveretti facevano pietà soffrivano assai e per loro quelle
due ore erano assai lunghe.
Andavo sovente a curiosare, e qualche d’uno c’era sempre,
facevano la figura d’un impiccato.
Questi erano quadri pietosi, chi non hà visto non può immaginare.
Gli austriaci gioivano nel vedere sovente qualche italiano a
quelle torture a quelle atrocità passeggiavano davanti con il
suo sigaro alla bocca con una superbia come domatori di belve
feroci.
Un giorno arrischiai anch’io di provare il palo.
Stavamo scaricando un vagone di patate, le sentinelle sorvegliavano,
ma il fante che aveva i denti più lunghi che quelli
d’un cinghiale non badò a nessuna pena, ed ogni tanto alungava
la mano. Queste pur a mè mi fecero gola e ne presi diverse,
subito le portai ad i miei compagni e questi al vedere quelle patate
rimasero assai solpresi, come se ci avessi portato delle
uova. subito le abbiamo mangiate senza poterle più far cuocere.
Qualche d’uno accese il fuoco per cuocere di quelle patate,
anche distaccato dalla baracca dove non c’era nessun pericolo
d’incendio e questo ci fù dato due ore di palo.
Vienna-Leopoldau
Il 20 giugno [1916] ci portarono a Leopoldau.
Prima di entrare nell accampamento vedemmo dei compagni
che stavano lavorando i quali erano giunti li due giorni
prima di noi.
Subito ci abbiamo domandato: e da mangiare ne danno? Sì!
Ieri abbiamo mangiato due gavette di fagiuoli fitti fitti; e noi
ansiosi: fosse cosi anche per noi!
Stiamo per entrare nell’accampamento e da questo ne va via
i Serbi prigionieri.
Che spettacolo! Noi eravamo prigionieri da un mese e loro
erano da un anno.
Avevano scarpe rotte, soccoli fatti da loro i piedi fasciati con
stracci; giubbe e pantaloni rapezzati con sacchi, con coperte,
barbe lunghe sporchi all’ecesso; questi ormai ci avean già fatto
il callo si erano già rassegnati a quella vita da cani e tranquilli
e sorridenti passavano salutandoci. Italiani; italiani.
Questi sarebbero stati bei giovanotti, alti, un po snelli, svelti
colorito bruno occhi vivaci, e come difatti i serbi sono buoni
combattenti.
Entriamo in queste baracche somigliò di entrare in un canile;
un tanfo che affogava, io dissi subito: Che pussa di Serbi!
Questa parola rimase a tutti nella mente e per un po’ di
tempo sempre che si entrava in baracca ognun diceva: che
puzza di serbi.
Riprendiamo i suoi letti cioè i suoi lordi pagliericci che da un
anno quella poca paglia la stavano lacerando, quelle cenciose
coperte che forse anche quelle avran fatto le battaglie del 49
insomma èra come ad aver messo un asino in una stalla, che
dopo averci dato un calcio in culo ci chiudono la porta dicendoci:
state lì somari.
Fin dalla prima sera trovai a comperare una pagnotta pagandola
una corona.
Il giorno dopo andiamo sul lavoro ed essendo li una bassacula
[bascula] mi pesai per vedere la differenza
Sapete quanto consumai in 35 giorni? Dieci Kg. più d’un
quarto di Kg. al giorno. A consumare una tale differenza per
malattia uno non se n’accorge, ma a consumare per causa della
fame, cioè star in piedi a forza di cinghia bisogna averne sofferto
della buona.
Questo lavoro era un braccio di ferrovia cioè una catena di
ponti di cemento armato. Il mangiare era sufficiente, ma il lavoro
superava. Allora tra polenta fagiuoli fave e cavoli ci hanno
un po rinforzati.
Si mangiava alla mattina alle nove il rancio dell’impresa a
mezzogiorno quel dell’accampamento ed alle sei nuovamente
quel dell’impresa, giungendo poi alla baracca un’altro mescolino
di polenta chiara.
Insomma, il nostro corpo macinava di continuo, ma mai ci
siamo trovati sasi [sazi], quel mangiare così insipido non aveva
nessun nutrimento, appena mangiato si stava bene, ma dopo
un’ora avrestimo mangiato un’altra volta, il mescolo era
grande e lo davano colmo, ma quel rancio non aveva nessuna
sostanza. Cuocevano fagiuoli continuavano 15 20 giorni poi con
polenta lostesso, passavano allora alle fave un’altrettanto.
Più cattivi erano i cavoli in conserva dove ne abbiamo mangiato
per qualche mese di seguito senza mangiar altro. Avevano
un certo puzzo come quando si sventra una bestia, tante
volte anche con la fame neanche li mangiavo, qualche volta fra
le altre la fame mi costrinse e mi piegavo, però tenendo la gavetta
a braccio teso per non odorarli senò non l’avrei potuti
mangiare, molti si sforzarono, mà il suo ventricolo si ribellò e
subito buttarono fuori.
Generalmente la polenta la facevano senza sale e senza
grasso, qualche volta bruciava, aveva preso l’umidità e pussava.
Il lavoro duro sino a Dicembre. Quando nel Novembre questo
era tosto finito cominciarono a tener pugno stretto, con dieci
Kg. di farina di grano turco facevano la polenta a 150 uomini;
figuratevi che sostanza èra limpida che un foglio di carta posto
nella marmitta sarebbe andato a fondo, Con questo rancio non
volevamo lavorare, ma le sentinella non vollero conoscere nessuna
ragione e ci accompagnarono al lavoro. Qualche d’uno si
faceva trovare a far nulla lo portavano a rapporto dove ci affibiavano
due quattro ed anche sei ore di ferri
La paga èra 20 cm. al giorno. C’era da comperare in cantina
qualche mezza pagnotta la quale 50 centesimi. La cantina stava
aperta alla mattina dalle 10 ed alla sera dalle 6 alle 7.
Per prendere questa mezza pagnotta bisognava mettersi in
riga per uno senza fare confusione, certi stavano lì un paio
d’ore perché qualche ora prima dell’apertura il fante era già
pronto con il denaro contato come se avesse dovuto prendere
il biglietto per l’Italia; malgrado questa puntualità, quest’ordine
qualche cinquantina rimanevano senza, e con la sua pazienza
senza fare alcun atto di protesta ognun s’avviava alla
sua baracca guardando quel misero tascapane che dopo prese
in nome di tascafame.
Alla domenica poi giorno di riposo prima della sveglia andavamo
a prendersi i primi posti per comperare quel desiderato
pane e poi rimanevamo cansonati che non ce n’èra. La cantiniera
alle nove apriva la cantina dicendo: Nisc brot ed il fante
scioglieva le file maledicendo.
Andai diverse volte a Vienna per servizio con i miei comoagni;
non posso dire che Vienna sia brutta, anzi mi piaccè molto
e conta due milioni e mezzo di abitanti.
Vidi dei bei negozi d’ogni sorta, monumenti, fontane, palazzi,
una facciata d’una chiesa qualche cosa di straordinario ecc…
In tutte le contrade vidi pure colonne di oltre 300 persone,
donne ragazzi, tutti per quattro sotto il bastone delle guardie.
Costoro ognun aveva la sua marca, e passando per turno ognun
prendeva la sua razione, cioè un quarto di pane per persona,
polenta, patate ecc… Vidi diversi mercati, osservai quanto potei,
ma non mi riuscì di vedere ne uova ne polli ne pesci,
gniente di buono solo un’infinita di rape e cavoli i quali non
posso descrivere quanto eran belli, vegetali in quantità insalata,
carotte frutta ecc… Frà tutto questo vendevano anche le
mele dove ne feci comperare un kg., v’assicuro che a casa nostra
quelle non le davano neanche ai conigli, erano ancor crude
maccate [ammaccate] cascate dal vento.
Gli Inglesi dicono che la roba e buona quando si paga cara, e
difatti erano buonissime, le pagai £. 140.
Il mese di luglio diversi borghesi che ci dirigevano il lavoro
ci assicurarono che nel prossimo settembre dovevamo trovarsi
tutti a casa nostra; potete immaginare quanta gioia, ma questa
durò poco.
Si vede da lontano venire un treno, questo attraversa vicino
a noi, èra carico di filo di ferro spinoso pali da retticolati e combattenti
imbandierati i quali canta[vano] come quando vanno
ad una festa, addio speransa la guerra continua. Questo traffico
di treni continuò per diversi giorni portando a destra a sinistra
combattenti artiglierie Germaniche, cavalli, buoi, ogni sorta di
materiale; ogni tanto passava anche qualche vagone di campane
le quali avranno per molti anni radunato (con il suo vibrante
suono) migliaia e migliaia di fedeli alla casa di Dio, ed
ora per deficienza di mettallo anche a queste toccò la mala
sorte cioè di esser inghiottite e vomitate dai grossi calibri di
cannone e uccider la gran parte di fedeli, facendo udire da questi
l’ultimo suo suono, ma però non più casto come prima, ma
tremendo e spaventoso, queste trasformate in granate servono
per un solo suono ed a questo scoppio tutto sparisce.
Quando uscì in guerra la Rumenia dopo pochi giorni si vide
passare lunghi treni carichi di donne ragazzi e vecchi rumeni.
Dicevamo fra noi: per noi va male, ma per voi non và neanche
troppo bene. Poveretti anche loro furono presi d’assalto dovendo
abbandonare le sue sostanze in quel scatenato terrore
dove senza pietà e senza amore si calpesta, si devasta, si rovescia
ogni cosa. Con pochi stracci sotto il braccio spaventati ed
affamati andavano per destinazione ignota.
Breitenlee Vienna
Il giorno 10 Dicembre [1916] lasciamo Leopoldau e andiamo a
Breitenlee dove si trova a otto chilometri [...]

Federico Croci, Memorie di carta. I liguri e la Grande Guerra, Consiglio regionale della Liguria, 2018