Bizzarramente, non riesco a ricordarmi dov’è che pranzassi. Non mi preoccupavo affatto della buona cucina; volevo mantenermi con una piccola somma di denaro il più a lungo possibile, senza avere a soffrire d’indigestione. C’era, credo, in rue Bonaparte, un ristorante assai buono e non troppo caro dove andavo spesso. Durante la mia prima visita a Parigi, due anni prima, m’innamorai del métro. Permetteva di circolare per tutta la città senza la confusione e il pigia pigia della subway newyorchese, che sembra sempre lanciata in una corsa contro la morte. Nella subway non ci si può trattenere dal controllare l’ora ad ogni istante; nel métro si teneva d’occhio piuttosto il Dubo… Dubon… Dubonnet [Negli anni che Bowles sta rievocando campeggiava per le strade di Parigi un manifesto pubblicitario, su sfondo giallo, del “vin tonico alla china”, aperitivo di marca Dubonnet. Lo slogan, posto al di sotto di un grande, gustoso disegno, prepotentemente geometrico, dal tono in prevalenza amaranto in aggiunta al nero, fortemente stilizzato nelle sue geometrie semplici ed essenziali, recitava per l’appunto «Dubo… Dubon… Dubonnet» <N.d.T.>]. L’odore della subway di New York è quello del metallo surriscaldato, mischiato alle zaffate di fogna che provengono dalla baia; il metrò rendeva un odore particolare che si dileguava per le vie in superficie attraverso delle bocche. Quell’odore non l’avevo mai sentito da nessun’altra parte; per me era sinonimo di Parigi. Molti anni dopo, in una drogheria tangerina scoprii che vendevano un disinfettante in tre profumazioni differenti: Limone, Lavanda e Profumo del Metrò. Bernard Faÿ abitava in rue Saint-Guillame e occupava una cattedra di relazioni franco-americane. Non ho la minima nozione delle idee politiche ch’egli professava all’epoca ma deve averle espresse quel tanto che basta perché lo imprigionassero per diversi anni, alla fine della Seconda Guerra mondiale. Da lui ho incontrato Virgil Thomson: abitava anche lui al numero 17 del Lungosenna Voltaire. Così è stato grazie a lui che potemmo sistemarci, Harry ed io, nel nostro atelier. Inoltre Virgil s’incaricò di presentarmi a diverse persone che secondo lui era importante che io conoscessi, tali Marie-Louise Bousquet, Pavel Tchelitchev e Eugène Berman, che tutti chiamavano Génia. Un giorno, Virgil mi condusse ad incontrare Max Jacob, strano piccolo personaggio dalla testa a forma d’uovo. Si trovava da lui Henri Sauguet. Io, però, non avevo mai letto un rigo di Max Jacob, né avevo mai ascoltato una sola nota della musica di Sauguet, di conseguenza quelle presentazioni non servirono a granché. Due erano i posti che m’incantavano particolarmente: il Bal Nègre, in rue Blomet, e il Teatro del Grand-Guignol. Non avevo mai avuto occasione di veder danzare dei Neri, nonostante io fossi, com’è naturale che sia, fortemente impressionato dalla loro grazia e dalle loro doti di danzatori. Il repertorio del GrandGuignol era necessariamente limitato, occorreva, al fine di evitare una scelta composta esclusivamente da pezzi già visti, esaminare con cura il programma. Spesso lo spettacolo era disturbato dalla presenza in sala di infermieri in camice bianco che arrivavano per portare via gli spettatori che si sentivano male. Non credevo molto all’autenticità di quelle crisi cardiache o di quegli attacchi epilettici. I lavori presentati non mi sembravano tanto raccapriccianti da poter provocare simili reazioni. Si asseriva, però, che quegli incidenti non erano affatto dei trucchi: il teatro attirava un pubblico d’invalidi e nevrotici. Trovavo la cosa molto divertente, compresa l’atmosfera di dramma in cui era avvolta l’uscita degli spettatori ipersensibili. Ogni volta che uno dei miei conoscenti di passaggio a Parigi mi proponeva un pranzo sceglievo di andare al ristorante della Moschea, non tanto per l’eccellenza della sua cucina, ma più semplicemente perché le portate e l’ambiente mi ricordavano il Marocco. (L’avevo lasciata da appena qualche mese ma sognavo continuamente di fare ritorno a Fès). Oggi, ripensandoci, mi sembra di ricordare che il couscous della Moschea non fosse poi tanto male. Era di sicuro migliore del couscous servito oggigiorno nei ristoranti in Marocco. Mi dicono che adesso, trascorso più di mezzo secolo, la qualità dei piatti della Moschea è via via calata, ma ciò non sorprende affatto visto come vanno le cose dappertutto. Un giorno, presso alcuni amici a Montparnasse, venni presentato a Ezra Pound. Andammo, io e lui, a colazione nelle vicinanze. Era un uomo d’alta statura con una barba appena rossiccia. Mi ricordai di una sua poesia che avevo letto qualche anno prima in una piccola rivista; si trattava di una specie di diatriba contro gli anziani i quali, secondo Pound, per il bene della società avrebbero dovuto morire prima dell’età senile. Mostrai a mia madre quel passo così crudo, ella mi disse: «Mi sa che quest’uomo non conosce granché della vita». Più volte, nel corso di quella colazione, fui sul punto di domandare a Mr. Pound se avesse mantenuto la stessa opinione riguardo alla vecchiaia, ma mi astenni dal farlo all’idea che la domanda potesse imbarazzarlo. All’epoca dirigeva, assieme a Sam Putnam e Richard Thoma, una rivista letteraria dal titolo The New Review. Quello stesso pomeriggio aveva appuntamento con Putnam e mi propose di accompagnarlo. Nell’autobus, per tutto il tragitto fino a Fontenay-aux-Roses, rimanemmo in piedi sulla piattaforma. Ricordai che Gertrude Stein aveva stabilito che non avrebbe più ricevuto Pound. Era così poco attento e così maldestro, lei diceva, che se si avvicinava a un tavolo ne avrebbe rovesciato la lampada; se si sedeva, la sedia crollava sotto di lui. La sua presenza tra gli invitati le costava troppo e quindi lei gli impedì l’ingresso al 27 di rue de Fleurus. Le domandai se non pensava che lui soffrisse per questa esclusione. «Oh, no! Ha tanta altra gente a cui spiegare la vita». Lei lo aveva soprannominato il Grande Esplicatore, «se si ha bisogno di spiegazioni, aggiungeva, è perfetto». A Parigi, quell’inverno, le mie attività letterarie si limitavano alla ricerca dei numeri mancanti nelle mie collezioni di riviste, le più disparate o moribonde. La cosa richiedeva tempo ed energia più di quel che si possa credere. Le pubblicazioni che m’interessavano maggiormente erano Le Minotaure, Bifur e Documents, giornale dal destino effimero, pubblicato da Carl Einstein. Non le si trovava nei negozi di libri usati dei lungofiumi ma presso le piccole librerie a prezzi d’occasione sparpagliate per tutta la città; di conseguenza, per le mie ricerche ero costretto a fare delle lunghe camminate. Del resto trovavo la cosa conveniente, poiché a Parigi niente mi piaceva di più che passeggiare per le vie poco frequentate, il cui mistero permaneva inesauribile ai miei occhi. In particolar modo amavo esplorare i quartieri situati distanti dall’Opera, lontani da Place de la Concorde o dall’Arc du Triomphe, davvero troppo ufficiali per apparirmi interessanti. Nel grigiore di una giornata d’inverno, le modeste rue de Belleville o rue de Ménilmontant mi apparivano soffuse di una poesia infinitamente più grande. Misuravo ad ampi passi quelle strade, per delle ore e senza annoiarmi, scattando fotografie a quei punti in cui si accatastavano scale e botti (prestando attenzione a non includere persone nell’immagine), qualche volta smarrendomi, un po’ come in una medina marocchina. I piatti serviti nei ristoranti di quei quartieri non mi piacevano molto: ricordo la carne di cavallo, rossa e dolciastra, abitualmente accompagnata da spinaci che crocchiavano sotto i denti. Un edificio «ufficiale» che mi affascinava, però, c’era: il Trocadéro, con la sua ampia rampa di scale che digrada verso la Senna. Sbaglio ad associarci il ricordo di Lautréamont? Senza alcun dubbio la costruzione era sufficientemente brutta da suscitare la sua ammirazione, con i suoi indimenticabili rinoceronti a grandezza naturale. Apparentemente, questi sono stati soppressi in occasione del ringiovanimento chirurgico praticato al complesso. Non riesco a non domandarmi cosa ne è stato di quei due enormi animali. Esistono ancora da qualche parte o sono stati distrutti? Mi pare che i francesi abbiano potuto farne colare un altro paio, identici, e piazzare le quattro bestie ai quattro angoli della torre Eiffel, con cui avevano una certa aria di famiglia. Per evitare l’accusa di nutrire un gusto deviato in materia di architettura dovrei dire che ammiravo il castello di Versailles. La superficie del paesaggio che si distendeva in lontananza serviva da antidoto a quel leggero senso di claustrofobia che alle volte provavo a Parigi. Ero certo di avere un’ammirazione praticamente universale per quel posto, tanto che un pomeriggio fui scandalizzato nel vedere quattro turisti inglesi, in piedi davanti alla larga facciata principale, con aria canzonatoria, e udire una delle donne pronunciare con un forte accento cockney: «Proprio una roba brutta!». Una sera venni invitato da Tristan Tzara a cena. Era da qualche parte sopra Montmartre, forse rue Lepic. Aveva una moglie svedese molto bella, il suo salotto era pieno zeppo di sculture e maschere africane. Possedeva un magnifico gatto siamese. A dispetto delle loro reazioni, folli e imprevedibili (oppure potrebbe anche darsi che sia proprio per via di quelle) apprezzo particolarmente questi animali. Le pietanze mi parvero eccellenti, nonostante esse furono motivo di scuse da parte dei miei ospiti. Tzara mi spiegò che in cucina tenevano del personale provvisorio perché il loro cuoco abituale li aveva lasciati pochi giorni prima, molto agitato, dichiarando che non avrebbe più rimesso piede in casa Tzara. Tutta la faccenda era dovuta al gatto, che non era mai entrato in buoni rapporti con il cuoco. Forse questi aveva trascurato i suoi pasti. In ogni caso lui non lo voleva in cucina mentre lavorava e così lo scacciava col piede, insulto che l’animale, un maschio molto grande, considerava imperdonabile.
Paul Bowles, 17, Quai Voltaire (a cura di Sandro Melissi * su Satisfiction)
* "17, Quai Voltaire" è un brevissimo memoriale (28 pagine) scritto da Paul Bowles su richiesta - probabilmente, visto che le notizie intorno a questa pubblicazione sono limitatissime - di Daniel Rondeau, all’epoca direttore della casa editrice Quai Voltaire. Il testo venne pubblicato fuori commercio nel 1993 a scopo promozionale, ed era riservato «aux amis de Quai Voltaire» (agli amici dell’editore parigino, come specifica una noterella in fondo al volumetto). “17, Quai Voltaire” è lontanissimo dalla violenza onirica e dalla granitica intonazione, dalla intensità di racconti come quelli che compongono “The Delicate Prey” (1950), ad esempio. Si avvicina, naturalmente per via del taglio narrativo, a quella impalpabile biografia che fu “Without Stopping” (1972). Nelle sue righe sono infatti rievocati (con una rapidità e un distacco raggelante ma in definitiva molto pertinenti allo stile di Bowles) i mesi tra il 1931 e il 1932 in cui il giovanissimo compositore americano (Bowles intraprese la carriera letteraria in un secondo momento e giunse in Europa anche per seguire studi di teoria musicale più approfonditi) visse a Parigi. Era il suo secondo soggiorno nella capitale francese. Alloggiò in un appartamentino al numero 17 del Quai Voltaire (Lungosenna Voltaire). Quell’indirizzo, per un caso davvero particolare, divenne mezzo secolo più tardi il nome di uno dei suoi editori in Francia. Dalla coincidenza è nata questa memoria scritta in inglese ma pubblicata direttamente ed esclusivamente in francese. Gli anni ai quali si fa riferimento furono incredibilmente intensi e proficui per i rappresentanti di quella comunità artistico-culturale americana trapiantata a Parigi e in genere in Europa (stabilmente o temporaneamente - si pensi ad esempio a Henry Miller, Gertrude Stein, Ezra Pound, questi ultimi due tratteggiati da Bowles in “17, Quai Voltaire”). Il breve racconto, che mette in scena sottovoce tutto il melting-pot intellettuale della Parigi alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, in questo caso ne costituisce una ennesima testimonianza, piacevole da leggere, interessante dal punto di vista storico e filologico. (Paolo Luzi)