domenica 22 giugno 2025

Nell’estate del 1944 la Resistenza armata è in costante espansione


Dall’inverno, quando le sorti della Resistenza sembravano appese a un filo, le cose mutarono profondamente, al punto che, il 6 giugno [1944], due giorni dopo la liberazione di Roma, il generale Alexander invita i patrioti dell’Italia occupata a “insorgere compatti contro il comune nemico […] colpendolo con ogni mezzo”. Con questa dichiarazione la Resistenza ebbe il primo esplicito riconoscimento del rilievo militare che aveva faticosamente conquistato. La compattezza e la credibilità della Resistenza furono soprattutto il risultato di un’evoluzione politica che riuscì a modificare sostanzialmente sia i rapporti tra i partiti politici, sia la loro visibilità e rappresentatività, sia la natura stessa del fenomeno della Resistenza.
Il momento decisivo di questa evoluzione è da identificarsi nella cosiddetta “svolta di Salerno”, cioè la decisione dell’allora segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, rientrato in patria il 27 marzo 1944, di proclamare irrealistica l’istanza antimonarchica che aveva condotto lo scontro la governo del Sud e Cln a un’impasse. Secondo Togliatti, è fondamentale instaurare un governo di unità nazionale, che comprendesse tutti i partiti antifascisti, che si impegnasse nel portare a termine la guerra di liberazione e che poi garantisse al popolo italiano la possibilità di scegliere tra monarchia e repubblica.
Sul piano interno, la svolta di Salerno prende in contropiede non solo i partiti che costituiscono l’ala moderata del Cln, ma anche gran parte degli stessi dirigenti comunisti. Le più risentire resistenze arrivano da PdA, che solamente davanti alla “considerazione delle responsabilità e difficoltà che una soluzione di rottura ci avrebbe creato” <16, accetta di superare la propria opposizione verso qualunque forma di collaborazione con la monarchia.
Sul piano, decisamente più concreto, della lotta armata, le conseguenze della svolta di Salerno sono tutto tranne che immediate. La politicizzazione, non solo della base partigiana, ma anche di molti comandanti, è estremamente scarsa, così come lo è la loro risposta agli stravolgimenti politici. I ricorrenti contrasti tra le bande, originati da questioni di controllo del territorio, da accessi di proselitismo e da eccessivi personalismi, non scompaiono nel giro di qualche giorno. Nella concretezza della vita delle bande, sia Salerno che Roma sono percepite come estremamente lontane. Ciò non toglie che esista un rapporto estremamente stretto tra la svolta di Salerno, la conseguente formazione di un governo di unità nazionale e il nuovo impulso di trovare forme di coordinamento efficaci, sia sul piano politico che su quello militare. Particolare spinta in questa direzione viene dal Partito comunista, sostenendo che la nuova unità politica “non esclude, anzi rende necessaria, un’unità militare che tenga conto dell’esperienza e dei problemi nuovi che si pongono ai patrioti in armi […] per cui ci vuole un comando centrale che stabilisca questo coordinamento; un comando che abbia autorità di chiedere e di distribuire i materiali e le forze necessario al coordinamento dello sforzo” <17.
A questo punto, la situazione generale appare decisamente favorevole. La liberazione di Roma (4 giugno 1944) e il successo dello sbarco alleato in Normandia (6 giugno 1944) e il massiccio afflusso delle giovani leve in montagna preludono magnifiche prospettive per l’estate, come la creazione di un vero esercito partigiano, che sembra ormai a portata di mano.
L’estate è la stagione più favorevole alla guerra di guerriglia, e per i partigiani questo significa una stagione di ottimismo, la stagione della “grande illusione”, cioè il pensiero che, dopo l’estate, non ci sarà un altro inverno di guerra, ipotesi rafforzata da una ordinata ritirata dei tedeschi, che abbandonano la linea Gustav per attestarsi sulla linea Gotica. La prospettiva insurrezionale infiamma i comandi partigiani e i partiti, Pci in testa, intensificano la propaganda per massimizzare il coinvolgimento delle masse; spesso, però, il risultato ottenuto è diametralmente opposto: l’opinione prevalente tra le masse operaie, Milano e Torino comprese, è che “siamo alla fine, a che vale fare delle inutili vittime, tanto i tedeschi se ne vanno lo stesso” <18.
Nell’estate del 1944 la Resistenza armata è in costante espansione. Rispetto ai mesi precedenti l’autorevolezza e la capacità organizzativa del Clnai sono decisamente aumentate <19, grazie anche all’adesione della maggior parte delle forze partigiane del Cvl, ma soprattutto alla creazione del comando militare unitario, che a livello periferico troverà i suoi corrispettivi nei comandi militari regionali e di zona. È questo un momento evolutivo decisivo, caratterizzato dal progetto di creazione di un “esercito partigiano”, con divisioni, brigate, distaccamenti, squadre. Vengono introdotte numerose novità rilevanti: diffusione della stampa partigiana; adozione di distintivi e divise; obbligo per ogni formazione di redigere rapporti regolarmente trasmessi al comando generale del Cvl <20. Cambiano i modi in cui viene somministrata la giustizia <21, così come le modalità per la ripartizione dei fondi <22. Il tentativo di trasformare delle bande multiformi e variamente composite in un vero e proprio esercito, ha come presupposto l’accordo tra i due partiti più profondamente coinvolti nella lotta armata, egemonizzando la maggior parte delle formazioni partigiane. La più consistente novità, in questo campo, è un accordo straordinariamente saldo tra azionisti e comunisti, formalmente sancito dalla partecipazione paritetica di Ferruccio Parri e Luigi Longo al comando generale del Cvl.
L’estate del 1944 è il momento in cui diviene più che mai egemone la volontà politica dei partiti antifascisti di guidare (o controllare) la lotta armata. La figura del commissario politico, che inizialmente caratterizzava le Brigate Garibaldi, acquista ora “un ben definito carattere di ufficialità con la creazione del Cvl”, che ne equipara il grado a quello dei comandanti militari <23. La necessità di amministrare ampie zone e l’obiettivo di sperimentarvi concretamente il rinnovamento politico e sociale rendono urgente l’istanza di adottare un modello di comportamento il più possibile attinente alle direttive del Clnai. Diviene così rapidamente superato il modello di lotta armata centrato sulla frammentazione in bande più o meno autonome dal Cln, comandate da capi privi di investitura dall’alto, che basano il loro potere sul carisma personale. Diminuisce progressivamente la tolleranza nei confronti delle bande che rifiutano l’inquadramento, molte vengono accusate di banditismo, spesso con il pretesto di rimuovere personaggi scomodi o riottosi. La Resistenza è ormai già protesa verso il dopoguerra, alla partecipazione a una lotta di liberazione che tenga conto dello scenario politico successivo.
La continua spinta degli alleati, intanto, costringe le truppe tedesche a concentrare i loro sforzi sulla difesa della linea gotica, occupandosi dei partigiani solo quando le loro azioni giungono a minacciare concretamente zone ritenute vitali per il fronte. Intanto, le forze armate della Rsi si rivelano del tutto inadeguate nel mantenere il controllo dell’intero territorio del Nord Italia. La situazione è molto fluida, ma, in generale, si può dire che il territorio controllato dai partigiani sia, in questo periodo, in continua espansione. Una volta creatasi una “zona libera”, la possibilità di insediamento di nuove forme di potere politico-amministrativo è dipendente, oltre che dagli orientamenti dei generali partigiani, dalla necessità contingente di organizzare al più presto la vita materiale delle popolazioni, e in particolare di assicurarsi rifornimenti alimentari. La posizione geografica di queste zone libere, in alcuni casi, favorisce ritorsioni da parte dei tedeschi, che possono facilmente isolare i distretti partigiani, sospendendo l’arrivo di risorse dalla pianura. Ovunque la speranza è quella di un radicale rinnovamento dei contenuti, delle forme e dei simboli del potere politico, che dipende fortemente sia dall’orientamento dei comandanti partigiani, sia dalla collaborazione delle popolazioni coinvolte.
Dal punto di vista militare, però, nemmeno per la Resistenza della grande espansione estiva è positivo. I più ottimisti si fanno sostenitori della necessità di ampliare il più possibile l’area di reclutamento partigiano, e di più solide e attrezzate basi, da cui poter non solo continuare la guerriglia, ma anche trasformarla in una vera e propri guerra. Questi aspetti si sarebbero rivelati realistici e positivi esclusivamente nel caso in cui l’insurrezione generale fosse stata realmente prossima, ma il dissolversi delle più ottimistiche previsioni finisce per accentuare gli aspetti negativi della situazione, mettendo in luce l’impossibilità di competere militarmente con le forze armate regolari.
Da agosto 1944 la strategia tedesca attraversa una mutazione radicale. È difficile tracciare una linea temporale precisa che separi nitidamente la fase espansiva della resistenza da quella dei grandi rastrellamenti tedeschi. Quello del tardo autunno partigiano è un panorama piuttosto sconfortante: la sconfitta che inizia a delinearsi all’orizzonte riaccende le diatribe interne che la speranza riposta in primavera nell’ipotesi dell’insurrezione generale era riuscita a quietare. Due sono i fattori principali che portano a questo rovesciamento delle posizioni di combattimento tra tedeschi e partigiani: i partigiani sono tendenzialmente male armati, con artiglieria sufficiente a resistere al massimo a poche ore di fuoco, mentre mancano completamente di armi pesanti o di strumenti di comunicazione per coordinare azioni militari complesse; la pletora di disertori e renitenti, che costituiva le nuove leve dell’esercito partigiano, finisce per danneggiare l’efficienza dello stesso, a causa della loro inesperienza e della loro mancanza di disciplina. A tutto questo si aggiunge l’inizio del secondo inverno della Resistenza, anticipato da un clima molto rigido e da abbondanti nevicate, mentre le truppe alleate, dopo una stagione di conquiste, si sono ormai arenate sulle loro posizioni.
A questa gravissima crisi interna si aggiunsero, molto presto, nuove notizie poco rassicuranti, come la grande controffensiva tedesca nelle Ardenne. Per i partigiani, il cui morale era ormai molto basso, questo fu il concretizzarsi del peggiore degli incubi. In questo periodo, notizie di intere bande che si consegnano al nemico, o di abbandoni individuali tali da decimare intere formazioni, sono copiose. Lo sconvolgimento cui è sottoposta la struttura stessa della Resistenza è enorme, ed è aggravata dalle necessità politiche di frenare in tutti i modi di porre freno allo sbandamento. Mai come ora è fondamentale il ruolo dell’organizzazione e della volontà politica. Se non si giunge al dissolvimento è solamente grazie al fatto che un anno di esperienze e di problemi organizzativi hanno prodotto una struttura notevolmente salda al centro, e una selezione di quadri locali in grado di interpretare con realismo e necessità le difficoltà che la Resistenza stava affrontando. Divenne oggettivamente impossibile continuare a mantenere le formazioni in montagna, dov’erano prive di rifornimenti, di basi e dell’appoggio della popolazione, ormai stremata e priva di risorse. La pianurizzazione dell’esercito partigiano divenne, a questo punto, una scelta obbligata. In alcuni, non poi così isolati, casi, il trasferimento in pianura coincise con un aumento dell’attività di guerriglia, ma non fu sufficiente questa a rilanciare l’attività della Resistenza.
[NOTE]
16 Lettera di Ferruccio Parri a Ugo La Malfa, maggio 1994; in F. Parri, Scritti 1915-1975.
17 “La nostra lotta”, maggio 1944, n. 9; in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale.
18 Lettera di Pietro Secchia dell’8 settembre 1944, riportata in Amendola, Lettere a Milano.
19 F. Catalano, Storia del Clnai, Laterza, Bari, 1956.
20 Circolare del 16 agosto 1944, in Rochat (a cura di), Atti.
21 G. Solaro, Note sulla giustizia partigiana, in F. Vendramin (a cura di), Aspetti militari della resistenza bellunese e veneta. Tra ricerca e testimonianza, Isbrec, Quaderno di Protagonisti, n. 5, 1991.
22 A. Pizzoni, Il finanziamento, in Anche l’Italia ha vinto, numero speciale di “Mercurio”, II, dic. 1945, n. 16.
23 F. Catalano, Storia del Clnai, Laterza, Bari, 1956.
Giulia Arnaldi, Partigiane tra guerra e dopoguerra: donne e politica in Veneto, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

sabato 14 giugno 2025

Con l'arrivo degli alleati a Roma Dosi ebbe la possibilità di riabilitare la sua posizione


Il 19 giugno del 1939 [Giuseppe Dosi] fu condotto a Regina Coeli, nel terzo braccio, quello dei politici, fu posto in “stretto isolamento cellulare a disposizione del capo della polizia”. Fu dichiarato soggetto pericoloso. Alla prigione seguì il manicomio. Dopo tre mesi di carcere duro fu visitato da uno psichiatra inviato dal Ministero di Grazia e Giustizia. Dopo quella visita, il 21 settembre, venne prelevato da Regina Coeli e inviato al manicomio provinciale di S. Maria della Pietà. Venne rinchiuso nel padiglione XVIII per diciassette mesi, ne è testimonianza un ricorso straordinario avanzato per ottenere l’annullamento del decreto di dispensa dal servizio, che indirizzò al Ministero dell’Interno -289 per cercare, dopo la morte del capo della Polizia Arturo Bocchini, a suo giudizio detrattore principale, di recuperare la sua posizione. Fu liberato nel gennaio del 1941, quando la guerra era già scoppiata, tornò a vivere a Roma in via Veio, 54 dalla sua famiglia. Non appartenendo più al corpo della polizia, cercò e ottenne un posto di funzionario amministrativo all’Ente italiano per le audizioni radiofoniche -290 (Eiar) -291 nella sede di via Botteghe Oscure 54; lì rimase fino alla fine di gennaio 1944, quando rifiutò di trasferirsi al Nord per lavorare nei servizi radio della Repubblica Sociale Italiana. All’Eiar si occupò di pratiche amministrative, di inchieste disciplinari, di vigilanza e di sicurezza, oltre che di reportage giornalistici.
Il 4 giugno del 1944, l’arrivo degli Alleati a Roma e la fuga degli occupanti nazi-fascisti, offrirono a Dosi la possibilità di riabilitare la sua posizione. Spontaneamente la mattina del 4 giugno Dosi, entrò nei locali del carcere di via Tasso abbandonato dagli occupanti per prelevare i documenti. L’ex carcere in quel momento era in balia della folla che aveva fatto irruzione liberando i prigionieri, saccheggiando e poi bruciando mobili, suppellettili e documenti.
Unica testimonianza di quei momenti concitati sono le fotografie che Dosi scattò. All’indomani si recò al Campidoglio <292 e riferì agli ufficiali alleati che era in possesso di numerosa documentazione tedesca tra cui elenchi di sabotatori e di collaborazionisti. Venne interrogato a lungo da due ufficiali appartenenti al Counter Intelligence Corp (Cic) <293, controspionaggio alleato, i quali vennero a conoscenza del fatto che fosse un ex-commissario capo della polizia italiana, consegnò loro alcuni elenchi di nomi ritrovati a via Tasso. Dopo qualche tempo, per evitare la diffusione di notizie a Dosi venne chiesto di consegnare tutte le carte tedesche in suo possesso. Allo stato attuale degli studi è possibile affermare, dopo l’individuazione ed il recupero delle carte appartenute a Giuseppe Dosi operato da chi scrive, che non tutto fu consegnato e che parte rimase nelle mani di Giuseppe Dosi <294. Una pubblicazione divulgò parzialmente, a distanza di poco tempo, il contenuto di quelle carte. Dosi con l’editore Realino Carboni nel 1946 diede alle stampe solo il primo volume dei tre previsti, il titolo scelto fu "Via Tasso: I. I misteri delle SS". Documenti originali raccolti e commentati da Giuseppe Dosi, gli altri non vennero mai pubblicati.
Verso la fine di giugno del 1944 venne condotto nuovamente nel comando alleato, in quell’occasione gli proposero l’assunzione come addetto alla German section all’interno del controspionaggio. Fu assunto in servizio come “tecnico speciale” in campo investigativo, prima alla German Section poi alla Political Section del Cic <295 - U.S. Army-Via Sicilia 59 - Roma, attuando un servizio di collegamento col Ministero dell’Interno e la Questura di Roma.
Le carte che compongono l’Archivio Dosi restituiscono l’attività svolta dallo stesso a partire dal periodo che coincide con il ritrovamento delle carte, all’impiego presso il Cic e poi presso l’Interpol. Dalle carte emerge che la prima parte della sua attività fu mirata al chiarimento di fatti ed episodi e all’identificazione certa dei personaggi che ruotavano intorno al comando di via Tasso. Dal luglio 1944 a dicembre dello stesso anno si occupò dell’analisi delle carte tedesche <296 che lui stesso recuperò.
Ebbe modo di verificare l’esistenza di una fitta rete di spionaggio che i tedeschi avevano intessuto a Roma attraverso l’analisi di piani e di elenchi di nomi recuperati, rivelò il ruolo di molti agenti occupati nelle retrovie in azioni di sabotaggio nelle zone intorno a Roma <297. Queste indagini lo portarono ad intessere molteplici contatti professionali, molte volte svolse il ruolo di testimone nei processi <298 contro i nazisti Kappler, Maeltzer, Von Mackensen e di altri collaboratori assoldati dal comando di via Tasso nei nove mesi di occupazione. Ebbe modo di collaborare ai lavori della Commissione delle «Cave Ardeatine», offrendo preziose informazioni al prof. Attilio Ascarelli, prima, ed al prof. Ugo Sorrentino poi.
La seconda parte della sua attività condotta nel Cic, a partire dal gennaio del 1945, fu condizionata dal mutamento degli scenari politici internazionali. In seguito all’elezione del nuovo presidente americano Trumann, i cambiamenti
post-bellici che tratteggiarono nuovi equilibri internazionali bipolari innescarono, nell’Italia dell’immediato Dopoguerra, una dinamica di forze messe in atto dai settori militari dei servizi segreti americani, legati alla nascente guerra fredda che portarono forti mutamenti già a partire dalle settimane successive alla fine della guerra.
Il cambiamento del focus del Cic è riscontrabile negli incarichi affidati a Dosi e nella conseguente produzione di carte. Venne incaricato di monitorare le vicende dei partiti politici, della massoneria e la formazione di movimenti neo-fascisti. A fine mandato gli venne consegnata la Medal of Freedom <299, una benemerenza conferita dal presidente degli Stati Uniti. Rimase presso il comando alleato, con il grado di vice-questore, fino al giugno del 1946 <300. La sua totale riabilitazione sul fronte italiano avvenne il 20 maggio del 1946 quando fu riassunto in servizio. Il 10 giugno 1946, fu promosso vice-questore ed incaricato in qualità di corrispondente italiano delle comunicazioni con il Treasure department di Washington-Bureau of narcotic per gli affari riguardanti il narcotraffico. Partecipò alla riorganizzazione di quella che una volta era la Commissione internazionale di polizia di Vienna <301 e che sarebbe diventata l’Interpol. Termine, quest’ultimo, coniato durante una riunione a Parigi, grazie al suggerimento dello stesso Dosi, che di quell’organismo diventò parte integrante.
Dalla seconda metà del 1946 gli fu affidata la direzione dell’ufficio italiano Interpol presso la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, ufficio da lui organizzato ex-novo. Si specializzò in problemi di polizia aerea, di stupefacenti, di falsificazioni, e, per due volte, venne inviato come rappresentante dell’Italia all’Onu302. Partecipò attivamente alle assemblee annuali dell’Interpol, tenendo corsi di aggiornamento, lezioni e conferenze presso le scuola di polizia in Italia e all’estero.
Nel 1955 contribuì al recupero delle carte appartenute al generale Rodolfo Graziani, secondo quanto afferma, affidategli “in via del tutto personale-privata”, “salvandole da sicura dispersione all’estero” <303. Attualmente sono conservate, grazie al suo interessamento presso l’Archivio Centrale dello Stato. Fu posto in congedo nel 1956 con all’attivo nell’Interpol 31000 indagini effettuate e 364 arresti operati. Dopo il congedo venne nominato commendatore al merito della Repubblica e poi grande ufficiale. Ottenne la licenza di esercitare la professione di detective privato direttamente dal capo della Polizia e fondò, così, un'agenzia di investigazioni internazionali che chiamò «DOSI Inchieste Speciali»; ebbe il plauso del prefetto di Roma, Vincenzo Perruso <304.
Dopo il pensionamento si dedicò ad approfondire ulteriormente molte delle indagini a cui partecipò durante la sua carriera, facendo ricerche scrivendo e divulgandole in vari articoli, interviste, reportage, approfondimenti. Morì nel 1981.
[NOTE]
289 Il ricorso puntuale e molto ben documentato è conservato nell’archivio storico dell’ufficio storico della Polizia di Stato. Contiene in allegato una serie di documenti fondamentali per ricostruire la carriera e la vicenda Dosi a ridosso del suo arresto e durante la sua detenzione in carcere. Ufficio storico della Polizia di Stato, archivio storico, Dosi Giuseppe - Fascicolo personale pensionistico, 1903/A.
290 Il periodo trascorso all’Eiar è dettagliatamente descritto in una relazione che Dosi fece al Cic. Msl, Archivio Giuseppe Dosi, b. 2, fasc. 26.
291 D'ora in poi Eiar.
292 È lì che lo si vede immortalato in una famosa foto dove, alla sinistra del generale Clark, visibilmente dimagrito sale le scale verso il Campidoglio il 5 giugno 1944. U. GENTILONI, 4 Giugno… cit., p. 100.
293Il Counter Intelligence Corp fu un'agenzia di contro spionaggio dell'United States Army durante la Seconda guerra mondiale e nel Dopoguerra. La sua funzione era quella di attivare una rete di spionaggio per investigare su possibili sabotaggi, attività sovversive fornendo addestramento alle unità combattenti in materia di sicurezza, censura, sequestro di documenti e sul pericolo delle trappole esplosive.
294 La documentazione a cui ci si riferisce, recuperata nel 2009, attualmente costituisce il fondo Archivio Giuseppe Dosi che è conservato presso il Museo storico della Liberazione.
295 Il comando aveva la sua sede a Roma in via Sicilia 59. L’indirizzo compare su numerosi documenti. In un rapporto del capitano James Jesus Angleton - secondo quanto afferma Nicola Tranfaglia nel suo volume - si legge che “il quartier generale dell’X-2 e delle unità Z dello Sci è situato in via Sicilia, 59, presso il Teatro delle Arti. Nello stesso edificio si trovano anche il Cic, lo Sci (Special counter intelligence) britannico, il National intelligence unit (Niu), l’Fss (Field security service), il G-2, il quartier generale delle forze armate americane e altri per un totale di otto ambienti”. N. TRANFAGLIA, Come nasce una repubblica, Milano, Bompiani, 2004, p. 346-347.
296 Nel 1956 Dosi, ormai in pensione, rilascia una serie di interviste al giornalista Renzo Trionfera in cui parla diffusamente della sua carriere. R. TRIONFERA, Le memorie del capo italiano dell’Interpol in «L’Europeo», a. 12, n° 564 e segg.
297 R. TRIONFERA, Le memorie … cit., n. 573, 7 ottobre 1956, p. 22.
298 Questo è il caso dei procedimenti giudiziari a carico di Mario Frigenti e di Domenico Campana celebrati nel 1948 dalla Corte d’Appello di Roma. All’interno dei fascicoli istruttori si trovano lettere manoscritte di Dosi a cui sono allegate schede matricolari del carcere di Regina Coeli e altra documentazione tedesca utilizzata come prove a carico degli imputati nel procedimento. Asrm, Cap, sezione istruttoria, b. 1140.
299 Nella motivazione si legge “Giuseppe Dosi, commendatore dottore italiano per condotta eccezionalmente meritevole nell’esecuzione di rilevanti servizi sul fronte di operazioni del Mediterraneo dal 6 giugno 1944 al 5 maggio 1946. La lealtà di Dosi, la sua integrità, la sua inesauribile devozione al dovere sono state di inestimabile assistenza al corpo di controspionaggio dell’esercito degli Stati Uniti. La sua vasta esperienza ed i suoi inflessibili sforzi sono stati responsabili per la distruzione di alcune delle più valutate organizzazioni nemiche di spionaggio. L’abilità, la comprensione e gli instancabili sforzi del dott. Dosi hanno contribuito immensamente alla sicurezza dell’organizzazione militare alleata e la sua condotta è stata in accordo con le più alte tradizioni del servizio militare. Rimase, poi, in servizio fino al novembre 1947. La motivazione è stata pubblica sul bollettino “General order” n. 146. Il documento è in possesso della famiglia.
300 Risale al 16 agosto 1944 una richiesta avanzata dal maggiore Floyd Snowden diretta al Ministro dell’Interno per chiedere la riammissione in servizio.
301 Fondata nel 1923 aveva lo scopo di collegare le polizie di più paesi.
302 È lì che lo conobbe Indro Montanelli, che nel volume 'I busti al Pincio' riferisce che Dosi, «sovente andava a riferire all’Onu». In quel caso si trovava all’Onu davanti alla commissione narcotici rappresentando il governo italiano e difendendolo dall’accusa internazionale di favorire o non curarsi a dovere del traffico di stupefacenti. I. MONTANELLI, I busti al Pincio, Milano, Longanesi, 1956, p. 319.
303 La vicenda legata al recupero delle Carte Graziani, attualmente conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato, è molto articolata. Nel febbraio del 1955 Giuseppe Dosi contattò il Soprintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, Armando Lodolini, esprimendo la volontà di depositare sei fascicoli di carte appartenute a Rodolfo Graziani. Alla missiva (protocollo generale n. 413/96 del 28 marzo 1955) era allegato un elenco di consistenza di massima. Se ne fornisce qualche elemento. Oltre alle memorie redatte da Graziani da Addis Abeba, nelle carte si trova: numerosa rassegna stampa con commenti autografi di Rodolfo Graziani, Graziani carteggi vari di guerra, lettere autografe e telegrammi, carteggi con Pietro Badoglio, diplomi e riconoscimenti. Gli elementi per ricostruire il ruolo avuto da Giuseppe Dosi nel versamento delle carte Graziani in Archivio Centrale dello Stato sono stati possibili grazie alla disponibilità ed al confronto avuto con Margherita Martelli.
304 G. DOSI, II mostro… cit., p. 9.
Alessia A. Glielmi, Guida all’archivio del Museo storico della Liberazione e inventariazione del materiale documentario delle forze tedesche di occupazione, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2011-2012

lunedì 2 giugno 2025

Il governo Forlani affonda a causa dello scandalo della loggia massonica P2


I risultati delle politiche del 3 e 4 giugno 1979 lasciano trapelare due dati significativi: a) l’incalzante scontento degli elettori, che si registra con il 10% delle astensioni e le 840.000 schede bianche; b) il primo arretramento del Pci dal 1946, con il 30% dei voti che segna la perdita di quattro punti percentuali. Stabili, invece, Dc (38,3%) e Psi (9,8%) <281. Il risultato elettorale segna in maniera definitiva la fine del “compromesso storico”. Infatti, l’arretramento del partito comunista rende ancora più irreversibile il veto già posto dalla Dc a un ingresso dei comunisti al governo, che, come si è visto poc’anzi, è d’altra parte l’unica condizione a cui il Pci è disposto a mantenere l’alleanza con la democrazia cristiana. Si verifica quindi un ritorno alla conventio ad excludendum, sebbene, a differenza di quanto avvenuto in passato, le ragioni della scelta politica di esclusione dei comunisti non trovano più fondamento in una scelta dell’elettorato, bensì in una strategia politica riconducibile in toto ai partiti politici di maggioranza <282.
Il 27 giugno iniziano quindi le consultazioni del Capo dello Stato (si terranno ben tre cicli), che abbandona il principio della esclusione dai colloqui dei non parlamentari. E’ in questa fase che Pertini “comincia a coltivare dentro di sé un preciso disegno politico […]: la fine del monopolio democristiano alla guida del governo e l’avvento di un socialista a Palazzo Chigi” <283. A tal fine, il Capo dello Stato, dopo un primo tentativo Andreotti - il cui fallimento è principalmente dovuto al veto posto dai socialisti, che l’ex Primo Ministro si era inimicato per non aver consentito lo svolgimento delle elezioni europee nello stesso giorno di quelle politiche - convoca Bettino Craxi, che nel corso della campagna elettorale si era fatto portatore dell’esigenza di governabilità del Paese e aveva paventato l’ipotesi di un’alternanza alla guida governativa di socialisti e democristiani. Tuttavia, il tentativo di porre un socialista alla presidenza dell’Esecutivo si rivela prematuro: questo, infatti, si scontra con l’opposizione della Democrazia Cristiana, niente affatto disposta a cedere la poltrona della presidenza. In realtà, nella Dc c’è una corrente che, in contrasto con le posizioni della segreteria, è propensa a un riavvicinamento ai socialisti: è la corrente guidata da Forlani. Per tale motivo, Pertini chiede a Forlani di accettare l’incarico, che tuttavia rifiuta di formare un governo “conseguente a decisioni che avev[a] criticato nella direzione” del suo partito <284. Viene fatto quindi un tentativo con Filippo Maria Pandolfi, democristiano: egli redige anche una lista di ministri, ma ancora una volta i socialisti si oppongono fermamente e l’incarico non va in porto. E’ quindi il turno di Francesco Cossiga, cui Pertini conferisce l’incarico solo dopo essersi assicurato che non sarebbe arrivato l’ennesimo veto craxiano. Cossiga, costituito nell’agosto del 1979 un governo tripartito (Dc-Psdi-Pli e due ministri tecnici di area socialista voluti dai comunisti), si presenta al Parlamento millantando un “rapporto speciale” con il Capo dello Stato - il quale peraltro non smentisce, dando spago a tutta quella parte della dottrina che, come anticipato, riscontra nell’opera di Pertini un eccessivo allargamento dei poteri presidenziali - e riesce a ottenere la fiducia grazie all’astensione dei comunisti <285.
Alla crisi del I ministero Cossiga, “pseudo-parlamentarizzata” come quella di Andreotti IV mediante un dibattito parlamentare cui non segue alcuna votazione, seguirà un altro esecutivo Cossiga (Dc-Psi-Pri), che vede una maggiore partecipazione dei socialisti (aprile 1980). E’ in questa occasione che Pertini invia al neo-incaricato una lettera circa l’esercizio della facoltà di scelta dei ministri che l’art. 92 Cost. attribuisce al Presidente del Consiglio incaricato: Pertini invita Cossiga a effettuare la scelta “con rigore nell’interesse dell’efficienza del Governo che sta per nascere e in modo che possa essere facilitato al Presidente del Consiglio il compito costituzionale di assicurare l’unità di indirizzo politico e amministrativo del Governo”; “nella scelta dei ministri”, continua la lettera, “sarà necessario aver presente non solo la loro competenza, ma anche la loro moralità” <286.
Intanto, Arnaldo Forlani conquista la presidenza del consiglio nazionale democristiano e i rapporti di forza interni al partito cambiano: prevale infatti la corrente dei cc.dd. “preambolisti” di Forlani, promotori di un nuovo avvicinamento al Psi. Non a caso, quindi - dimessosi Cossiga a causa dei franchi tiratori, che dopo aver espresso voto favorevole alla conversione di un decreto su cui era stata posta la questione di fiducia, nella subito successiva votazione a scrutinio segreto fanno cadere il medesimo disegno di legge <287 - Forlani viene incaricato per la formazione di un governo in grado di continuare l’alleanza di centro-sinistra (Dc-Psi-Psdi-Pri) <288. Il governo è destinato a rimanere in carica sette mesi: sette mesi di fuoco, segnati dal terremoto in Irpinia e dal terrorismo incalzante. Ma il governo Forlani affonda a causa di una vicenda di portata, dal punto di vista politico, ancora maggiore, costretto a dimettersi (maggio 1981) a causa dello scandalo della loggia massonica P2 che coinvolge tre ministri, vari sottosegretari e molti parlamentari di Dc, Psi, Psdi e Pli. I tentativi di Forlani di scongiurare una crisi di governo vengono vanificati dal veto di Craxi, che presumibilmente scorge in questo momento di forte destabilizzazione della classe dirigente il passepartout per la fine del dominio democristiano e la conquista socialista della direzione governativa <289.
Dopo un primo tentativo di re-incarico di Forlani, vanificato principalmente dalle nuove intenzioni socialiste, l’incarico, anche in questo caso accompagnato dalla raccomandazione di tenere presente la “questione morale” <290, viene affidato al segretario repubblicano Spadolini, il primo laico della storia repubblicana a presiedere il Consiglio dei ministri. E’ la sconfitta della Dc, costretta a cedere il proprio ruolo di partito aggregatore in favore dell’avvento del pentapartito: Spadolini forma un governo Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli (28 giugno 1981), che sostanzialmente esclude dalla maggioranza soltanto Msi e Pci. La dichiarazione programmatica di Spadolini si fonda su quattro emergenze che il Paese deve affrontare: morale, economica, terroristica e internazionale <291. Anche in questa occasione, il Presidente della Repubblica spende qualche parola ritenuta “di troppo” da parte della dottrina: “Spadolini lavora con molta attenzione e passione ai problemi del Paese […] Vuol dire che ho scelto bene. Per me quello di Spadolini non è un Governo transitorio: spero anzi che sia un Governo di legislatura. Quando gli ho affidato l’incarico Spadolini ha promesso che se ci sarà crisi dovrà essere manifestata in Parlamento. Bisogna che i partiti escano allo scoperto […] Spadolini sa di essere sostenuto dal Quirinale” <292.
Spadolini il 7 agosto 1982 presenta le dimissioni a seguito del voto contrario della Camera (a scrutinio segreto) su un decreto in materia tributaria, che rappresenta soltanto la punta dell’iceberg di una serie di contrasti sulla politica economica governativa. Nonostante il voto contrario sia causato dai franchi tiratori della democrazia cristiana, è Craxi che, conseguentemente alla mancata approvazione del decreto, dichiara di ritirare la delegazione socialista dal governo. Segue una riedizione del governo precedente, che viene ribattezzato dai quotidiani “governo fotocopia” (23 agosto 1982): del resto, l’episodio si spiega sulla base della circostanza che il governo non aveva di fatto perso la fiducia dei partiti. Infatti, il voto contrario al decreto era stato strumentalizzato da Craxi per la realizzazione delle sue aspirazioni alla presidenza. Ma lo stesso Craxi, resosi conto dell’impatto che la determinazione di una crisi avrebbe avuto sull’opinione pubblica, si presta a conferire nuovamente l’appoggio al Governo. Se il governo Spadolini II si presenta come una mera riedizione del primo, ha però il merito di porre al centro del dibattito politico il tema delle riforme istituzionali, che nell’aprile del 1983 condurranno all’istituzione della prima commissione bicamerale per le riforme costituzionali <293.
[NOTE]
281 Cfr. A. Manzella, op. cit., p. 117; G. Mammarella - P. Cacace, op. cit., p. 180.
282 Cfr. A. Baldassarre, “Fase di transizione” o mutamento del sistema?, in Quaderni Costituzionali n. 2/1981, Bologna, il Mulino, pp. 330-331.
283 G. Mammarella - P. Cacace, op. cit., p. 180. Della stessa idea sembra essere Paolo Armaroli, che critica a Pertini il tentativo di riesumare una prassi prefascista in base alla quale l’incarico per la formazione del nuovo governo
spetterebbe a chi ha causato la crisi del precedente (cfr. P. Armaroli, op. cit., pp. 586-587).
284 La dichiarazione di Forlani è riportata in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 40.
285 Cfr. A. Baldassarre - C. Mezzanotte, op. cit., pp. 241-243; G. Mammarella - P. Cacace, op. cit., pp. 180-182; P. Armaroli, op. cit., pp. 583-584; 587-588. Per la ricostruzione dell’iter di formazione del governo, cfr. ASPR, Ufficio
per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, buste 40-41.
286 Lettera di Pertini a Cossiga del 31 marzo 1980, in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 42.
287 L’allora art. 116 r.C. ammetteva la possibilità per il governo di porre la questione di fiducia su un progetto di legge di un solo articolo, “salva la votazione finale del progetto a scrutinio segreto” (cfr. P. Armaroli, op. cit., p. 589).
288 E’ in occasione dell’insediamento del governo Forlani (ottobre 1980) che viene dato avvio alla prassi della lettura delle dichiarazioni programmatiche del governo a un solo ramo del Parlamento, con la successiva trasmissione del testo all’altro ramo.
289 Cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 43; F. Savastano, Spadolini e la fine della dinastia Dc a Palazzo Chigi, in Aa. Vv., 2013, pp. 1-3.
290 G. Mammarella - P. Cacace, op. cit., p. 185. Sul tema cfr. E. Berlinguer, La questione morale, La storica intervista di Eugenio Scalfari, Reggio Emilia, Aliberti Editore, 2012).
291 Cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, buste 44-45.
292 Intervista a Sandro Pertini, pubblicata su Oggi del 7 ottobre 1981, riportata in parte da P. Armaroli, op. cit., p. 581. Anche la stessa procedura di formazione del governo Spadolini non è rimasta avulsa dai commenti della dottrina sulla centralità del ruolo del Capo dello Stato. In effetti, l’iter di formazione del governo presenta una circostanza inedita: Spadolini accetta immediatamente l’incarico (18 giugno), ma aspetta dieci giorni per presentare la lista dei ministri (28 giugno), probabilmente temendo che, se avesse aspettato, le consultazioni elettorali previste per il 21 e il 22 giugno avrebbero acuito la litigiosità dei partiti e vanificato il tentativo di formazione di un governo. Paolo Armaroli, in particolare, pur escludendo la natura palatina del governo Spadolini, pone l’accento sul ruolo fondamentale del Capo dello Stato, “paladino della stabilità ministeriale”, nella gestione della crisi governativa: in sostanza, come dichiarato dallo stesso Pertini in un’intervista, il governo Spadolini è “sostenuto dal Quirinale”. In questo modo, tuttavia, si snatura l’essenza stessa del regime parlamentare, in quanto la fiducia del parlamento diviene una mera “comparsa” (P. Armaroli, La spada di Damocle del parlamentarismo, in Il Tempo del 22 dicembre 1981, consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 44).
293 In questo contesto, Spadolini rivendica la titolarità della scelta dei ministri in capo al Presidente del Consiglio incaricato, e non ai partiti della maggioranza, che di fatto sono sempre stati i veri designatari delle personalità che avrebbero ricoperto le poltrone ministeriali. Cfr. ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 45; F. Savastano, op. cit., pp. 11-14. Sull’andamento delle riforme cfr. E. Cheli, Crisi di governo e problemi istituzionali, in il Messaggero del 24 novembre 1982 (consultabile in ASPR, Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali, Crisi di governo-Diari, busta 46).
Elena Pattaro, I "governi del Presidente", Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, 2015 

domenica 25 maggio 2025

Quando Dario Fo e Franca Rame abbandonarono Canzonissima


Gli attori milanesi Dario Fo e Franca Rame, sensibili ai problemi della realtà operaia, nel corso della conduzione del varietà canoro del sabato sera Canzonissima (Programma Nazionale, 1958-1963) nel 1962, scrivono uno sketch su un costruttore edile che si rifiuta di dotare di misure di sicurezza la sua impresa. Giocata su battute semplici, la satira fa però emergere con evidenza la drammaticità della condizione lavorativa. La commissione di censura non ne coglie - o, al contrario, la coglie fin troppo bene - la forza dirompente; tuttavia le notizie sulla gag scatenano le proteste della parte più reazionaria dell’Italia e il plauso di quella progressista. Dario Fo e Franca Rame abbandonano la trasmissione e l’opinione pubblica si divide, con numerose prese di posizione sui giornali per l’una come per l’altra parte. Vi sono anche interrogazioni parlamentari sulla funzione di servizio pubblico della televisione.
Nella prima monografia (del 1977) della collana “Il Castoro” dedicata a Dario Fo, Lanfranco Binni non manca, con parole piuttosto esplicite, di soffermarsi, all’interno di un’attività per lo più teatrale, sulla collaborazione televisiva di Fo. A creare dissenso all’interno della festosità rassicurante della trasmissione è già la sigla, dove la società italiana si presenta per gruppi e cori, reggendo in mano cartelli: sono disoccupati, emigrati, operai in sciopero, carcerati, giovani che intonano la gioiosa "Su cantiam":
"Nell’Italia che ancora non ha ben compreso la portata reale del primo centro-sinistra, già la sigla della trasmissione opera un’azione di rottura, provocando simpatie a sinistra e attacchi da destra. Per gli spettatori di una televisione caratterizzata dal più squallido conformismo e dalla più servile osservanza nei confronti del potere politico ed economico, è senz’altro singolare ascoltare una sigla che allegramente dice, su sottofondo di musica da circo: «Popolo del miracolo / miracolo economico / oh popolo magnifico / campion di libertà» […] Attraverso il gioco ironico fra serio e non serio, attraverso le battute sulla stessa televisione, su industriali che amano i «loro» operai, trasmissione dopo trasmissione passano frecciate sempre più caustiche ed esplicite (che incontrano il favore del grande pubblico popolare) finché la censura televisiva non interviene pesantemente sul testo di una trasmissione: proprio mentre nel paese è in corso una dura lotta degli edili (che vede duri scontri con la polizia a Roma), Fo sottopone alla commissione televisiva uno sketch sulle speculazioni degli impresari edili. Il copione viene fatto a pezzi. Dario Fo e Franca Rame respingono il ricatto, e denunciano la repressione dell’ente di stato nei loro confronti <21.
Da notare, inoltre, come lo stesso Binni sottolinea che, nello stesso anno della vicenda, il 1962, Fo comincia la collaborazione con il «Nuovo Canzoniere Italiano», sorto su iniziativa di un gruppo di intellettuali, fra cui Gianni Bosio, già animatore della rivista Movimento operaio, «proprio mentre a Torino Raniero Panzieri organizza la rivista Quaderni rossi». Sono ancora una volta i riferimenti culturali dell’operaismo impegnato a contrapporre alla politica culturale interclassista della sinistra italiana un’azione provocatoria e a contribuire alla costruzione di un’egemonia culturale di classe del movimento operaio. E, come già abbiamo accennato nel capitolo precedente, la strategia utilizzata sarà quella dell’esplorazione e della riscoperta della tradizione musicale popolare.
Tornando a Canzonissima, Chiara Valentini ricostruisce così i fatti inerenti l’episodio: "Due giorni dopo, il 26 novembre, mentre sta facendo gli ultimi preparativi per andare in onda, Fo riceve una singolare richiesta da Roma: trasmettere in bassa frequenza le prove dello sketch. È una pretesa abbastanza curiosa, visto che le scenette previste per la serata sono già state discusse e ritoccate fino alla nausea. Delle tre che dovevano andare in onda una, sulle ragazze che arrivano in città a far le cameriere e finiscono nelle mani di brutti tipi, è stata addirittura abolita. È passata la seconda, su una coppia di svitati. E la terza, la più sostanziosa, è già stata manipolata. Racconta di un imprenditore edile che quando viene a sapere che un suo operaio è caduto da un’impalcatura si dispera, elenca tutte le misure di sicurezza mai rispettate, promette di cambiare. Ma appena arriva la notizia che l’incidente è stato piccolo si rimangia tutto. Fo non ha ancora finito di esibirsi nelle smorfie e nelle piroette del padrone di cattiva coscienza, che il telefono sta già squillando. Anche se rimaneggiata la scenetta non può essere trasmessa: è in corso nel paese uno sciopero degli edili, è stata anche la mediazione del governo, un ente pubblico come la RAI non può interferire occupandosi dell’argomento. Minacce, preghiere, insistenze di Fo, che convoca anche i suoi avvocati, sono inutili <22.
La puntata prevista (l’ottava) di Canzonissima andrà in onda in forma ridotta (mezz’ora) e incompleta, ossia mantenendo esclusivamente le canzoni già registrate; così per le puntate successive, salvo la finale del 6 gennaio condotta da Corrado. Successivamente, si scatena una piccola bagarre nazionale, fatta di interrogazioni parlamentari, di convocazioni urgenti della commissione di vigilanza Rai (da parte del comunista Davide Lajolo), di cause e denunce; Fo e Rame citano la Rai per danni, la televisione a sua volta fa loro causa, buona parte dell’opinione pubblica nazionale è loro favorevole, buona parte dei giornali dedica al caso editoriali e commenti; il trambusto che ne segue è tale che il premier Amintore Fanfani sostituisce il ministro delle Comunicazioni Guido Corbellini con Carlo Russo. L’episodio marca definitivamente la carriera dei due attori che da quel momento diventano non solo popolari presso ampie masse di pubblico, ma soprattutto acquisiscono quella simbolicità contestataria (l’apice della quale è raggiunto a partire dal Sessantotto) che li caratterizzerà fino alla fine delle loro carriere.
Un articolo di Aldo Grasso <23 ha riportato il canovaccio dello sketch (scritto con Leo Chiosso e il regista Vito Molinari) mai andato in onda:
«IMPIEGATO: Ecco il preventivo delle strutture di protezione per gli operai. Sono sei milioni compresa la rete. Facciamo l’ordinazione?
INGEGNERE: L’ordinazione di sei milioni, ma dico siamo rinscemiti. Ma come io sto qui che ho una faccia un po’ giù che avrei bisogno di riposarmi per far funzionare ’sta baracca... e tu mi vuoi far buttar via sei milioni. Per chi poi? Ma dico, da quando in qua si usano i poggiamano, le balaustre?
IMPIEGATO: Ma veramente le altre imprese...
INGEGNERE: Le altre imprese, le altre imprese. Basta con ’ste ciance.
IMPIEGATO: Allora non se ne fa niente... nemmeno della rete?
INGEGNERE: La rete? Ma uè, e che, siamo al circo equestre... con la rete e senza rete? Ma cosa vuoi che ci metta, anche la banda, il trapezio e le ballerine sul filo? Così, tanto per fare un po’ di scena? Ma basta, andiamo! Siamo seri.
RAGAZZA: Antonio io sono ancora qui.
INGEGNERE: Bel stellin... Guarda lei. Scusa di prima sai... ma ecco è stato un momento di debolezza. Ma adesso guardami, sono ritornato un uomo. Vieni vieni che ti porto dal ciafferaio.
RAGAZZA: Da chi?
INGEGNERE: Dal gioielliere a riprenderti un bell’anellino e che crepi la miseria... per la miseria.
RAGAZZA: Oh caro!
INGEGNERE: Ehi, fai avvertire gli operai che il primo che casca gli spacco il muso.»
Al di là dell’eco che la vicenda ha riverberato e del mero valore di caso storico, è di nostro interesse rilevare come la questione delle morti sul lavoro e della sicurezza per prevenirle - già presente in filigrana, come abbiamo visto, nelle prime inchieste paleotelevisive - costituisca un oggetto di discorso spinoso se non tabù, persino sottoforma di accenno all’interno di uno sketch teatrale.
Quando, nel 1975, Dario Fo si ripresenterà negli studi Rai per presenziare nel corso di una Tribuna elettorale, in quanto candidato di Democrazia Proletaria, comincerà il proprio intervento proprio partendo dai 13 anni di forzata assenza dalla televisione per una vicenda che non mancherà di riassumere ai telespettatori, entrando nel merito delle motivazioni e dei temi.
Un’ultima notazione è necessaria a proposito di un altro contesto, quello radiofonico. Nel 1953, nel corso del varietà radiofonico Chicchirichì, l’esordiente Fo aveva interpretato, su testi di Umberto Simonetta, il personaggio dell’impiegato Gorgogliati, ponendosi in controtendenza rispetto alle raffigurazioni offerte dal settore dell’entertainment; è infatti, quella dell’impiegato, una figura sociale e professionale che, come in parte abbiamo potuto notare, risulta pressoché assente dalle produzioni Rai.
[NOTE]
21 L. Binni, Dario Fo, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp. 28-29.
22 C. Valentini, La storia di Dario Fo, Milano, Feltrinelli, 1977, Seconda edizione riveduta e ampliata 1997, p. 82.
23 A. Grasso, Dario Fo e «Canzonissima 62», censura che meriterebbe una fiction, in «Corriere della Sera» del 14 ottobre 2016.
Matteo Macaluso, Forme e narrazioni del lavoro nelle produzioni Rai, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2025

 

martedì 20 maggio 2025

Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti


Si sta aprendo [maggio 1945] infatti già un altro terreno per lo scontro sociale che, accanto alla questione del dualismo di potere, riempirà i contenuti della politica del conflitto in questo periodo: quello dei criteri della Ricostruzione, nei termini dei soggetti sociali che dovranno guidarla e di quelli che dovranno invece fare i sacrifici necessari. Passato infatti il periodo iniziale in cui il padronato sostanzialmente ignora la presenza degli organismi dei lavoratori, già da giugno si avviano a livello centrale e periferico contrattazioni e accordi che mirano a neutralizzarne il peso politico acquisito, riequilibrandolo a favore degli imprenditori. Dal 2 giugno i CLN sono stati depotenziati e trasformati in organismi puramente consultivi, senza alcun potere effettivo.
Tuttavia nei mesi successivi lo spontaneismo e l’organizzazione autonoma nei luoghi di lavoro, prodotti dai venti mesi della Resistenza, continuano a dimostrarsi centrali nel contesto meneghino, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro. Fatta eccezione per la FIOM, dove la maggior forza dei metallurgici e la loro lunga tradizione politica permette una rapida riorganizzazione, gli altri settori formano spontaneamente decine di Comitati di iniziativa sui luoghi di lavoro, premessa alle strutture di categoria sindacale: nel solo mese di maggio si registrano, nelle poche fonti (principalmente l’Unità) attente ad osservare il
fenomeno, la fondazione di Comitati di iniziativa dei tipografi e dei librai, Comitati per la creazione di un sindacato degli idraulici e degli elettricisti, parrucchieri, autisti e persino compositori di musica leggera; a metà mese si ricostituisce anche la Federterra (sebbene questa, come vedremo, conosce uno sviluppo complesso nel milanese), mentre successivamente nascono Comitati di iniziativa presso tessili, chimici, edili, lavoratori del marmo e alimentaristi, sarti, orafi e argentieri, lavoratori della scuola privata e dipendenti pubblici. A giugno nascono i Comitati per la ricostruzione sindacale dei dipendenti degli uffici finanziari, del settore alberghiero, degli addetti allo spettacolo postatelegrafi. <328
La ricostruzione sindacale a Milano inizia dunque all’esterno della Camera del Lavoro, per poi successivamente affiliarsi ad essa. È un processo che esprime quella volontà di far da sé propria della tradizione operaista e che ricorda, osservandola da vicino nelle categorie che per prime danno vita ai Comitati di iniziativa (metallurgici e tipografi), la nascita delle prime società di mutuo soccorso e resistenza. Il vertice camerale, rappresentato in questo momento dal comunista Giuseppe Invernizzi, nonostante la ferrea logica centralizzata, accetta senza intromissioni questa riorganizzazione spontanea che supplisce alla mancanza di quadri e alle insufficienze strutturali dell’immediato dopoguerra. Nota Torre Santos: "Il risultato in ogni modo era una struttura relativamente improvvisata, adattata alla realtà delle singole categorie - e dunque anche all’eredità della clandestinità sulle stesse -, che sarebbe comune ad altre realtà del Nord". <329 Peculiarità già notata a suo tempo da Invernizzi: "Le forme di organizzazione seguite a Milano non sono evidentemente quelle di tutta l’Alta Italia. È a nostra conoscenza che in altre province si sono trovate altre soluzioni ai problemi organizzativi". <330 Al tempo stesso, sono le Commissioni Interne già operanti durante la guerra a svolgere il ruolo che più tardi assumeranno le federazioni di categoria, parallelamente a una funzione di riequilibrio di potere: "L’immediata costituzione fin dai giorni successivi alla Liberazione impone loro l’onere di formulare autonomamente le nuove regole del gioco sindacale all’interno dell’azienda, senza poter fare affidamento su un sistema di contrattazione esterno o su altri punti di riferimento normativi o istituzionali, contando così solo sui rapporti di forza che si trovano ad esprimere. […] Con l’acquisita libertà di organizzarsi, dopo il 25 aprile, la centralità delle commissioni interne si esplicita pienamente: esse si caratterizzano anche come organismi a stretto contatto con i lavoratori, capaci di intervenire sui mille problemi che emergono dalla vita quotidiana di fabbrica". <331
La situazione disastrosa dell’economia, la grande miseria delle classi subalterne urbane e rurali alla fine della guerra, fanno sì che la questione della sopravvivenza resti uno dei temi centrali di continuità nel conflitto sociale anche nel dopo-Resistenza. Questione che in questi primi tempi si cerca di risolvere autonomamente, con un’organizzazione precipua in ogni fabbrica, ma ispirata dai medesimi principi di autosufficienza; in questo la figura del collettore sindacale (spesso coincidente con il collettore di partito, intendendo qui il PCI, l’unico che avesse nella sua tradizione culturale-organizzativa l’esperienza delle cellule), come agente di raccolta delle necessità dei lavoratori e loro rappresentante di fronte al proprietario, è peculiare della cultura operaia presente nelle fabbriche lombarde (in particolare di Milano, Brescia e rispettive province). Così Angelo Fumagalli, classe 1912, nel direttivo della FIOM milanese e operaio della Ercole Marelli di Sesto, ricorda i motivi alla base degli scioperi del dopoguerra: "Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c’era bisogno di volantini, un’assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Prima le indennità, disagio, fatica, calore. L’indennità di presenza l’avevamo già conquistata durante la guerra, e da lì era cominciato il discorso. Poi il cottimo, che in alcuni casi superava anche di due volte la paga base. Ma il cottimo, per [gli ultimi] arrivati, non giocava molto: ci voleva del tempo per raggiungere un certo tetto. Allora sotto col passaggio di categoria, gran battaglia per la riqualificazione generale. […] Si era usciti dalla guerra con la fame, una fame vecchia. […] Si esce dalla guerra e il problema non cambia: fame era e fame resta. La prima grossa battaglia è stata quella della mensa, e non è stato facile spuntarla. […] Dopo la guerra erano i bisogni elementari quelli che urgevano. Allora il modo di vivere era semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti". <332
Battaglia per i bisogni elementari dunque, alimentazione su tutto, contro la disoccupazione e per condizioni di lavoro migliori, come ad esempio avviene a Lodi dove i lavoratori industriali dichiarano uno sciopero a tempo indeterminato il cui motivo è la mancanza di generi alimentari. Ma sono vertenze dove molto forte è anche il contenuto politico, legati alla defascistizzazione dei luoghi di lavoro. Da fine maggio ad agosto la città è attraversata da intense ed estese agitazioni sociali, non solo degli operai di fabbrica, ma anche di massaie e impiegati pubblici. Il picco viene raggiunto a metà giugno, quando una grande ondata di conflitti coinvolge tutta la Lombardia e in particolare gli stabilimenti milanesi: si sciopera contro la mancata condanna a morte del dirigente fascista Carlo Emanuele Basile, ma anche per chiedere parità tra salario e costo della vita, calmiere sui prezzi, controllo dei lavoratori su costi di vita e borsa nera, inquadramento dei partigiani nelle forze di polizia. Appare uno strettissimo nesso tra l’epurazione (dei fascisti, identificati con gli affamatori del popolo) e la ricostruzione economica, basata sul principio  dell’autodeterminazione dei lavoratori.
I conflitti di maggio e soprattutto giugno appaiono ancora difficilmente controllabili dalla Camera del Lavoro: per due volte i vertici camerali diramano comunicati in cui invitano i lavoratori a cessare lo sciopero (divenuto quasi generale ed esteso dal capoluogo alla provincia), senza ottenere alcun risultato. "L’azione della Camera del lavoro tenterà di trasformare la spinta dei lavoratori in miglioramenti concreti, che rafforzino sia il ruolo del sindacato tra le sue basi sia la sua forza contrattuale verso la controparte imprenditoriale. Tale impostazione aveva però bisogno di una premessa fondamentale: il sindacato doveva diventare l’interlocutore unico e in questo senso doveva dimostrare la sua capacità di riuscire a controllare il conflitto. E ciò non era semplice nel giugno 1945; il 19 giugno, la Camera del lavoro di Milano invita i lavoratori alla cessazione degli scioperi […]. L’appello non ottiene i risultati previsti, anzi, il 20 giugno è una giornata di forte conflittualità. […] La Camera del lavoro di Milano emette un nuovo appello per la cessazione dei conflitti che per la seconda volta non riesce a fermare un’ondata di scioperi che invece si estende alle province limitrofe […]". <333
I vertici camerali, formati in questo momento da esponenti del mondo operaio (soprattutto nelle sue componenti comunista e socialista), riescono a ottenere importanti risultati e grande credito nella base altamente instabile: accordi sullo sblocco salariale e sul controllo dei prezzi, attraverso la creazione dei Consigli di gestione e il temporaneo rafforzamento dei Cln aziendali; il cosiddetto "Accordo di Milano" siglato in doppia ripresa il 29 maggio e il 23 giugno, da Camera del Lavoro e Unione Industriali, sull’indennità di contingenza. I successi ottenuti causano paradossalmente alta instabilità nelle strutture sindacali legate alla Camera del Lavoro meneghina, a causa soprattutto della prevista divisione in tre zone della provincia di Milano per l’applicazione dell’indennità: le Camere succursali e le ramificazioni periferiche chiedono parità di trattamento e attuazione immediata del programma; la protesta è spia di un contesto non ancora centralizzato e anzi dove le spinte all’autonomia sono molto forti, soprattutto nei confronti del vertice milanese, oggetto della protesta assieme agli industriali: "Catalizzatori delle proteste saranno le commissioni interne, che in questo modo mostrano nuovamente il loro carattere di contropotere nei confronti della Camera del lavoro e la loro vicinanza alla base, espressa in numerose assemblee. Dalle fabbriche, il malessere si estende alle strutture sindacali, in particolare alle Camere del lavoro succursali più importanti, che criticano aspramente l’accordo". <334
[NOTE]
328 Cfr. J. Torre Santos, op. cit., pp. 49-51
329 Ibidem, p. 52
330 G. Invernizzi, Proposta di una alleanza del lavoro, p. 27, cit. in J. Torre Santos, op. cit., p. 52
331 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, pp. 64-65, Ediesse 1999
332 G. Manzini, Una vita operaia, pp. 77-78, Archivio del Lavoro 2007
333 J. Torre Santos, op. cit., pp. 77-78
334 Ibidem, p. 80
Elio Catania, Il conflitto sociale: "motore della Storia" o "tabù" storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

lunedì 12 maggio 2025

Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare


In un rapporto politico del 15 novembre 1940 al Ministero affari esteri redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, egli sottolinea che “(...) le disposizioni repressive contro il comunismo, emanate dopo lo scoppio della guerra, nel 1939, rimangono pienamente in vigore e quindi ogni manifestazione del partito deve considerarsi illegale e clandestina; pur tuttavia le autorità tedesche, all'inizio dell'occupazione, non soltanto non hanno ostacolato la propaganda comunista, ma l'hanno tacitamente favorita, permettendo anche il ritorno in Francia di Thorez e Duclos che erano stati condannati in contumacia dai tribunali militari francesi. Poiché il partito aveva una rispondenza innegabile fra le masse operaie, si sperava probabilmente che la sua attività si sarebbe inquadrata nelle direttive germaniche (…); si è cercato inutilmente di orientare gli operai verso la lettura del nuovo quotidiano 'France au travail' a carattere estremista e sovversivo; ma strettamente controllato dai tedeschi. All'inizio ha funzionato e le masse operaie si sono avvicinate al movimento verso il quale andavano le proprie simpatie e 'France au travail' ha raggiunto una tiratura di oltre 250.000 copie. Senonché ben presto l'attività comunista è sfuggita dalle mani dell'autorità d'occupazione e la sua propaganda si è orientata in senso assolutamente contrario a quello desiderato; a questo punto le autorità tedesche hanno tolto non soltanto ogni appoggio, ma hanno escluso tra l'altro tutti i militanti o simpatizzanti comunisti dalla stampa della zona occupata, hanno cominciato a reprimere in forma sempre più severa ogni tipo di manifestazione marxista. Gli arresti si sono susseguiti agli arresti, la polizia tedesca ha coordinato la propria azione con quella francese e particolari accordi sono stati presi anche con la zona libera per provvedere sempre più efficacemente all'azione repressiva del comunismo. Malgrado ciò l'influenza del partito comunista continua ad esercitare saldamente, soprattutto nelle masse industriali della zona occupata; manifesti, opuscoli, copie dell'Humanité, stampate alla macchia, vengono distribuite ad onta degli arresti e delle severe repressioni.” <190
Dal 20 giugno 1940 a Parigi, la direzione del PCF si ricostituisce con Duclos, Tréand, responsabile dei quadri, e Jean Catelas, deputato nella zona della Somme, e si intraprendono a Parigi, col mandato dell'Internazionale Comunista, delle trattative con i tedeschi, nella persona di Otto Abetz, l'ambasciatore tedesco a Parigi, per ottenere la comparsa legale del giornale l'Humanité. Il PCF non adottò alcun atteggiamento ostile verso l'occupante e durante tutto il periodo delle trattative, fino alla fine di agosto 1940, non vi è nessun attacco nemmeno nei numeri clandestini de l'Humanité. In cambio Otto Abetz libera più di 300 comunisti arrestati sotto la III Repubblica morente. Parallelamente nei comuni limitrofi alla capitale vengono organizzate delle manifestazioni per esigere il reinsediamento dei sindaci decaduti e il riconoscimento degli ex leader sindacali comunisti. Abetz afferma in una nota del 7 luglio 1940 che l'intento dei tedeschi è quello di accattivarsi la fiducia delle masse intrise di marxismo e di far assumere ai comunisti la responsabilità della gestione municipale nei loro vecchi comuni. Tali intenti non furono condivisi da molti militari tedeschi e le trattative alla fine furono un fallimento. Da parte della direzione comunista, gli obiettivi erano quelli di sfruttare tutte la vie legali, nell'illusione di intravedere alcune prospettive offerte dal vuoto politico consecutivo alla sconfitta, e nella visione di una interpretazione ampia del patto Molotov-Ribbentrop. <191
Il testo de “l'Appel du 10 juillet 1940” diffuso dal PCF e firmato da Jacques Duclos e Maurice Thorez (allora a Mosca, dove arrivò nel novembre 1939) oltre a non comprendere nessun attacco contro i tedeschi non precisa che debbano essere sviluppate delle azioni contro le forze di occupazione. Il partito sul momento si occupò della propria ricostruzione, e della difficile situazione economica e della sofferenza degli operai parigini. Paradossalmente il PCF si pose sulla stessa linea politica di Vichy: accetta quindi la sconfitta e si occupa della ripresa economica.
Fino al giugno 1941 il PCF avrebbe definito la guerra come guerra imperialista dalla quale le forze rivoluzionarie dovevano astenersi, la principale lotta da portare avanti era quella contro il capitale e contro la sua classe borghese responsabile del disastro che si è abbattuto sulla Francia.
L'atteggiamento verso i tedeschi a partire dalla fine di agosto 1940 cambia, si rompe definitivamente ogni contatto con l'ambasciata del Reich e da ottobre i tedeschi danno il loro consenso all'operazione lanciata dalla polizia francese contro i comunisti della Senna: più di 300 persone furono arrestate nelle proprie case, per lo più vecchi eletti e militanti sindacalisti, alcune settimane più tardi l'incontro di Pétain con Hitler a Montoire, il 24 ottobre 1940, sancì la collaborazione franco-tedesca.
L’impatto dei comunisti sulla popolazione parigina è stato notevole negli anni dell'occupazione: hanno saputo parlare delle difficoltà insormontabili dei cittadini e hanno dato prova, nell’apatia generale dei primi mesi di occupazione, di una sorprendente attività. I volantini comunisti denunciano le insufficienze di vettovagliamento, reclamano dei sussidi più alti per i disoccupati e per le mogli dei prigionieri, preconizzano la distribuzione di zuppe popolari, protestano contro l’aumento dei prezzi e il blocco dei salari; di fronte al silenzio della stampa autorizzata, la stampa clandestina comunista, la sola importante fino al ’42, esprime e sostiene le rivendicazioni popolari.
Inoltre il partito cerca di inquadrare la popolazione parigina, creando dei “comitati di disoccupati”, oppure a lato dei sindacati legali istituisce dei “comitati di fabbrica”, organizza poi buona parte degli emigrati, in primo luogo gli antifascisti. <192
Promuove le azioni di resistenza: sabotaggi, manifestazioni, attentati, scioperi. In un rapporto politico dell'Ambasciata italiana del novembre 1940 riguardo al partito comunista si riporta che nel settembre 1940, all'inizio delle restrizioni alimentari, in alcuni quartieri popolari (Montmartre, Mouffetard) e nei comuni di Gennevillier, Pantin, la Plaine Saint-Denis, si sono avute delle agitazioni. <193
Per riuscire a sopravvivere sotto l’occupazione occorreva possedere numerose carte rivestite di un timbro ufficiale: la carta d’identità, la carta di alimentazione nonché i documenti ordinari dello stato civile, dei certificati di smobilitazione, di residenza e di lavoro, delle autorizzazioni per potere circolare (la notte, in macchina, in bicicletta). In quanto ai documenti tedeschi, essi erano vantaggiosi in caso di controllo, ma per essere imitati, dovevano essere redatti in carattere gotico. I gruppi della resistenza si dotarono quindi di numerosi atelier per la fabbricazione di tali documenti. Una delle maggiori operazioni della resistenza fu la fabbricazione e l’attribuzione di documenti falsi per coloro che erano perseguitati dall’occupante: ebrei, prigionieri di guerra evasi, spagnoli repubblicani, tedeschi antinazisti e altri stranieri in situazione irregolare, resistenti braccati. Il loro numero andava crescendo di giorno in giorno così che una vera industria di falsificazione nacque e prosperò a Parigi.
I comunisti organizzarono delle manifestazioni per sfruttare i numerosi motivi di scontento, e volendo coinvolgere tutta la popolazione invitarono le mamme e le casalinghe a reclamare con forza e quotidianamente: pane, latte, scarpe, vestiti e a protestare contro l’aumento dei prezzi; gli operai ad esigere migliori condizioni di lavoro e un aumento dei salari. Il partito, per la Commemorazione di Valmy, il 20 settembre 1942 distribuì decine di migliaia di volantini contenenti parole d’ordine destinate alla folla. Il 13 giugno 1943 più manifestazioni hanno luogo, ad intervalli ravvicinati, in alcuni paesi della periferia parigina nonché in città. Il 13 agosto del ’41 a Saint-Lazare sfilò un corteo che sfociò in un conflitto a fuoco con la polizia, ci furono numerosi arresti e cinque persone furono fucilate.
Un’azione di massa contro i nazisti è lo sciopero, proibito sia dall’occupante che dal governo collaborazionista di Vichy, era doppiamente illegale e pericoloso, inoltre era difficile da organizzare poiché il sindacato ufficiale si opponeva. I comunisti, per convincere gli operai a scioperare pongono l’accento sul fatto che i nemici da combattere non erano solo Vichy ed i tedeschi ma anche il capitalista, il padrone che con loro faceva buonissimi affari. La stampa comunista clandestina ripete con fervore che: “Lo sciopero è un atto patriottico che ogni francese degno di questo nome non può che approvare”. <194 Il partito, che ha ben presente l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche del 1936, si prefigge come obiettivo finale lo sciopero generale ma questo andava preparato attraverso la ripetizione di scioperi più piccoli e brevi. Gli scioperi hanno delle valide motivazioni come ad esempio il rifiuto dell’obbligo di andare a lavorare in Germania, ma vi furono anche scioperi in giorni simbolici come il primo maggio, il 14 luglio, l’11 novembre. Gli arresti sul lavoro da parte della polizia tedesca furono numerosi soprattutto a partire dal ’42. Gli scioperi furono una pratica di resistenza usata soprattutto dai comunisti. Nel maggio '41, in un rapporto politico il Console [d'Italia] Orlandini parla della preoccupazione delle autorità tedesche verso il movimento comunista che è forte e violento forse più in provincia che a Parigi, nel nord e sulle coste dove organizza scioperi e atti di sabotaggio. <195
Con l'attacco del giugno 1941 all'Unione Sovietica, la propaganda riprende ancora più forza e vigore e l'organizzazione comunista in Francia, disciolta ma mai scomparsa, è la sola vivente e attiva, così si esprimerà sempre Orlandini parlando della situazione politica dopo l'inizio della campagna di Russia. <196 Dopo l’attacco della Wehrmacht all’URSS, divenne ancora più evidente l'importanza di sabotare i nazisti e l'economia di guerra, era quindi necessario ridurre le fabbricazioni francesi a beneficio dei tedeschi, paralizzare il lavoro delle industrie francesi, deteriorare le macchine, frenando i trasporti verso la Germania, creare agitazione sui cantieri. Ogni sabotatore preso sul fatto, rischiava la fucilata, la deportazione e la tortura. Per i comunisti, a differenza di altri movimenti resistenziali, il sabotaggio contro la macchina da guerra tedesca deve interessare chiunque e deve avvenire in ogni momento. Ognuno nel suo ambiente deve passare all’azione, “lavorare significava produrre con coscienza del materiale difettoso”. <197 Il numero di sabotaggi, durante l’occupazione tedesca fu enorme, una buona parte furono effettuati dai tre gruppi comunisti raggruppati nell'Organisation Spéciale', le OS francesi, direttamente collegate al PCF, gli OS che provenivano dagli stranieri legati al PCF tramite la MOI, le OS-MOI, e le giovani formazioni comuniste denominate dopo la guerra, Bataillons de la jeunesse. <198 In seguito i gruppi dell'OS sarebbero diventati i Franc-tireurs e partisans francesi, FTPF, e stranieri, FTP-MOI.
[NOTE]
190 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48 Rapporto redatto dall'osservatore sociale Gino Manfredi, pp. 6-7.
191 D. Peschanski, Les avatars du communisme français, de 1939 à 1941, in J.P. Azéma, F. Bédarida, La France des années noires, Paris, Seuil, 2000, pp. 418-420.
192 H. Michel, Paris résistant, Editions Albin Michel, Paris, 1982, pp. 34-35.
193 MAE, Affari Politici 1931-1945, Rapporti politici, Politica interna ed estera 1940, b. 46.
194 H. Michel, op. cit., p. 173.
195 MAE, Affari politici 1931-1945, Rapporti politici dalla CIAF, b. 48, 13 maggio 1941.
196 Ivi.
197 H. Michel, Paris résistant, op. cit., p. 160.
198 D. Peschanski, La confrontation radicale Résistants communistes parisiens vs Brigades spéciales, in F. Marcot e D. Musiedlak (a cura di), Les Résistances, miroir des régimes d’oppression. Allemagne, France, Italie, 2006, p. 7 actes du colloque international de Besançon organisé du 24 au 26 septembre 2003 par le Musée de la Résistance et de la Déportation de Besançon, l'Université de Franche-Comté et l'Université de Paris X, Besançon: Presses universitaires de Franche-Comté, 2006, p. 341.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013



domenica 27 aprile 2025

Il nome di Guillou comparve nell’istruttoria per la strage di Brescia


Il 28 maggio 1974, alle 10.12, nella centralissima piazza della Loggia di Brescia, dove era in corso un comizio dei sindacati contro la violenza dell’estrema destra costata la vita, nei giorni precedenti, a un ragazzo, Silvio Ferrari, una forte esplosione proveniente da un ordigno collocato in un cestino della spazzatura provocò la morte di otto persone e un centinaio di feriti. In un momento in cui stava già emergendo chiaramente una pista di estrema destra riguardo alla strage di piazza Fontana e visto il contesto dell’attentato (una manifestazione contro la «violenza fascista») le indagini relative a piazza della Loggia si indirizzarono verso gli ambienti della destra eversiva, portando alla formulazione della prima istruttoria. Il processo vide, nel 1979, la condanna degli esponenti di estrema destra Ermanno Buzzi, Angelino Papa e Fernando Ferrari, insieme ad alcuni imputati minori. Buzzi, condannato all’ergastolo, fu assassinato nel carcere di Novara dall’estremista nero Pierluigi Concutelli nel 1981. Il processo di appello stabilì l’assoluzione per insufficienza di prove di Papa, mentre gli altri suoi sodali vennero assolti con formula piena. La Cassazione annullò le precedenti assoluzioni indicendo un nuovo processo che, però, terminò nel 1985 con una ulteriore assoluzione per tutti, per insufficienza di prove. Una seconda istruttoria, nata da alcune confidenze interne al mondo carcerario, portò all’incriminazione di Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. Nei successivi gradi di giudizio furono tutti assolti e la Cassazione rese il giudizio definitivo (1989).
In seguito a quanto emerso nel corso dell’inchiesta condotta da Guido Salvini, anche per la strage di Brescia venne indetta una nuova istruttoria, la terza, che portò alla sbarra e, nel 2008, rinviò a giudizio gli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi (già giudicati nell’ambito della strage di piazza Fontana), il confidente dei servizi Maurizio Tramonte (la fonte «Tritone»), il militante Giovanni Maifredi (morto nel corso del processo), legato a un altro imputato, l’ex generale dei Carabinieri Francesco Delfino, e Pino Rauti. Il processo di primo grado prosciolse tutti gli imputati (2010) e la sentenza fu confermata in appello (2012), dove fu però confermata la colpevolezza dei defunti Buzzi, Digilio e Marcello Soffiati.
La Cassazione, però, interpellata nel 2014, ribaltò la sentenza, dichiarandola annullata e predisponendo un nuovo processo, terminato in via definitiva nel giugno 2017 con la condanna all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.
Il nome di Guillou comparve nell’istruttoria non tanto per la strage di piazza della Loggia in sé, come nel caso di piazza Fontana, quanto per un evento precedente ma considerato legato a essa: la morte di Silvio Ferrari. Ferrari, giovanissimo militante di estrema destra vicino a Ordine Nuovo, scioltasi ufficialmente l’anno prima, era il ragazzo morto nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1974 mentre, in sella al suo scooter, trasportava alcuni candelotti di tritolo che, per qualche motivo mai accertato, provocarono l’esplosione uccidendolo sul colpo. In relazione a questo episodio, nella prima istruttoria sulla strage di piazza della Loggia, fu presentato un documento, una lettera scritta da Yves Guillou nel dicembre 1973 in risposta a una precedente missiva di Ferrari, risalente al novembre precedente:
"Porto Belarte 3/12/1973
A seguito vs. 24/11/1973
Stimato signor Ferrari,
riscontro alla vostra sopra citata a stretto giro postale.
Non sono in condizione di dare una risposta ai quesiti da voi postimi, nella loro globalità.
Posso fornirVi i nominativi dei rappresentanti dell’Etnikos Syndesmos Ellinon Spudaston Italias, presso le università di Firenze, Modena, Ferrara, Parma, Milano e Bologna. Essi corrispondono a:
Università di Firenze: Sr. Kostas Saraglov
Università di Modena: Sr. Iannis Athanasiadis
Università di Ferrara: Giorgio Mitsas
Università di Milano: Sr. Statis Vlachovoulos
Università di Bologna: Sr. Nicolas Spanos
E presso la vostra università Sr. Dimitrios Tzifas.
Per quanto alla richiesta del Sr. B.E. di mettersi in contatto col Sr. Kostas P. suggerisco che la miglior soluzione sia per lui di scrivergli direttamente indirizzando alla Casella Postale n. 473 della Posta centrale di Atene. Lo sconsiglio di utilizzare direttamente alla Scuola Militare A. U. Faccia in ogni modo riferimento alla tessera n. 028 dell’A.I.P. personalmente può indirizzare presso la Cedo in Roma a seguito e all’attenzione della risoluzione della Sua
presente questione. Ricambio i cortesi saluti.
Il Direttore Generale - Y. Guerin Serac" <599
Questa lettera, dunque, proverebbe se non una relazione fattuale con Guillou e l’Aginter Presse, essendo evidente dal tono distaccato che i due non si conoscessero intimamente e essendo il Ferrari deceduto poco tempo dopo, quanto meno una conoscenza da parte del militante bresciano dell’influenza del francese. Ferrari, infatti, sembrò rivolgersi a Guillou per essere indirizzato a una persona, in Italia, che fosse vicina al regime dei colonnelli greci.
Purtroppo, non essendo mai stata rinvenuta la lettera scritta dal giovane, non è dato sapere con certezza cosa cercasse di preciso.
Dalla risposta di Guillou, comunque, si può dedurre un’ulteriore prova a sostegno del rapporto intrattenuto dal francese con Kostas Plevris («Kostas P.»), di cui ho parlato nel capitolo precedente della mia tesi e al quale coincidono le informazioni fornite nella lettera, del quale veniva richiesto l’indirizzo da un tale «B.E.», da identificare, secondo Giannuli <600, nel sopracitato Ermanno Buzzi. Infine, Giannuli interpreta la sigla «A.I.P.» come l’Agenzia Inter Presse, ovvero l’Aginter Presse di Guillou di cui, possedendone la tessera, avrebbe senz’altro fatto parte. Infine, per quanto riguarda la Cedo, presumibilmente si trattò del nome francese del Centro Studi Difesa dell’Occidente (Centre Études Defense de l’Occident) che, proprio nel 1973, operava a Roma sotto la direzione di Sandro Saccucci ed era attivo in una serie di iniziative a favore della presenza occidentale in Africa.
Sia per quanto riguarda la strage di piazza Fontana che per quella di piazza della Loggia, dunque, Guillou e l’Aginter Presse risultano attivi e, in qualche modo, legati all’eversione di estrema destra presente nella penisola italiana. Nel 1974, con la già citata caduta del regime portoghese di Marcelo Caetano, Guillou si spostò in Spagna, dove animò il cosiddetto «gruppo di Madrid» prima di scomparire nel nulla.
[NOTE]
599 A. GIANNULI, E. ROSATI, Storia di Ordine Nuovo, cit., p. 80.
600 Ivi, pp. 79-81.
Veronica Bortolussi, I rapporti tra l’estrema destra italiana e l’Organisation de l’Armée Secrète francese, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2016-2017 

sabato 19 aprile 2025

Mille resistenti ebrei non furono pochi


[...] Gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio: in grandissima maggioranza combattenti partigiani, ma anche esponenti clandestini politici o militari, membri di missioni clandestine alleate nella penisola <7.
Alcuni di loro (come il piemontese Raffaele Jona) si impegnarono anche nel salvataggio e nell’assistenza degli altri ebrei. Resistenti attivi, pur se disarmati, furono inoltre coloro che si dedicarono unicamente a quest’ultima azione. Tra essi vi erano vari attivisti della Delegazione per l’assistenza agli emigranti - Delasem (diretta a Genova da Lelio Vittorio Valobra e poi da Massimo Teglio e animata a Roma da Settimio Sorani), nonché alcuni rabbini (come Nathan Cassuto e Riccardo Pacifici, poi arrestati e morti in deportazione). La rete della Delasem, sostenuta dall’indispensabile apporto di vari non ebrei, compresi alti esponenti cattolici, riuscì a garantire un certo afflusso di fondi dalla Svizzera e una loro distribuzione in varie località per l’acquisto di documenti falsi, generi alimentari, medicine, vestiario di lana, legna per il fuoco ecc. Tale opera permise la sopravvivenza e la permanenza in clandestinità di alcune migliaia di braccati, in particolare ebrei stranieri ed ebrei italiani poveri o totalmente soli.
Vi furono inoltre ebrei italiani che combatterono volontari su altri fronti europei. Infine, molti ebrei non italiani combatterono in Italia (spesso anch’essi quali volontari) sotto la divisa statunitense, inglese, ecc., compresi naturalmente i membri della Brigata Ebraica costituita in Palestina. Peraltro, il totale di un migliaio di resistenti in Italia comprende alcune decine di ebrei stranieri o apolidi <8.
Gli ebrei partecipanti alla lotta armata, operarono quasi sempre nelle formazioni partigiane; pochissimi furono quelli impegnati nelle azioni cittadine: la clandestinità imposta dalla Shoah era incompatibile con le necessità delle azioni clandestine urbane.
Alcuni ebrei ebbero importanti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali della Resistenza: l’azionista Leo Valiani e il comunista Emilio Sereni furono nominati il 29 marzo 1945 membro effettivo e membro supplente per i rispettivi partiti nel Comitato esecutivo insurrezionale, incaricato dal Clnai di sovrintendere all’ormai imminente insurrezione <9. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945 spettò a questi ultimi due, assieme al socialista Sandro Pertini, il compito di confermare la precedente decisione del Clnai di condannare a morte Benito Mussolini. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta provvisoria di governo costituita nel settembre-ottobre 1944 nell’Ossola liberata. Eugenio Artom fu rappresentante del partito liberale nel Comitato toscano di liberazione nazionale. Vari altri svolsero la funzione di ‘commissari politici’ nelle singole formazioni partigiane. Queste presenze erano in qualche modo conseguenza automatica del maggior livello di istruzione del gruppo ebraico italiano <10. Allo stesso tempo ci segnalano la permanenza del ruolo ebraico di “educatore della nazione”, testimoniato per tutto il periodo storico dell’Italia unita, e ci indicano che nella complessa vicenda del passaggio dal fascismo all’antifascismo l’Italia fece di nuovo ricorso proprio anche al gruppo degli ex-perseguitati.
La maggior parte dei resistenti ebrei aderì al partito d’azione e a quello comunista, fece quindi parte delle formazioni “Giustizia e Libertà” o “Garibaldi” <11.
I caduti furono quasi cento, in maggioranza uccisi in combattimento o poco dopo l’arresto (come le triestine Silvia Elfer e Rita Rosani), ma anche nei campi dove erano stati deportati per motivi politici o perché riconosciuti come ebrei dopo l’arresto (come la torinese Vanda Maestro, arrestata assieme a Primo Levi) <12.
Tra i resistenti ebrei vi fu, rispetto all’insieme del movimento partigiano, una maggiore presenza delle classi di età meno giovani e un minore numero di donne combattenti <13; il primo dato segnala ancora una volta la radicalità del contributo ebraico, il secondo testimonia che sulle donne gravava maggiormente la sopravvivenza delle famiglie braccate e che proprio la loro condizione di clandestine impediva di impegnarsi nell’attività di “staffetta”.
Poco o nulla sappiamo intorno alla loro religiosità e ai mille problemi che i più osservanti di essi dovettero affrontare sulle montagne (anche se occorre dire che la maggioranza degli ebrei italiani seguiva relativamente poco le norme alimentari e le altre regole di vita dettate dall’ebraismo) <14.
Mille resistenti ebrei non furono pochi. I certificati di “partigiano combattente” rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, oltre 233.000 <15. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica nella penisola. Va poi tenuto presente che altri uomini abili alla lotta dovettero impegnarsi - al fianco di tante donne - nel proteggere dagli arresti o dalla morte per stenti i loro figli, i loro anziani, i loro malati. Mille furono insomma molti, tanti. Va aggiunto che i resistenti ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare furono sette (Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti, tutti “alla memoria”) <16 su poco più di seicento. Si tratta di una percentuale notevole, che, seppure non può e non deve dare adito a confronti di tipo meccanico (il valore mostrato da uomini e donne di tutte le fedi è sempre superiore a quanto contabilizzato dai medaglieri), tuttavia concorre anch’essa a rendere legittima l’affermazione che gli ebrei italiani parteciparono in misura assai elevata (rispetto alle loro dimensioni numeriche e alla loro condizione specifica) alla liberazione di se stessi e dell'Italia tutta.
Si potrebbe osservare che ciò costituiva un fatto semplicemente ovvio, che gli ebrei non potevano far altro che difendersi combattendo. Questa considerazione è ovviamente vera, ma non esaustiva. Essa non spiega ad esempio perché vari ebrei rientrarono in Italia dai loro luoghi di rifugio o di emigrazione (come il sionista-socialista-pacifista Enzo Sereni, che, arruolatosi in Palestina, si fece paracadutare nell'Italia occupata, per essere però poi arrestato, deportato come politico e ucciso a Dachau). C'era quindi dell'altro e per illustrarlo consentitemi di proporvi le testimonianze dei compagni di lotta del partigiano Gianfranco Sarfatti, comunista, rientrato in Italia dopo aver accompagnato i genitori al sicuro, caduto in combattimento in Valle d’Aosta. A chi gli chiedeva: “Combatti i tedeschi e i fascisti perché sei ebreo?”, lui rispondeva “No, combatto i tedeschi e i fascisti perché spero di arrivare a dare al popolo italiano onore, benessere e dignità”. E ancora: “Ma tu prima di venire qua dov'eri?”, “Ero in Svizzera”, “E come mai sei venuto di qua? Avevi la vita più facile di là, no?”, “Si, ma vedi, ci sono degli ideali” <17.
[NOTE]
7 Sul numero degli ebrei resistenti vedi Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza ligure, in La Resistenza in Liguria e gli Alleati. Atti del convegno di studi, Consiglio regionale della Liguria, Istituto storico della Resistenza in Liguria, Genova 1988, p. 76, nota 2. Sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza in Italia vedi anche Gina Formiggini, Stella d’Italia Stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1970; Liliana Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, in «RMI», vol. XLVI, n. 3-4 (marzo-aprile 1980), pp. 132-46; Santo Peli, Resistenza e Shoah: elementi per un’analisi, in Saul Meghnagi (a cura di), Memoria della shoah. Dopo i “testimoni”, Donzelli, Roma 2007, pp. 35-46.
8 Klaus Voigt, Profughi e immigrati ebrei nella Resistenza italiana, in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 229-253.
9 Pietro Secchia, Aldo dice: 26 x 1: Cronistoria del 25 aprile, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 43-44.
10 Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. p. 45.
11 In Piemonte i partigiani ebrei scelsero per un terzo le prime e per un terzo le seconde, le quali invece raccolsero la metà di tutti i combattenti della regione. Cfr. Viviana Ravaioli, Gli ebrei italiani nella Resistenza. Prima indagine quantitativa sui partigiani del Piemonte, in Liliana Picciotto (a cura di), Saggi sull’ebraismo italiano del Novecento in onore di Luisella Mortara Ottolenghi, fascicolo speciale de “La rassegna mensile di Israel”, vol. LXIX, n. 2 (maggio-agosto 2003), p. 574.
12 Un primo elenco di 94 caduti è in Michele Sarfatti, Gli ebrei nella Resistenza, in “Bollettino della comunità ebraica di Milano”, a. L, n. 4 (aprile 1995), p. 26.
13 Michele Sarfatti, Gli ebrei cit. pp. 307-8.
14 Michele Sarfatti, Ebrei nella Resistenza cit., p. 87.
15 Lucio Ceva, Considerazioni su aspetti militari della Resistenza (1943-1945), in “Il presente e la storia”, n. 46 (dicembre 1994), p. 55.
16 Liliana [Picciotto] Fargion, Partecipazione ebraica alla Resistenza [Note biografiche dei decorati con medaglia d’oro], in Centro di documentazione ebraica contemporanea, Ebrei in Italia: deportazione, Resistenza, Tipografia Giuntina, Firenze 1974, pp. 47-51; Giuseppe Maras, Medaglie d’oro della guerra di liberazione, in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 735-64.
17 Testimonianze riportate in Michele Sarfatti, Gaddo e gli altri ‘svizzeri’. Storie della Resistenza in Valle d’Aosta, Istituto Storico della Resistenza in Valle d’Aosta, Aosta 1981, pp. 94-95.
Michele Sarfatti, La partecipazione degli ebrei alla Resistenza italiana, La rassegna mensile di Israel, v. LXXIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 2008), pp. 165-72