venerdì 26 dicembre 2025

Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974

 


Il romanzo di Fonzi si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse   

[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga, l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva poi abbandonato per dedicarsi  alla pittura e alla scrittura nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che Louis” in Corso Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi, Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia  per le sue vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess, sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo [...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015 

Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974. Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61. Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli. S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti, un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio, che lo chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49 fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76, lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita, tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962), La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow (’76) e I libri della mia vita di Henry Miller (’76), per citarne alcuni. Scese ad Ancona, provenendo da Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa” la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco, di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco. Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso - e più sotto - Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli, nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento, sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata, senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5 giugno, da un pie' di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni, per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a “come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza - e magari, quando c’è, il suo messaggio - vengono recepiti a posteriori. Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno FonziLe parole e le cose 2 

sabato 20 dicembre 2025

I redattori di «Controspazio» saranno impegnati a sostenere una concezione autonoma della disciplina

Fonte: Elena Sofia Moretti, Op. cit. infra

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, con le sollecitazioni provenienti dagli avvenimenti internazionali come la guerra in Vietnam e i movimenti di rivolta che divampano a Parigi tra il maggio e il giugno 1968, anche in Italia si assiste all’esplosione delle lotte studentesche e operaie. Non è questa la sede per trattare le complesse vicende del ‘68, ma è utile rilevare quanto la situazione di instabilità produca un generale clima di tensione in ambito politico-sociale, coinvolgendo le maggiori istituzioni culturali. Gli studenti, sull’esempio del Maggio Francese, occupano in massa le principali università italiane; la Facoltà di architettura di Roma a Valle Giulia è teatro di forti scontri tra studenti e polizia, mentre a Milano il Movimento prende d’assalto la sede del Corriere della Sera in via Solferino. Anche la XIV Triennale di Milano del 1968 - curata quell’anno da Giancarlo De Carlo e dedicata al “grande numero” <1 -, viene occupata dagli studenti in lotta nel suo primo giorno di apertura <2; mentre la XXXIV Biennale di Venezia vede la luce con estrema difficoltà per le accese proteste studentesche sostenute da numerosi artisti <3. Dal 1968 è possibile osservare come in ambito culturale emergano una pluralità di posizioni critiche e teoriche tali da caratterizzare questo periodo come uno dei più ricchi di ricerche rivolte soprattutto a tematiche che esulano dalla normale pratica professionale <4. L’inquieto clima sembra trovare eco anche nelle pagine delle riviste, che si schierano al fianco degli studenti e si fanno sovente portavoce delle istanze e dei temi legati alla contestazione, divenendo uno dei principali strumenti per la registrazione degli eventi in atto <5. Solo «Domus» e «Abitare» sembrano sottrarsi alla “cultura dell’impegno”, mantenendo una gestione più “diplomatica” e apolitica dei propri contenuti editoriali <6.
In ambito architettonico, proseguono le avventure editoriali nate nella seconda metà degli anni Sessanta come «Marcatré» e «Op. Cit.»; a queste nel 1966 si aggiunge, tra le altre, «Città e società» diretta da Vittorino Colombo, mentre «Lotus» cambia aspetto e dal terzo numero del 1967 Alfieri assume l’esclusiva direzione della rivista. In particolare, il periodico si dota del sottotitolo “rivista” e non più “annuario”, dove al catalogo standardizzato delle opere è sostituito uno spazio per la ricerca teorica e critica <7. Nel 1969 nasce anche la rivista di Marco Dezzi Bardeschi e Francesco Guerrieri dal titolo «Necropoli», e nel 1970, dal numero 349, «Casabella» passa sotto la supervisione di Alessandro Mendini, che le associa il nuovo sottotitolo “Rivista di architettura, urbanistica e disegno industriale”, rendendo così evidente il carattere interdisciplinare che il periodico intende assumere. Nello stesso anno, Giorgio Trebbi e Glauco Gresleri fondano a Bologna la rivista «Parametro», mentre a Venezia vengono pubblicate in forma periodica le ricerche svolte all’Istituto Universitario di Architettura nei corsi di Carlo Aymonino, Romeo Ballardini, Guido Canella, Costantino Dardi, Gianni Fabbri, Pierluigi Nicolin, Raffaele Panella e Gianugo Polesello intitolate "Per una ricerca di progettazione" <8.
È in questa geografia di iniziative editoriali che, nel giugno del 1969, Portoghesi e un nutrito gruppo di giovani critici e architetti, fondano a Milano la rivista mensile «Controspazio». Tra gli studi che si sono occupati la rivista si registrano due tesi di laurea di Alessandro Fiorio (2004/2005) e Antonietta Bonanno (2005/2006) che si sono rivelate utili per circoscrivere alcune aree di interesse tematico <9. Inoltre, tra gli scritti che hanno trattato la rivista, è possibile menzionare alcune pagine del libro di Francesco Tentori "L'architettura contemporanea in dieci lezioni" <10, Carlo Gandolfi, che ha scritto la voce “Controspazio” nel volume "Architettura del Novecento. Teoria, scuole, eventi" <11 e Paolo scrivano nel suo saggio dedicato ai primi anni di uscita del periodico <12. Di «Controspazio», descritta come «la migliore rivista italiana del secondo dopoguerra», Tentori, in particolare, individua due periodi redazionali che hanno attraversato la sua avventura editoriale: il primo, a prevalente direzione milanese, arriva sino al 1972; il secondo, guidato soprattutto da protagonisti della scena architettonica romana, si sviluppa nell’arco temporale 1973-81 <13. Claudio D’amato, in un articolo del 2018 dedicato alla rivista e apparso sul numero di «Festival dell’Architettura Magazine» dedicato a "Le piccole riviste di architettura del XX secolo", scrive che il periodo romano del periodico può essere suddiviso in due ulteriori “stagioni”, dal 1973 al 1976 e dal 1976 al 1981 <14. Ciò è vero se si considerano gli importanti cambiamenti che avvengono in «Controspazio» dal 1976, sia per l’azzeramento della redazione e la conseguente riorganizzazione interna, sia sotto la forma di una nuova veste grafica <15. Complessivamente, le pubblicazioni raggiungono la numerazione di 102 copie, anche se, in realtà, si contano in tutto circa 60 fascicoli effettivi per la presenza di doppie uscite che si accumulano soprattutto nei primi anni di attività. Dal 1969 «Controspazio» pubblica 7-8 fascicoli l’anno, nel periodo dal 1973 al 1976, nonostante la rivista continui ad essere mensile, le uscite sono circa quattro l’anno, mentre dal 1977 al 1981 il periodico diventa bimestrale ma le pubblicazioni continuano ad essere irregolari e si contano quattro numeri l’anno o, come nel caso del 1981, solo un fascicolo <16.
Un documento inedito, riportato da D’Amato nel 2014 nel volume "Studiare l’architettura" <17, sembra sottendere una genesi romana della proposta editoriale <18. Il documento si riferisce alla messa a punto del numero 0, come una sorta di “manifesto programmatico”. Tra i suoi estensori, D’Amato menziona un gruppo di giovani allievi di Portoghesi alla Facoltà di Architettura di Roma, molti dei quali appartenenti all’associazione studentesca di sinistra Goliardi Autonomi <19. L’estratto, scrive D’Amato, esalta il ruolo della politica come «vera finalità dell’architettura, tutta vista in funzione di un processo rivoluzionario in cui essa avrebbe dovuto catarticamente dissolversi» <20. Il dato sembra confermato da Portoghesi in un articolo apparso su «Casabella» nel 2001 <21. «L’ipotesi culturale della rivista», scrive Portoghesi, «era nata a Roma e doveva contenere, in pieno clima sessantottino, una forte implicazione con le istanze del movimento studentesco in campo architettonico» <22. Si tratta, in realtà, di una linea di pensiero assai distante da quella che effettivamente sarà perseguita dal periodico. Diversamente, dal 1969, «Controspazio» si sottrarrà dall’avanzare una visione prettamente politica dell’architettura e i suoi redattori saranno impegnati a sostenere una concezione autonoma della disciplina <23. Come è possibile leggere ancora su «Casabella», sarebbe stata la collaborazione con Ezio Bonfanti a porre le basi che aiutarono Portoghesi a orientare la rivista, impostando una proposta editoriale in modo da «coinvolgere l’ondata ideologica senza esserne travolti» <24. Il primo numero, infatti, sembra evidenziare molte di queste contraddizioni <25. Ne è un esempio la stridente vicinanza dell’articolo di Bonfanti sul tema dell’autonomia dell’architettura con quelli dedicati all’architetto Louis I. Kahn che, al contrario, affrontano il lavoro dell’architetto da un punto di vista ideologico. In tal senso, l’analisi della prima uscita di «Controspazio», per il suo valore seminale, offre la possibilità di avanzare alcune riflessioni relative ai temi e ai problemi intorno ai quali si svilupperà effettivamente il lavoro critico dei suoi protagonisti. Si tratta di una sorta di “numero-manifesto”, non privo di incongruenze, che costituisce un necessario punto di partenza per l’indagine.
[NOTE]
1 Quattordicesima Triennale di Milano, catalogo ufficiale XIV Triennale, Milano, 1968. Cfr. anche: C. Guenzi, XIV Triennale: una selezione difficile, in «Casabella», n. 325, 1968, pp. 4-21.
2 Sull’occupazione della XIV Triennale del 1968 cfr.: C. Guenzi, La Triennale occupata, in «Casabella», n. 325, 1968, pp. 82-85; C. Guenzi, La Triennale del re, in «Casabella», n. 333, 1969, pp. 34-38. La programmazione della Triennale, sino al 1968, era stata interrotta solo durante la Seconda Guerra Mondiale.
3 Alle proteste degli studenti in Piazza San Marco segue una violenta repressione da parte della polizia la sera prima dell’apertura. Diciotto artisti italiani ritirano le loro opere dalla Biennale come forma di protesta, altri rivoltano i dipinti verso le pareti; alcuni hanno scritto sul retro “la Biennale è fascista”. La mattina del 18 giugno i cancelli vengono aperti ma la manifestazione ufficiale è ridotta ai minimi termini mentre artisti e studenti si riuniscono in assemblea permanente all’Accademia occupata. Sulla Biennale cfr.: G. Celant, Una Biennale in grigioverde, in «Casabella», n. 327, 1968, pp. 52-53; P. Restany, La Biennale poids-plume a raté son suicide, in «Domus», n. 466, 1968, pp. 42-50.
4 U. La Pietra, Ricerca, in Cinquanta anni di architettura italiana 1928-1978, catalogo della mostra (Milano - Palazzo delle stelline, 28 marzo - 13 maggio 1979), Domus, Milano 1979, pp. 12-14. Si veda anche: A. Muntoni, Storia e Movimento Moderno, teorie e ricerche progettuali dopo il ’68, in Il dibattito architettonico in Italia 1945-1975, a cura di C. Conforto et al., Bulzoni, Roma, 1977, pp. 177-178.
5 Cfr.: S. Micheli, Le riviste italiane di architettura, in Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, a cura di M. Biraghi et al., Il poligrafo, Padova, pp. 125-138.
6 Micheli, op. cit., p. 130.
7 M. Marzo, Lotus. I primi trent’anni di una rivista di architettura, in «FAM», n. 43, 2018, pp. 41-66.
8 Per una ricerca di progettazione I, a cura di C. Aymonino et al., Istituto universitario di architettura, Venezia 1969. Nascono anche altre esperienze che documentano le ricerche nelle facoltà come “politecnico architettura” e “rassegna dell’istituto di architettura e urbanistica” edito dalla facoltà di Roma. Cfr. anche: Micheli, op. cit., pp. 125-138. Un’indicazione parziale delle principali riviste italiane pubblicate tra il 1945 e il 1975 (corredate dagli indici) si trova anche in: Il dibattito architettonico in Italia…, cit., pp. 408-551. Cfr anche: M. Mulazzani, Le riviste di architettura. Costruire con le parole, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana - il secondo novecento, Electa, Milano, 1997, pp. 430-443.
9 A. Bonanno, Nel cantiere di una rivista: "controspazio" 1969-1981, tesi di laurea (prof. A. De Magistris), Politecnico di Milano, a.a. 2005/2006; A. Fiorio, "Controspazio"(1969-1981), tesi di laurea, (relatore C. Olmo), Politecnico di Torino, a.a 2004/2005.
10 F. Tentori, L'architettura contemporanea in dieci lezioni (dividendo per undici). Zibaldone e bibliografia sull'architettura, l'arte italiana e le riviste del Novecento, Gangemi, Roma 1999, p. 132.
11 C. Gandolfi, voce-saggio Controspazio, in Biraghi M., Ferlenga A. (a cura di), Architettura del Novecento. Teorie, scuole, eventi, vol. I, Einaudi, Torino, 2012, pp. 246-250.
12 P. Scrivano, Where praxis and theory clash with reality: ‘Controspazio’ and the Italian debate over design, history, and ideology, 1969-1973, in Sornin A., Janniere H., Vanlaethem F. (a cura di), Revues d’architecture dans les années 1960 et 1970, Institut de recherche en histoire de l'architecture, Montréal, pp. 245-269. Cfr. anche: 30 anni di architettura in Italia. Dalle pagine di Controspazio 1969-2000, a cura di D. Pastore, S. Tuzi, Gangemi, Roma 2003.
13 Tentori, L’architettura contemporanea…, cit., pp. 131-135.
14 C. D’Amato, Controspazio come piccola rivista, in «FAM», n. 43, 2018, pp. 33-40. D’Amato, che aveva collaborato con la rivista sin dai primi numeri, entrerà a far parte del direttivo di redazione nel 1977.
15 Ivi.
16 Tentori, L’architettura contemporanea…, cit. p. 131.
17 C. D’Amato, Studiare l’architettura, Gangemi, Bari, 2014, pp. 145-146.
18 D’Amato, Controspazio…, cit., pp. 35-36.
19 Ivi, p. 35.
20 Ibid. D’Amato specifica che i giovani studenti fanno parte della lista di sinistra “Goliardi Autonomi” che, dal 1963, prendono parte alle prime occupazioni dell’università romana. Cfr. anche: P. Ostilio Rossi, Le proposte di riforma del Biennio. 1964-1965, in Bruno Zevi e la didattica di architettura, a cura di P. Ostilio Rossi, atti del convegno, Quodlibet, Macerata, 2018, pp. 189-207.
21 P. Portoghesi, Le possibilità del passato, in «Casabella», n. 694, 2001, pp. 90-92. L’articolo è dedicato alla pubblicazione di una raccolta di scritti di Ezio Bonfanti. Questa occasione offre a Portoghesi l’opportunità di rimeditare sull’esperienza di «Controspazio».
22 Ibid.
23 Al proposito si veda soprattutto: P. Portoghesi, Autopsia o vivisezione dell’architettura, in «Controspazio», n. 6, 1969, pp. 5-7.
24 Portoghesi, Le possibilità…, cit., p. 90.
25 Ivi, p. 91.
Elena Sofia Moretti, Generazione «Controspazio». Il ruolo di un progetto culturale nel dibattito architettonico italiano (1969-1981), Tesi di dottorato, Università Iuav di Venezia, Anno accademico 2022-2023

domenica 14 dicembre 2025

La forza della Marcia dei 40.000 fu nel suo valore simbolico molto più che nei numeri


Fu "La Repubblica" a dare il nome all'evento, il giorno successivo titolò in prima pagina “Torino, 40mila in corteo: «Fateci tornare a lavoro»”, era una delle cifre più alte fornite dalla stampa. Nell'articolo di Salvatore Tropea si leggeva: «qualcuno stamane osservava che il corteo silenzioso era l'immagine di Torino e dell'Italia dei prossimi dieci anni; altri parlavano addirittura di una Waterloo del sindacato. [...] [Dai passanti] isolati commenti di chi esplode in un “finalmente”, “era ora”» <733. Secondo Bonazzi la stessa importanza della marcia «venne enfatizzata [dal PCI, soprattutto torinese, che portò a termine la trattativa quasi sostituendosi ai sindacati] per legittimare l'accordo sulla Cig senza rotazione per 23.000 dipendenti come scelta obbligata, ma anche per coprire le polemiche interne al partito ed al sindacato tra pragmatici ed intransigenti.» <734. Questa l'opinione di Luca Ponzi: "La marcia dei quarantamila ebbe l'effetto immediato e dirompente di dare voce alla maggioranza silenziosa […] Fino al 1980 la maggioranza silenziosa era ai margini del dibattito politico, occupato da altri, da quella classe operaia che nel paese era egemone e riusciva a farsi sentire, con istanze che andavano ben al di fuori dei cancelli delle fabbriche e venivano fatte proprie dagli studenti, dagli intellettuali, dai principali giornalisti". <735
Nella relazione del prefetto di Torino sullo stato della provincia nei mesi post-marcia si denunciavano i danni prodotti nell'indotto e il clima da resa dei conti fra i sindacati: «la conclusione della vertenza FIAT ha fatto emergere i gravi contrasti, da tempo latenti, tra le tre organizzazioni sindacali torinesi nella vana ricerca di assumersi la minor parte di responsabilità nel fallimento della vertenza stessa». La CGIL messa sotto accusa tacciava la UIL di immobilismo e la CISL di un'azione autoreferenziale e barricadiera che scavalcava «a sinistra anche i più facinorosi esponenti dei movimenti extraparlamentari». Poi tutte e tre prendevano di mira l'intransigenza della FLM <736.
La forza della Marcia dei 40.000 fu nel suo valore simbolico molto più che nei numeri. La manifestazione dei capi FIAT fu effettivamente una manifestazione della maggioranza silenziosa a quasi dieci anni da quando questa formula politica venne evocata per la prima volta. I quadri intermedi dell'azienda aggregarono un’area più vasta della loro categoria basandosi sui valori di certo ceto medio. I loro nemici erano gli stessi dell'inizio del decennio, il PCI, i sindacati e la sinistra extraparlamentare, che nella vertenza FIAT si ritrovarono uno a fianco all'altro. Il loro anticomunismo, anche se non sbandierato come quello del CCA di Milano, c'era e si era radicato in anni di contrapposizione in fabbrica. La loro organizzazione si sviluppò come associazione di categoria ma sempre al di fuori dei partiti politici. Non solo perché rifiutavano istintivamente di impegnarsi e perché si identificavano più che altro con l'azienda, ma anche perché si sentivano abbandonati e traditi, sopratutto dall'esperimento della solidarietà nazionale, con i comunisti in area governativa. Eppure dimostrarono di saper interpretare i sentimenti di molti altri, stanchi di un decennio di tensioni e immersi negli anni più duri del terrorismo, o almeno si videro attribuire questo merito. La loro era una manifestazione che vedeva sul tavolo le stesse questioni del 1971: la fine delle violenze da cui si sentivano minacciati, il ritorno ad una vita tranquilla e laboriosa, la denuncia degli effetti di una nefasta e pericolosa egemonia dei comunisti e dei sindacati sulla società italiana; la difesa del proprio ruolo sociale, della propria posizione di potere; la paura del declassamento.
Il fatto che i capi FIAT si sentissero molto più che semplici lavoratori, interpreti della maggioranza silenziosa dei lavoratori dell'azienda e di tutti gli italiani, ultimo baluardo dell'ordine democratico, emerge con forza in alcuni passaggi del discorso che Luigi Arisio lesse al Teatro Nuovo in quel 14 Ottobre 1980: "Ancora una volta, da Torino, capitale dell'operosità e della libera iniziativa parte questo segnale di allarme, [...] è sintomatico ed eccezionalmente significativo, che a mandare questo messaggio sia una categoria di solito restia ad esprimersi, allergica alla piazza, ai suoi clamori, ai roboanti slogan. I Quadri Intermedi, i capi Fiat, hanno oggi finalmente riconfermato la loro funzione trainante, raccogliendo e coagulando intorno a loro i qualificati e responsabili consensi dei dirigenti, degli impiegati e dei loro operai. Non siamo, come dice Lotta Continua, il partito dei capi Fiat, siamo il ben più grande partito della voglia di lavorare, di produrre, di competere con la concorrenza, siamo il partito del rispetto e non della sopraffazione, siamo il grande, universale partito che vuole costruire, per noi ed anche per loro un avvenire migliore". <737 Si ritenevano portatori di valori universali da contrapporre alle divisioni false e nocive della politica che avevano insanguinato le strade e rovinato l'economia. Si dicevano profondamente convinti che "l'auspicato risanamento sociale ed industriale, non possa prescindere dal rafforzamento e dalla diffusione dei valori intrinseci nella cultura industriale, in quanto obiettivi comuni e vitali per tutte le forze sociali. [...] I valori che i quadri intermedi hanno da sempre sostenuto vengono oggi riscoperti, ed il campo viene così sgombrato dagli ideologismi, dai falsi problemi e bisogni e dagli artificiosi schieramenti". <738
Chi erano precisamente i capi? Si trattava di lavoratori dipendenti con un titolo di studio, che però raramente eccedeva il diploma. Una buona parte era di estrazione operaia questo valeva soprattutto per i capisquadra e i capi reparto, che controllavano il processo produttivo e i collegamenti con le altre parti della struttura della loro area di competenza. Più in alto stavano i capiofficina che solitamente non seguivano una mobilità ascendente ma venivano collocati dall'esterno dall'azienda. Esistevano poi i capi intermedi d'ufficio con funzioni tecnico-organizzative o di coordinamento della progettazione, quindi capiufficio e funzionari d'ufficio e di officina, più alti nel grado aziendale <739. Amavano definirsi gli «ammortizzatori del sistema di fabbrica» <740, sottolineando il ruolo di cerniera (e quindi la loro indipendenza) fra operai e dirigenza aziendale. Tuttavia, essi si identificavano molto con l'azienda, la loro etica del lavoro «ruotava intorno a un concetto forte in quegli anni, che in fondo alla FIAT si dovesse riconoscenza. Riconoscenza per lo stipendio a fine mese, ma non solo, anche per tutto ciò che significava lavorare in FIAT, dalla cassa mutua, alle colonie per i figli, al pacco dono a Natale, alle gite domenicali e, in definitiva, a un certo prestigio sociale» <741. Ma ribadivano che «la fonte principale di legittimazione di gruppo e di identità sociale dei quadri[...] [va] ricercata nella specificità del loro ruolo professionale ed aziendale» <742.
Una delle rivendicazioni delle organizzazioni dei quadri era quindi il cambiamento del quadro legislativo, che nei contratti costringeva ad essere inquadrati come impiegati. L'articolo 2095 del Codice Civile infatti riconosceva all'epoca solo tre categorie: operai, impiegati, dirigenti <743. Il periodo ricordato con maggior nostalgia fu quello della gestione Valletta, quando tra l'altro non mancavano di “consigliare” il voto per le commissioni a sindacati aziendali e limitavano la propaganda della FIOM, per non perdere gli aiuti del Piano Marshall alle aziende <744. Il loro nemico principale era il sindacato, ma non solo. Arisio commentava sugli anni Settanta: «Ciò che il Partito Comunista Italiano non riusciva ad ottenere in Parlamento era rimesso in discussione dal suo potente sindacato e rigiocato sulla piazza: in questo ballottaggio non previsto dalla costituzione repubblicana, anomalo e fuorviante, era quindi puntualmente e definitivamente riconquistato!» <745 
Il sindacato ebbe sicuramente problemi di rappresentatività che non esaminò con la dovuta attenzione. Nei primi anni Ottanta Ida Regalia puntualizzava: «Dieci anni fa i criteri di giudizio del grado di “rappresentatività”[...] erano diversi da quelli prevalenti oggi. Allora ci si chiedeva se fossero adeguatamente rappresentati i giovani, le donne, i lavoratori con scarsa o nulla socializzazione politica; oggi ci si chiede se siano sufficientemente rappresentati i quadri e i tecnici,le minoranze sindacali» <746. I capi contestavano la linea economica del sindacato, l'inquadramento unico, l'egualitarismo rivendicativo, la scala mobile, perché tutti questi minavano la loro posizione portando all'appiattimento salariale con le altre categorie, e si ritenevano ulteriormente penalizzati dal sistema fiscale <747. Anche in conseguenza di queste due questioni si faceva largo fra le critiche ai sindacati quella di aver scavato un fossato fra i “garantiti” delle categorie più compatte e numerose, e i “non garantiti” <748. Arisio ne dava un esempio parlando delle assunzioni di «elementi sempre più scadenti ma ormai intoccabili perché tutelati da un movimento sindacale sempre più forte, sempre più aggressivo, che riempiva le linee di montaggio e le officine di finti invalidi, che subito dopo la conferma ottenevano un “posticino” da seduti» <749. A questi si aggiungevano gli assenteisti che aumentavano di giorno in giorno.
[NOTE]
733 La Repubblica, 15 Ottobre 1980, p.2
734 G. Bonazzi, La lotta dei 35 giorni alla Fiat, cit., p.39
735 L. Ponzi, Il giorno dei colletti bianchi, cit., pp.99-100
736 Relazione prefettura Torino 20 Gennaio 1981, in f. 15800 111/10, ACS, Min. Int., Gab., Arch. Gen., fasc. corr., anni 1981-1985
737 L. Arisio, Vita da capi, cit., pp.282-283
738 G. Fardin, Coordinamento quadri e capi intermedi FIAT, I quadri negli anni '80, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1983, p.4
739 L. Ponzi, Il giorno dei colletti bianchi, cit., pp.96-98
740 G. Fardin, Coordinamento quadri e capi intermedi FIAT, I quadri negli anni '80, cit., p.3
741 L. Ponzi, Il giorno dei colletti bianchi, cit., p.103
742 G. Fardin, Coordinamento quadri e capi intermedi FIAT, I quadri negli anni '80, cit., p.167
743 Ivi, p.168; T. Giglio, La classe operaia va all'inferno, cit., p.47
744 L. Arisio, Vita da capi, cit., p.78
745 Ivi, p.135
746 I. Regalia, Eletti e abbandonati. Modelli e stili di rappresentanza in fabbrica, Bologna, Il Mulino, 1984, p.88
747 A titolo esemplificativo T. Giglio, La classe operaia va all'inferno, cit., p.90
748 Ivi, p.59
749 L. Arisio, Vita da capi, cit., p.130
Alberto Libero Pirro, La “maggioranza silenziosa” nel decennio '70 fra anticomunismo e antipolitica, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Anno Accademico 2013-2014

lunedì 8 dicembre 2025

L'imbarazzo dei giudici nel dover riconoscere la Resistenza come soggetto legale del conflitto


Così, nel processo Kappler viene riconosciuto al movimento partigiano la qualifica di “organo legittimo belligerante” anche se l’attentato di via Rasella viene ritenuto illegittimo. Questo, di per sé, non è detto che sia una contraddizione perché anche se un soggetto viene riconosciuto come legittimo combattente può essere imputato e condannato per un atto illegale. Altrimenti i processi contro i crimini di guerra perpetrati da istituzioni cosiddette “regolari” come nel caso della Wehrmacht, non potrebbero mai essere svolti, non avendo per questo neanche un minimo di base giuridica da cui partire. Ma nella sentenza Kappler è abbastanza palese la difficoltà dei giudici a coniugare quella che appare appunto una contraddizione. La Corte riconosce che «nel marzo 1944 il movimento partigiano aveva assunto proporzioni di largo rilievo ed una discreta organizzazione, ma non aveva ancora acquistato quella fisionomia atta ad attribuirgli la qualifica di legittimo organo belligerante. Ciò non è una particolarità del movimento partigiano italiano, ma è una nota caratteristica di tutti i movimenti partigiani, che nella recente guerra costituirono una delle migliori manifestazioni dello spirito di resistenza delle popolazioni dei territori occupati [il corsivo è mio]. Le formazioni partigiane, in genere, sono sorte spontaneamente, hanno agito nei primi tempi nell’orbita della illegalità fino ad assumere, come avvenne in proseguo di tempo anche per il movimento partigiano italiano, una organizzazione capace di acquistare la qualifica di organo legittimo belligerante [il corsivo è mio]». E immediatamente dopo l’analisi si fa più esplicita: «In questa genesi è la nota peculiare di un movimento di massa, la quale, in difesa della sua libertà, si scuote, si affratella e si organizza, agendo, per necessità di cose, in un primo momento illegalmente in seguito legittimamente contro il nemico [il corsivo è mio]».
Dunque, la Resistenza viene chiaramente legittimata, anche se con una certa contraddittorietà, visto che all’inizio è definita illegittima e solo in seguito no. Questo denota una certa incertezza, e forse una certa impreparazione, nei giuristi che in quel periodo sono alle prese con un elemento che si caratterizza per la sua sorprendente novità nell’ambito del diritto internazionale. Si fa fatica, vista la cultura giuridica di cui si è figli, a legittimare i singoli a discapito del monopolio della violenza da parte dello Stato, unico soggetto giuridico riconosciuto fino ad allora dal diritto internazionale <179.
La discutibilità di una tale conclusione sta nel fatto che non si chiarisce in base a cosa la Resistenza nasce “non legittima” e quando lo diventa. Se questo movimento, che viene dichiarato di massa, sorge spontaneamente perché mira all’affermazione della propria libertà, perché non viene immediatamente riconosciuto dal punto di vista giuridico? Forse ci si può basare sul dato di fatto che gli elementi che lo compongono generalmente non rispondono a determinati requisiti, come portare dei segni distintivi e le armi bene in vista, oppure avere un’organizzazione gerarchica ben definita, di modo che qualcuno risponda direttamente di eventuali atti illeciti commessi dai propri sottoposti. Ma per i restanti mesi della guerra, anche se la Resistenza inizierà ad avere un’organizzazione politico-militare abbastanza definita, soprattutto grazie alla nascita dei numerosi Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), numerosissime saranno le unità partigiane che non porteranno uniformi, distintivi e armi bene in vista. Se questo fosse stato fatto durante i loro passaggi in numerosi centri abitati molti combattenti sarebbero stati riconosciuti e questo avrebbe potuto comportare gravi ritorsioni sui propri familiari. Inoltre, chi veniva fatto prigioniero era quasi sempre torturato per ottenere informazioni oppure veniva passato immediatamente per le armi. Nelle migliori occasioni veniva incarcerato per essere usato negli scambi di prigionieri o per fare da “scudo” a installazioni militari o industriali. Insomma, affermare come fa il Tribunale militare di Roma che solo in un secondo momento il movimento resistenziale ha diritto a essere riconosciuto come organo legittimo pare alquanto arbitrario. Soprattutto dopo che lo Stato italiano ha abdicato alle funzioni primarie, con il re e gran parte del governo che invece di restare al proprio posto, ovvero a Roma, fugge a Brindisi incontro agli alleati lasciando senza ordini le forze armate italiane, comprese quelle di stanza intorno e all’interno della capitale, se si eccettua un banalissimo e quanto mai confuso ordine di rispondere a eventuali attacchi che sarebbero potuto provenire da ambo le parti (alleati e tedeschi in primis) <180. Inoltre, nella stessa sentenza si da alla Resistenza una connotazione (in gran parte veritiera), come movimento di massa, quasi sulla scia di una retorica risorgimentale. Anche se probabilmente, molto più che nel Risorgimento, è proprio in quel tragico periodo storico che si può parlare di un popolo italiano in armi contro lo straniero invasore, almeno per quello che riguarda la consistenza numerica dell’intero movimento partigiano italiano, connotato oltretutto di vari elementi ideologici e per questo anche molto eterogeneo per quello che riguarda la sua estrazione sociale e culturale.
Come già detto, la Corte dichiara l’azione di via Rasella come un atto illegittimo di guerra. Così, passa ad analizzare la situazione dello Stato italiano, anzi, più precisamente la posizione degli attentatori nei confronti dello Stato italiano. Questi vengono riconosciuti come membri di un’organizzazione militare «inquadrata nella Giunta Militare», la quale «alla stessa stregua del Comitato di Liberazione Nazionale, per il riconoscimento implicito ad essi fatto, attraverso numerose manifestazioni, dal Governo legittimo e per i fini propri di quest’ultimo (lotta contro i tedeschi) che essa attuava in territorio occupato, si opponeva come organo legittimo, almeno di fatto, dello Stato italiano». Sennonché, sempre a detta della Corte, «secondo il diritto internazionale (articolo 1 della Convenzione dell’Aja del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari, i quali ultimi rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i suoi subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi», requisiti che, nel caso concreto, gli attentatori non avevano. Da tali premesse la Corte trae quindi la conclusione che l’attentato di via Rasella «qualunque sia la sua materialità, è un atto illegittimo di guerra», tale da legittimare una rappresaglia da parte dell’avversario. E come già detto, solo l’enorme sproporzione sia in relazione al numero delle vittime sia in rapporto al danno determinato, avrebbe tolto all’azione commessa dal comando militare germanico il carattere di rappresaglia, in quanto, a dire della Corte, «il principio della proporzione caratterizza il contenuto della rappresaglia».
Insomma, l’attentato risulta illegittimo perché opera di attentatori che non si coniugavano con i requisiti essenziali che potevano qualificarli come “corpo volontario”, ovvero come “combattenti regolari”, ma tuttavia essi risultavano collegati allo Stato italiano che in seguito riconoscerà i partigiani come suoi legittimi combattenti, dopo aver sostenuto per tutta la durata del conflitto le loro attività belliche. Ecco perché alla fine il Tribunale romano sancisce chiaramente che la violazione (attentato di via Rasella) «era riconducibile allo Stato italiano per il rapporto esistente fra tale Stato ed il movimento partigiano di cui facevano parte gli autori dell’attentato, i quali (pur non avendo la qualità di legittimi belligeranti e conseguentemente non avendo il diritto di compiere l’atto che invece compirono) tuttavia facevano parte di un’organizzazione militare inquadrata nella Giunta militare». 
Morale, anche lo Stato italiano era responsabile di un gravissimo illecito internazionale.
In senso opposto a questa conclusione è orientata la sentenza del 31 ottobre 1951 del Tribunale militare di Bologna con cui si condanna all’ergastolo il maggiore delle SS Walter Reder per il ruolo svolto nella strage di Marzabotto. Nella sentenza si dice che «non è possibile per mancanza di una norma giustificatrice, riferire ad uno Stato (e nel caso sarebbe lo Stato italiano) un illecito internazionale, solo perché accetta, ovvero anche organizza l’azione di corpi volontari che non abbiano ottemperato ai requisiti di cui all’art. 1 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja [il corsivo è mio]». Dunque per i giudici bolognesi lo Stato italiano non risulta colpevole di qualsiasi imputazione a suo carico che abbia a che fare con qualsiasi soggetto (unità o singolo individuo) che opera come resistente contro l’occupazione nemica. Così facendo, la Corte esclude qualsiasi possibilità di riflessione su un evento complesso quale la complicità dello Stato italiano (e così facendo si omette anche il ruolo degli alleati) con la Resistenza. Insomma, i giudici vogliono negare quella che era una realtà storica accertata già a quel tempo. Ed inoltre non vogliono collegare eventuali responsabilità di Stato con quelle di singoli individui (in questo caso partigiani), ribadendo così la supremazia del primo sui secondi. Ancora più esplicita è la sentenza quando osserva «come la rappresaglia si connoti quale sanzione legata all’inottemperanza, da parte dello Stato belligerante nemico, degli obblighi derivanti dal diritto internazionale; conseguentemente perché una responsabilità internazionale possa sorgere essa deve, per la sua stessa natura, fondare su un fatto illecito che sia imputabile ad un “soggetto internazionale” e non invece a “semplici individui” [il corsivo è mio]. Ma tale responsabilità da parte dello Stato italiano verso il belligerante tedesco, atto a giustificare una rappresaglia, non pare ravvisabile».
Ma così facendo i giudici si scontrano anche con il diritto internazionale nelle sue regole più basilari. Infatti è evidente che se uno Stato organizza o sostiene corpi armati cosiddetti irregolari, compie un illecito internazionale. Il fatto di essere Stato non significa che questi possa permettersi di agire indipendentemente dalle regole stabilite, anzi, è proprio la sua presunta posizione di unico soggetto giuridico internazionale riconosciuto fino ad allora a imporgli una serie di vincoli cui è tassativamente obbligato a rispettare e a far eseguire ai suoi sudditi se non vuole incorrere nell’accusa di illecito internazionale che lo porterebbe ad essere giudicato ed eventualmente sanzionato.
Anche appellarsi alla mancanza di una norma giustificatrice è alquanto insensato, perché essendo lo Stato unico soggetto internazionale riconosciuto fino ad allora è anche l’unico che in teoria può e deve rispondere di un illecito internazionale. Altrimenti sarebbe inutile la stessa esistenza di norme e convenzioni che regolano i rapporti fra Stati, compresa la guerra. Se ci si appella a tale giustificazione molte condanne che hanno alla loro base una marcata matrice morale e non si rifanno pienamente a norme scritte, risulterebbero illecite. Così facendo sarebbe un controsenso giudicare lo stesso Reder e addirittura tutto l’apparato di potere nazista eccetto il Führer che poteva essere ritenuto fonte giuridica (Führerprinzip) e rappresentante supremo del Terzo Reich.
Oltretutto si ignora che il diritto non si rifà solamente a norme scritte, ma trova una genesi anche nelle cosiddette norme consuetudinarie. In questo modo lo Stato potrebbe permettersi di fare per così dire il “buono e cattivo tempo” nei confronti dei cittadini suoi e degli altri Paesi.
È qui evidentissimo l’imbarazzo dei giudici nel dover riconoscere la Resistenza come soggetto legale del conflitto, altrimenti non vi sarebbero stati problemi a collegarla allo Stato italiano e conseguentemente alle forze alleate. In questa sentenza si avverte un tono di delegittimazione della stessa attività partigiana e una certa acquiescenza verso lo Stato, indipendentemente che quest’ultimo osi, oppure no, mettersi al di fuori o addirittura al disopra del diritto internazionale.
Nella sentenza del Tribunale militare di Roma del 22 luglio 1997 riguardante Priebke, la Corte liquida in modo piuttosto semplice e veloce l’analisi dell’azione partigiana in via Rasella, evitando così di porsi il dilemma di una eventuale responsabilità indiretta dello Stato italiano in tutta la vicenda della strage delle Cave Ardeatine, che avrebbe casomai potuto creare delle attenuanti (non morali, ma forse tecniche) alla spropositata reazione tedesca.  Infatti, la Corte militare afferma che «se l’azione partigiana del 23 marzo 1944 fosse qualificata come atto illegittimo lo Stato germanico avrebbe potuto ad essa reagire in via di rappresaglia o anche di sanzione collettiva, mentre tali istituti non sarebbero comunque invocabili ove quell’azione venisse qualificata legittima, ovvero in ogni caso non riferibile allo Stato italiano». Qui, si smarca preventivamente lo Stato italiano da qualsiasi complicità o collegamento con gli attentatori indipendentemente dal fatto che avessero eseguito una legittima azione di guerra oppure no. E questo, senza dare un’argomentazione giustificatrice a sostegno di tale tesi.
[...] Qui, non si è osato prendere posizione sull’eventuale legalità o non dell’attentato come era stato invece fatto nel 1948 nel processo a Kappler. Ma perché la Corte liquida questo punto con tale superficialità? Molto probabilmente, parlare della legittimità oppure no dell’attentato di via Rasella avrebbe scatenato una polemica politica e storica che sarebbe stata immediatamente al centro dell’interesse dei mezzi di comunicazione che già seguivano con una certa frequenza l’evolversi del processo a Priebke. Parlare di Resistenza a oltre mezzo secolo da quegli eventi, comporta tutt’ora alzare un polverone di polemiche di cui i giudici si rendevano ben conto. Questo perché l’Italia è ancora divisa su quelle vicende e vi sono forze politiche che, trovando le loro radici nella cultura fascista che combatté al fianco dei nazisti per tutta la durata del conflitto (indipendentemente dalla loro presunta e attuale rivalutazione critica del periodo fascista), sono sempre state critiche nei confronti delle forze partigiane che divennero, in parte a torto e in parte a ragione, l’emblema della legittimità politica del Partito comunista come grandissima forza fondatrice dell’attuale Repubblica. A torto perché la Resistenza fu un agglomerato di forze eterogenee e il Partito comunista non poteva esserne l’unico portavoce, e a ragione perché indiscutibilmente i comunisti furono la forza motrice principale della Resistenza armata e politica al nazifascismo sia in Italia che in tutta l’Europa, inoltre i partiti che avevano partecipato alla Resistenza, durante gli anni della guerra fredda attenuarono sensibilmente questa pagina della storia italiana, a causa di interessi di politica interna nel quadro della cosiddetta “pacificazione nazionale” o per l’ingresso nelle loro fila di numerose personaggi che militarono proprio nel campo dell’Asse prima e nella Repubblica di Salò poi, e che nella Repubblica daranno un contributo essenziale alla ricostruzione delle forze armate, delle forze di polizia e alla continuità del vecchio apparato statale italiano.
Oltretutto, dagli ultimi anni del secolo passato fino ad oggi, è in atto un’azione di delegittimazione della Resistenza e dell’antifascismo ad opera di forze politiche che puntano a colpire i propri avversari proprio al cuore della loro cultura politica, che è anche la stessa della Repubblica che trova la sua legittimazione in una Costituzione antifascista generata dalla lotta resistenziale, allo scopo di delegittimarli o almeno di gettare un velo d’ombra sulla loro storia repubblicana e quindi sulla loro stessa legittimità politica.
[NOTE]
179 Dopo la seconda guerra mondiale, i diritti universali dell’individuo sono stati riconosciuti dalle Nazioni Unite nel 1948, con la conseguente possibilità del singolo di essere riconosciuto in eventuali dispute (legali) con uno Stato.
All’atto pratico, ancora più certo è questo riconoscimento che investe anche le Organizzazioni non governative (Ong), che operano tutt’ora nelle aree di crisi spesso in delega delle Nazioni Unite stesse, quando quest’ultime non trovano un accordo per eventuali missioni tra i partner che le compongono.
180 È lo storico messaggio radiofonico dato dal presidente del Consiglio, il maresciallo Pietro Badoglio, l’8 settembre 1943 a tutta la popolazione italiana e ai militari italiani in armi stanziati nelle varie zone d’occupazione del Mediterraneo, in Francia e nei Balcani, dove si annunciava l’armistizio firmato dall’Italia con gli alleati anglo-americani a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre 1943.
Marco Conti, Il Diritto in azione. Profili giuridici e problemi storici dei processi per i crimini di guerra nazisti nell’Italia del 1943-1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2008-2009 

domenica 30 novembre 2025

De Mita, soprattutto, vedeva impossibile un arrivo dei comunisti al governo


I tre principali nodi del disegno politico di De Mita erano: la lettura bipolare del sistema politico italiano; l’idea che il meccanismo di alternanza costituisse, in quel momento storico, una soluzione né realistica, né realizzabile; la sicurezza che il pentapartito dovesse essere una vera formula politica e non solo uno stato di necessità <61. Come già detto, il punto di partenza della strategia del segretario De Mita fu la lettura bipolare del sistema politico, poiché a suo parere, la politica italiana ruotava ancora intorno ai due partiti principali: la Democrazia cristiana da una parte, e il Partito comunista dall’altra. Per il leader democristiano, l’assetto bipolare fotografava semplicemente il sistema politico di quel periodo storico. Era un fatto oggettivo della realtà. Infatti nel Congresso del 1984 De Mita sostenne che: «E’ in questo contesto (…) che va letta la registrazione, da parte nostra, del bipolarismo attuale del sistema politico italiano. Non è un riferimento polemico, dunque, ma l’indicazione di un dato di fatto…» <62. Nel richiamo a questa realtà concludeva infine che: «… la scelta permanente di una politica di alleanze e di governi di coalizione, non intende predeterminare egemonie di checchessia, e vuole soltanto ricordare che, allo stato delle cose, le alternative di governo si possono immaginare o con la Democrazia cristiana o con il Pci» <63. De Mita considerava l’ipotesi di un’alternativa, e quindi dell’alternanza, come una possibilità che non poteva essere realizzabile sul piano politico, irrealistica date le oggettive condizioni esistenti: «l’alternativa, in sostanza, è una politica solo se c’è una diversa proposta di governo che implica la realizzazione di una diversa maggioranza» <64; questo era ciò che sosteneva ancora nel 1986. L’alternativa alla Dc poteva essere realizzabile solo attraverso un reale rinnovamento dei partiti politici: si doveva compiere un processo di rifondazione del potere, di riordine delle istituzioni e di costruzione di nuove regole <65. Il segretario della Dc, soprattutto, vedeva impossibile un arrivo dei comunisti al governo: non erano maturi abbastanza, da un punto di vista politico e culturale, per prendere la guida del paese. Il problema più grande, a suo parere, era «l’assenza di un’autentica “cultura di governo”» <66, e questo poteva essere ben visibile sia per quanto riguardava la politica estera, sia sul piano di politica interna. Il Partito comunista sembrava ancora inadeguato a governare, e le ipotesi di alternativa proposte da questi, sembravano impraticabili, ma soprattutto impensabili.
Fin da subito il segretario democristiano aveva accolto la sfida del Partito socialista sul rinnovamento delle istituzioni, che doveva andare a costituire una “seconda fase della repubblica”. «Il nostro discorso sulle istituzioni parte dalla consapevolezza che queste vanno concepite in funzione delle garanzie di libertà che possono aumentare, e non si limita dunque a privilegiare in maniera esclusiva l’esigenza dell’autorità e della decisione, che indubbiamente appartengono alla struttura dei meccanismi istituzionali. E’ per queste ragioni che, per il governo, noi immaginiamo che il problema sia quello della stabilità dell’esecutivo. Ma un esecutivo più stabile deve significare anche un parlamento più libero»: <67 questo è ciò che affermava Roberto Ruffilli, esponente di spicco esterno al partito, impegnato fortemente nel rinnovamento del partito cattolico insieme a De Mita. La riforma delle istituzioni non doveva solo affrontare i problemi aperti per la governabilità e la formazione di maggioranze stabili e solide, ma anche le difficoltà di una sempre maggiore democraticità, con la garanzia della libertà e dell’uguaglianza e con la promozione di una partecipazione reale. Di qui anche l’indicazione da parte della Dc, come obiettivo del processo riformatore, dell’affermazione del cittadino quale attore decisivo del funzionamento della democrazia repubblicana, quale arbitrio vero per la formazione della maggioranza di governo e per il suo ricambio, e quale portatore di intangibili diritti individuali e sociali <68. Per De Mita e per i suoi più stretti collaboratori (tra questi anche Ruffilli), le riforme diventavano il collante necessario per rinvertire lo scollamento che si stava evidenziando tra la Dc e la sua base di legittimazione, ma più in generale tra la cosiddetta “repubblica dei partiti” e quella che si cominciava a definire “società civile” <69.
L’impegno di De Mita nei confronti di questo sistema di riforme, venne esposto chiaramente nel suo intervento in commissione Bozzi il 1° febbraio del 1984, dove presentò i quattro punti di interesse che vennero mantenuti fino alle elezioni del 1987. Bisognava innanzi tutto poter dare una risposta alla domanda dell’opinione pubblica: come la politica può tutelare la libertà del cittadino, la sua facoltà di decisione e quindi come può garantire la sovranità? <70. In secondo luogo, bisognava sanare le lacune lasciate dalla Costituente: era necessario lavorare sulle istituzioni per poter assicurare un’evoluzione degli equilibri politici. In terzo luogo, egli rifiutava un governo presidenziale, in favore invece di un governo di legislatura. Ed infine si opponeva al sistema di voto maggioritario, che veniva considerato non accettabile per il pluralismo politico italiano; con la conseguente approvazione, invece, per il proporzionale <71. La modifica della legge elettorale costituiva, per l’appunto, il “cavallo di battaglia” del programma di De Mita. Egli affermava che: «Il sistema maggioritario cancella i partiti minori, ma è anche vero che, così com’è, questo nostro sistema elettorale, non risponde alle esigenze del paese. Ecco la proposta democristiana: un doppio voto che consenta agli elettori di poter scegliere per un partito e per una coalizione di governo con una quota di seggi riservata, per incentivare la formazione delle coalizioni di governo» <72.
Di fronte ad un quadro politico così complicato da gestire, il segretario De Mita non aveva nessun dubbio sul tipo di politica da adottare per dirigere l’Italia in trasformazione: la soluzione migliore era rappresentata dal pentapartito. Quest’ultimo descriveva la scelta ottimale per guidare la modernizzazione del paese. Egli affermò durante una relazione all’ultimo Congresso che lo vide segretario della Dc, che: «…la formula pentapartitica costituisce il momento di collegamento oggi possibile tra vecchie culture e nuove esigenze. Riflette oggettivamente lo stato di difficoltà in cui è il sistema politico, ma segna anche una linea di possibile evoluzione» <73. Secondo De Mita il pentapartito doveva essere un’autentica maggioranza politica non fondata sulla matematica parlamentare <74, doveva essere una scelta strategica e non di necessità <75, per poter far fronte alla modernizzazione. Allo stesso modo anche il segretario del Partito socialista Craxi credeva in una concezione di pentapartito, che però era opposta a quella di De Mita: il leader socialista, a detta del democristiano, considerava la strategia di pentapartito come una trovata strategica di breve periodo per poter ottenere maggiore potere; era per l’appunto uno stato di necessità <76, per creare le condizioni di un’alternativa alla Democrazia cristiana.
All’interno della Dc, soprattutto nell’ultimo periodo della segreteria demitiana, vi era una vera e propria competizione tra un’ala più aperta al dialogo con il Psi, e una invece più improntata alla riforma del sistema (promossa ovviamente da De Mita). Le critiche nei confronti del riformismo erano un modo per demolire il primato del segretario della Dc. Così Andreotti, prima delle elezioni del 1987, si riferiva alle riforme istituzionali cercando di sottolinearne la “prudenza" con cui dovevano essere prese in esame: «Penso che prima di riformare occorre attuare tutta la Costituzione e correggere le interpretazioni abusive che si sono andate creando. Vorrei che prima le studiassimo (le riforme) bene, e poi ne impostassimo la realizzazione. Sono tutt’altro che contrario, ma prima devo sapere cosa si vuol mettere nello scatolone delle riforme» <77. In una lettera inviata a Mino Martinazzoli nel 1987, Andreotti esprimeva la necessità di contrastare questa mania che incorreva negli ultimi tempi, ovvero quella di una riforma della Costituzione, che poteva mettere in circolo idee pericolose sotto innocue apparenze <78.
In seguito alle elezioni dell’87, Craxi si oppose fortemente ad una candidatura di De Mita alla guida del governo, nella speranza di trovare una terza via. L’incarico venne affidato a Giovanni Goria, che varò un governo pentapartito: egli si concentrò sul Sud e sulla politica di bilancio, non ponendo troppa attenzione sulla questione delle riforme istituzionali. Dopo la breve parentesi del governo Goria, De Mita riuscì a conquistare Palazzo Chigi. Il suo mandato fin dall’inizio fu ostico e difficoltoso, in particolare a partire dalla conquista della segreteria della Dc da parte di Forlani nel febbraio del 1989, ma soprattutto con il Congresso socialista nel maggio successivo. Così come sostenne “La Civiltà Cattolica”, in seguito al governo Goria, qualcosa era cambiato: «si era aperta una nuova epoca della politica italiana, una era delle mani libere, in cui ogni partito agisce per conto suo, perseguendo il proprio obiettivo politico, senza sentirsi legato da vincoli di solidarietà con altri partiti (…), un’epoca di frammentazione politica, che non promette per il paese nulla di buono, poiché la mancanza dei vincoli imposti dalla solidarietà con altri partiti e dalla necessità di perseguire un disegno comune significa instabilità politica e mancanza di prospettive certe per il fututo» <79. L’accordo Andreotti-Forlani era teso ad eliminare definitivamente De Mita: la nascita del governo Andreotti nel luglio del 1989 sanciva, da un lato, la vittoria di Craxi su De Mita. Dall’altro, l’assenza di un accenno alle riforme istituzionali all’interno del discorso del neopresidente del Consiglio, poteva essere letta come la chiusura di un percorso decennale, in cui si era combattuto per l’attuazione di una “Grande Riforma” <80. Poteva però essere interpretato anche come una “vittoria” di Craxi e dell’unica proposta rimasta attuabile: quella di una Repubblica presidenziale, che invece De Mita non aveva mai condiviso. Forlani e Andreotti, fin da subito, preferirono mantenere una linea morbida riguardo al rapporto con il Psi, poiché sembrava essere diventato più facile il dialogo tra i due partiti. Fu proprio questa simpatia che li condusse a firmare un patto di alleanza definito CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), che avrebbe dovuto portare ad una più facile conduzione degli esecutivi. L’esodo della Democrazia cristiana cominciò con le dimissioni del Presidente della Repubblica Cossiga che, nel tentativo di attivare un rapporto con i cittadini tramite le apparizioni televisive, non fece altro che peggiorare la condizione di insoddisfazione e rabbia che gli italiani nutrivano nei confronti della partitocrazia. Fu costretto a dimettersi. A ciò si aggiunse la contestazione di Mario Segni e la rottura di Leoluca Orlando, personaggio non gradito dalla Dc a causa delle sue denunce riguardo il rapporto di favori tra mafia e politica in Sicilia. A questo si addizionò anche il referendum proposto appunto da Segni, con il quale si intendeva cancellare la preferenza multipla, che era indicata come primo strumento per il voto clientelare <81. Il quorum sembrava impossibile da raggiungere, ma Segni lo promosse come un «voto contro i partiti <82», e proprio per questo motivo mobilitò la popolazione ad andare a votare.
A seguito delle elezioni del 1992, salì alla guida dell’esecutivo il governo Amato, che venne investito dalla tempesta giudiziaria di Tangentopoli, la quale gettò fango su tutta la partitocrazia: si venne a delineare un meccanismo di finanziamento molto conosciuto da tutta la classe politica. «Le inchieste giudiziarie di Mani Pulite, esaltate dai fautori di uno stato eticamente integro e denigrate dai critici della magistratura politicizzata, fecero emergere alla luce del sole le profonde trasformazioni verificatesi nella politica italiana. Venuto meno l’originario ruolo di mediazione, tra consenso politico e accesso alle risorse con la crisi finanziaria dello Stato, emerse il nesso stretto tra clientelismo partitico ed estensione della cultura politica» <83. Nel 1992 con i processi su Andreotti, iniziarono a cadere numerosi esponenti della Dc, tra cui anche De Mita, il cui fratello venne arrestato. A quel punto, emerse un nuovo segretario delle correnti di sinistra della Dc: Mino Martinazzoli. Egli puntò in tutti i modi a riordinare gli equilibri ormai rotti del partito, ma senza molti risultati. Dopo il fallimento alle amministrative del 1993, il segretario propose una rifondazione della Democrazia cristiana, attraverso un’Assemblea Costituente che venne convocata proprio nello stesso anno. La Dc modificò il suo nome con Partito popolare italiano (Ppi), per ricordare il legame storico con quello di Sturzo. Dopo circa cinquanta anni di centralità democristiana, la fine del partito era arrivata in maniera così rapida e inattesa.
[NOTE]
61 G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018, cit., pag. 218.
62 De Mita, Relazione al XVI Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, in G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018.
63 Ibidem.
64 Id., Relazione al XVII Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, cit. Anche la precedente citazione è tratta da questo medesimo intervento di De Mita, in G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018.
65 G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018, pag. 223.
66 “Ho cacciato Ciancimino”, Intervista a De Mita, di E. Scalfari, “La Repubblica”, 6 ottobre, 1984.
67 M. S. Piretti, Roberto Ruffilli: una vita per le riforme, Bologna, Il Mulino, 2008, pag. 191.
68 G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018, pag. 280.
69 Ibidem.
70 Ivi, pag. 283.
71 C. De Mita, Politica e istituzioni nell’Italia repubblicana, Milano, Bompiani, 1988, pag. 150.
72 G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018, pag. 284.
73 De Mita, Relazione al XVII Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, in G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018.
74 Ibidem.
75 Relazione al Consiglio Nazionale della DC, Roma, 24 ottobre 1983, cit. in G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018.
76 De Mita, Relazione al XVI Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, cit. in G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018.
77 G. Acquaviva, M. Marchi, P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2018, pag 290.
78 Ibidem.
79 Ivi, p. 295
80 Ivi, p. 296.
81 Ivi, p. 183.
82 Ibidem.
83 S. Colarizi, A. Giovagnoli, P. Pombeni (a cura di), L’italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi III. Istituzioni e politica, Carocci Editore, Roma, 2014, pag. 68.
Carolina Polzella, Dc, Pci e Psi: la crisi delle grandi famiglie politiche nella “prima repubblica”, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2018-2019

giovedì 20 novembre 2025

Il comandante Sartor quindi ordina a Tina Anselmi di raggiungere gli Alleati


Per la fiducia che la brigata ripone in lei [Tina Anselmi] le vengono affidati compiti di rilievo, come quando deve consegnare una radio ricetrasmittente <228 della missione M.R.S.: missioni clandestine che, a partire dall’ottobre 1943, tramite l’uso di radiomessaggi permettono le comunicazioni tra il Comando Alleato, i Comandi regionali e provinciali e il Cln <229. Tina riceve l’ordine di ritirare una radio a Treviso, presso un negozio di alimentari gestito da una donna che militava nella Resistenza, per poi trasportarla a Galliera Veneta, dov’è nascosto il colonnello Galli, Comandante regionale delle formazioni partigiane <230. Trattandosi di una missione importante, le viene raccomandato di non fare la strada principale, fitta di posti di blocco nazisti, ma piuttosto di proseguire per le strade di campagna, più sicure ma che le avrebbero allungato la strada rischiando di farla tardare a scuola. Quindi, di sua iniziativa, decide di procedere per Porta SS. Quaranta e chiedere un passaggio niente meno che a un camion di tedeschi: afferma innocentemente di avere la borsa colma di libri molto pesanti e si fa caricare, insieme alla sua fidata bicicletta. Un gesto incosciente e imprudente, ma che funziona: i nazisti non sospettano di lei e non si preoccupano di perquisirla <231 e Tina riesce ad arrivare a Cittadella. Ma, vedendola scortata dalla camionetta nazista, il partigiano a cui doveva consegnare la radio scappa, temendo che l’avessero arrestata. Non sapendo a chi lasciarla in custodia, prima tenta di entrare in una villa per consegnarla a uno dei figli dei proprietari, anche lui partigiano, ma poi, realizzando che ci sono dei controlli in atto, sale in sella alla bicicletta. Decide infine di gettarla nel canale di scolo vicino, un luogo in cui nessuno sarebbe andato a cercarla. Durante la notte Mario, cugino di Tina, provvede a recuperarla <232.
Oltre alla sua attività da staffetta Tina partecipa, insieme ai compagni di Brigata, al recupero dei materiali lanciati dagli alleati tramite le operazioni organizzate dalla Missione M.R.S.: vestiario, denaro, armi, munizioni, esplosivi per i sabotaggi e talvolta anche uomini. I lanci avvengono nei campi, le brigate segnalano la propria posizione tramite delle luci disposte in modo da formare lettere dell’alfabeto e gli alleati inviano i generi di prima necessità tramite l’utilizzo di paracaduti. I lanci sono organizzati durante la notte: la raccolta dei materiali deve essere svelta ed è necessario assicurarsi di non lasciare tracce che avrebbero potuto insospettire il nemico <233. Tali operazioni sono agevolate dalla collaborazione delle famiglie contadine che offrivano il bestiame per aiutare a trasportare il carico o si offrivano di nascondere le merci, e spesso anche persone, nei propri fienili. La collaborazione della popolazione è fondamentale per la riuscita delle operazioni dei partigiani <234.
Con l’avvento della primavera 1945, la guerra sembra volgere verso la fine: i nazisti sono indeboliti e gli Alleati stanno risalendo la penisola liberando una per una le città italiane, con la collaborazione dei partigiani. Anche nella zona di Castelfranco gli occupanti iniziano ad essere inquieti. Il comandante Sartor è a conoscenza delle direttive per quanto riguarda la resa dei nazisti nelle città, per lo più orientate a una resa senza condizioni. La sua linea di azione, da buon cattolico, è sempre stata orientata alla prudenza, a differenza di Masaccio (al secolo Primo Visentin), comandante della Brigata Martiri del Grappa che opera sul territorio di Riese Pio X, più favorevole ad azioni di aperta insurrezione <235. I due comandanti, nei giorni precedenti alla liberazione, hanno forti contrasti: Masaccio accusa Sartor di “attendismo” e mette a disposizione i suoi uomini per liberare Castelfranco, ma il comandante della “Cesare Battisti” declina l’offerta <236. Secondo il parere di Gino Trentin, partigiano di Resana la cui casa fungeva da quartier generale per la brigata, Sartor esita ad agire con la forza contro i tedeschi in quanto è turbato dall’impiccagione dei tre patrioti di Vallà, avvenuta il 27 aprile <237 in seguito a un rastrellamento, e vuole evitare il ripetersi di episodi simili. “A un giovane […] che sente approssimarsi la fine dell’orrore, morire sembra solo ingiusto ma anche molto stolto” <238.
Il giorno 28 aprile, quindi, Sartor decide di “intimare la resa al Comando tedesco della piazza di Castelfranco, installato in villa Bolasco” <239. Si reca verso la sede del Comando accompagnato da don Carlo Davanzo, parroco di Campigo che ha sempre collaborato con i patrioti, Liliana Saporetti come interprete e Tina <240, una delle sue staffette più fidate. Dopo lunghe trattative per la resa, svoltesi anche durante la notte, viene stabilito che i tedeschi si sarebbero impegnati a non razziare paesi, a non catturare ostaggi, a lasciare palazzo Bolasco e a togliere le mine dagli edifici in cui le avevano installate <241. In cambio sarebbero stati scortati fuori dalla città per evitare ulteriori scontri e salvaguardare la sicurezza della popolazione e degli edifici. Quando il corteo di nazisti si fosse allontanato, i partigiani avrebbero provveduto a creare delle piccole roccaforti difensive nei punti strategici di entrata alla città per impedire, al nemico in fuga, interferenze con l’arrivo degli Alleati <242. Tina è presente in quelle ore piene di tensione ed è consapevole che sta partecipando a un momento fondamentale per la storia della propria città. Probabilmente c’è anche lei tra le staffette inviate, nella notte tra il 28 e il 29, ad avvisare i vari gruppi di partigiani affinché fossero pronti a ciò che sarebbe avvenuto la mattina successiva <243. Una volta terminate le trattative è entusiasta di avervi partecipato e inizia a comprendere che la fine della guerra è vicina, presa dall’impeto prende la bicicletta e si dirige verso casa. Sotto le finestre della camera dei genitori urla a tutta voce: “Abbiamo liberato Castelfranco, siamo liberi!” <244.
Una cruenta vicenda sconvolge, però, le ultime ore della Liberazione di Castelfranco. Il 29 aprile, tra Castello di Godego e San Martino di Lupari, dei soldati tedeschi in fuga prelevano con un rastrellamento più di cento patrioti provocando la ribellione della popolazione: “i partigiani catturati furono legati ai carri armati e trascinati per la strada” <245. Il comandante Sartor quindi ordina a Tina di raggiungere gli Alleati <246, ancora distanti, per impedire ulteriori massacri: lei stessa racconta: “li raggiunsi, mi misero in cima a un carro armato e da lì indicavo il tragitto migliore per fare presto” <247. Di nuovo un compito molto delicato, affidatole per la fiducia che il comandante ripone in lei.
Una delle ultime azioni da partigiana, la svolge il 4 maggio 1945. Si trova in piazza a Castelfranco, schierata accanto ai compagni di lotta, per la consegna delle armi agli Alleati. Il momento viene documentato da una foto, da cui si evince quanto fosse giovane, quanto lei e i compagni fossero tutti dei ragazzi.
[NOTE]
228 Caberlin, Primavera delle ragazze, cit., p. 64.
229 Ivi, p. 62.
230 Ivi, p. 64.
231 Anselmi, comunicazione Ricordi di una staffetta partigiana, cit., p. 123.
232 Caberlin, Primavera delle ragazze, cit., pp. 65-66.
233 Ivi, pp. 67,69.
234 Anselmi, comunicazione Ricordi di una staffetta partigiana, cit., p. 124.
235 Ceccato, Guerra Resistenza e Rinascita di Castelfranco Veneto, cit., p. 132.
236 Ivi, pp. 132-133.
237 Ivi, p. 134.
238 Anselmi, Vinci, Storia di una passione politica, cit., pp. 30-31.
239 Cecchetto, La Resistenza tra Resana e Castelfranco Veneto, cit., p. 59.
240 Ibidem.
241 Pitteri, La giovane Tina Anselmi, cit., p. 41.
242 Caberlin, Primavera delle ragazze, cit., p. 78.
243 Ivi, pp. 78-79.
244 Ivi, p. 85.
245 Anselmi, Vinci, Storia di una passione politica, cit., p. 30.
Anna Zambrano, Lo sviluppo della Resistenza cattolica in Veneto: il caso di Tina Anselmi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2022-2023
 

domenica 9 novembre 2025

I militanti neofascisti ebbero possibilità di trasmigrare con estrema facilità da un gruppo all’altro


Assimilabile al ruolo di pontiere tra l’egemonia marsigliese, di cui fu protagonista, e la debuttante Banda della Magliana, Abbruciati trovò nel testaccino Franco Giuseppucci il punto di snodo per coniugare l’esigenza di reinvestimento dei capitali illeciti con l’arruolamento di manovalanza spuria. Figlio di una famiglia di fornai, Giuseppucci detto “er negro” o “er fornaretto” fu, sin da giovane età, simpatizzante del Movimento Sociale Italiano. Leader della batteria della zona Testaccio specializzato, dopo l’omicidio del suo alter ego Franco Nicolini, nella gestione del gioco d’azzardo e dei prestiti usurai, egli seppe volgere a proprio favore il coevo processo di trasformazione avuto luogo nei comparti criminali autoctoni e nel terrorismo nero. In questo, giocò un ruolo decisivo la pregressa conoscenza con Massimo Carminati, picchiatore neofascista di istanza nella sezione del Fuan di via Siena, nel quartiere Nomentano. Tornato agli oneri della cronaca con l’inchiesta Mafia Capitale, Carminati fu l’icona di una galassia neofascista risorta dopo la contestazione generazionale del '77 e il fallito progetto insurrezionalista di Ordine Nero. In un’Italia in pieno compromesso storico <680, scossa dalla partecipazione frontale dei gruppi giovanili neofascisti nella protesta, e dalla nascita di una corrente missina (Linea Futura) migrata da posizioni evoliane ad un fervente interesse per la questione sociale <681, il terrorismo eversivo, rimasto compresso da un rautismo nuovamente egemonico tra i giovani e dalla resa della vecchia guardia micheliniana, fu chiamato ad una svolta identitaria. Con l’avvento dei Campi Hobbit ideati da Tarchi e Simeone, e con essi delle teorie movimentiste <682, prese vita il tentativo di oltrepassare la dogmatica neofascista del secondo dopoguerra dall’esterno, tracciando lo scenario di una terza via percorribile solo attraverso l’allontanamento dalle memorie storiche del fascismo <683 e la riscoperta di un umanesimo culturale.
A dover di cronaca, va pur detto che questo esperimento di riconversione in un grande movimento nazional-rivoluzionario trova i natali nella cronistoria del pensiero Frediano, impegnato dal 1969 a preparare il terreno per un anarchismo di destra che poté rinnegare tutto fuorché la sua discendenza evoliana <684. Si coniuga con questa visione la collaborazione intrattenuta proprio nel 1977 tra il futuro gruppo dirigente di Terza Posizione (Fiore, Adinolfi, Spedicato, Pisa) e il teologo padovano, artefice di un potere d’iniziativa diffuso fin dentro gli istituti penitenziari attraverso il mensile Quex.
Il tutto conduce, quindi, ad una visione fortemente scettica del mito dello “spontaneismo” armato, volendo in questa sede rimarcare la sua più totale conformazione a dottrine politiche (nichilismo di destra, rifiuto delle strutture gerarchiche, etica del legionario, movimentismo) già preesistenti nel prisma identitario del neofascismo italico, oltre alla totale ingerenza in un mosaico che su Roma incontrava condizioni e necessità contingenti. Più che indicarlo quale metodologia di lotta, si è concordi nel ritenere lo stesso quale zona di confine tra azione politica, sfogo esistenziale e interspazio criminale <685, avvalorando suddetta tesi con evidenze e riscontri probatori emergenti da una sua collocazione strategica nel reticolato delittuoso ad oggetto.
In un clima di per sé rovente, e in una metropoli minacciata dall’espansionismo mafioso, saranno i fatti di Acca Larenzia <686 del 7 gennaio 1978 a suggellare la migrazione di masse giovanili nelle fila della lotta armata. In questo spaccato di romanità andarono, così facendo, a precostituirsi le condizioni per un ritrovato stadio del binomio mala-terrorismo, traente profitto da sincroniche - e parallele - manifestazioni dei percorsi evolutivi intrinseci a sodalizi e gruppi. Per quanto concerne la galassia neofascista, la predisposizione genetica ad una configurazione pulviscolare fu accentuata dall’estrema labilità delle forme organizzative emergenti: una moltitudine di microunità in continuo movimento e scambio di componenti e iniziative, nella quale i militanti ebbero possibilità di trasmigrare con estrema facilità da un gruppo all’altro, o di partecipare indifferenziatamente ad azioni di più gruppi <687. In ordine a tali motivi, laddove il tentativo di fornire una precisa classificazione abbia fallito nel suo intento, rimane pacifico identificare la leadership di questa costellazione associativa in seno a tre grandi scomparti: Costruiamo l’Azione; Terza Posizione, e i Nuclei Armati Rivoluzionari.
[NOTE]
680 N. RAO, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali, Sperling & Kupfer editore, Milano 2006, pag.249.
681 Emblematico fu a riguardo il discorso tenuto dall’On. Pino Rauti nel congresso romano del gennaio 1977. Con il suo intervento l’ex leader del centro studi Ordine Nuovo poggiò le basi per il superamento di una destra conservatrice, corporativista, volgendo lo sguardo a quello che verrà poi etichettato come un tentativo in salsa missina di “gramscismo di destra”.
682 N. RAO, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali, Sperling & Kupfer editore, Milano 2006, pag.252.
683 F. FERRARESI, La destra eversiva, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 74.
684 J. EVOLA, Cavalcare la tigre, Vanni Scheiwiller, Milano 1961.
685 F. FERRARESI, La destra eversiva, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 89.
686 Nell’agguato alla sezione missina di via Acca Larenzia perderanno la vita gli studenti Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta.
687 F. FERRARESI, La destra eversiva, Feltrinelli, Milano, 1984, pag. 78.
Giuliano Benincasa, Criminalità Organizzata. Sviluppo, metamorfosi e contaminazione dei rapporti fra criminalità organizzata ed eversione neofascista: ibridazione del metodo del metodo mafioso o semplice convergenza oggettiva?, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2020-2021

giovedì 30 ottobre 2025

Prigionieri di guerra alleati in Italia durante la primavera-estate del 1943


Tuttavia, la fascinazione provocata dai prigionieri [alleati] scaturiva anche da altro, da qualcosa di molto più concreto: «ai prigionieri di Mariano Comense, a cura della Croce Rossa Internazionale, v[eniva] distribuito inappuntabilmente, ogni settimana, un pacco del peso di kg. 5 circa contenente condimenti, cibarie e generi di conforto di ogni qualità non escluso un pacchetto di the e moltissimi di sigarette, circostanza questa che genera[va] discussioni fra i residenti di Mariano Comense i quali afferma[va]no di non avere essi tanta abbondanza».
Anche Absalom attesta reazioni simili per i distaccamenti dell’area di Monigo dove, «vedendo che [gli Alleati ]consumavano tre razioni al giorno (il pasto al campo, quello al lavoro e i pacchi della Croce Rossa), i contadini e i pastori delle montagne li consideravano “prigionieri in vacanza” che “entravano, uscivano e se ne andavano a spasso come gli pareva”». <575
Invidia e, ovviamente, contatti inevitabili. Per questa fraternizzazione non c’erano soluzioni possibili, sia per la naturalità dei rapporti tra esseri umani, sia per le condizioni di quell’Italia sconfitta e affamata che faceva i conti nei pacchi dei suoi nemici prigionieri. Ai cittadini di Mariano Comense, sosteneva il prefetto, bisognava ricordare che «i prigionieri ciprioti colà accantonati [era]no nemici e non ospiti», e la stessa cosa andava fatta, probabilmente, con in contadini e i pastori di Monigo.
Tuttavia, era difficile, al contempo, negare che quei nemici stessero vincendo la guerra.
Rapporti di eccessiva familiarità tra prigionieri e civili, anche donne, erano attestati per diverse parti d’Italia, anche se a volte si colorivano degli elementi, addirittura “favolistici” prodotti dalla propaganda e introiettati nell’immaginario, a volte in modo così duraturo da essere ancora parte del discorso odierno sull’esperienza di guerra. Ad esempio, nel giugno 1943, gli informatori relazionavano sulle voci che giravano e che dicevano che "nella provincia di Pavia, come anche nel Novarese, presta[va]no servizio agricolo presso le varie fattorie, numerosi prigionieri di guerra anglo-americani, in prevalenza australiani [sic]. Sarebbero [stati] trattati benissimo, con alimentazione migliore di quella dei nostri cittadini! Nelle varie fattorie, poi, essi ricev[eva]no cure e facilitazioni pietistiche dai nostri agricoltori, in stridente contrasto al trattamento, spesso inumano, che v[eniva] invece riservato ai nostri prigionieri di guerra […]. I nostri agricoltori [avrebbero] larghegg[iato] nel regalare loro pane bianco e cibarie. Come anche aderi[va]no a barattare con i «prigionieri» <576 inglesi oggetti e cibarie che a loro arriva[va]no regolarmente in pacchi di cinque chili, cioè: saponette, cacao, cioccolatto [sic], sigarette, lamette da rasoio ecc. Gli accantonamenti di questi prigionieri [era]no in apposite fattorie vicine, requisite, cintate da filo spinato, ma situate in posizione molto salubre. [Era] avvenuto […] che in relazione ai lavori stagionali di mietitura, in qualche fattoria dove esiste[va] l’accantonamento di detti «prigionieri» [era]no state alloggiate (in apposito angolo dello stesso stabile) numerose mondine provenienti dalle varie provincie [sic] vicine. [Era]no tutte ragazze giovanissime sui venti anni e gli australiani [era]no dei bei pezzi di giovanotti che da parecchi mesi non vedevano più donne! Così di notte questi [uscivano] dai propri cameroni per incrociarsi in quelli dove alloggia[va]no le ragazze… e gli effetti di ciò si [sarebbero] v[isti] alle varie scadenze dei prescritti «nove mesi»!" <577
Ancora, nell’agosto successivo la prefettura di Udine riferiva delle indagini svolte dai carabinieri a Torviscosa, dove si diceva che i civili fornissero ai prigionieri addetti ai lavori uova, vino e altri generi di conforto, avendo instaurato con loro rapporti più che informali: si era accertata, in particolare, la relazione amorosa tra un sergente boero e una ragazza del posto, con il beneplacito della famiglia di lei. Soprattutto in merito a questa relazione, i carabinieri avevano escluso «ogni forma di intelligenza a scopo spionistico», addebitando il tutto a «una corrente di simpatia da parte della Sabidussi - la ragazza - verso il sergente prigioniero Visser». <578 Fatto sta che il fascio triestino segnalava con preoccupazione l’«eccessiva libertà» concessa ai prigionieri nei rapporti con i civili, il fiorente mercato nero tra le due parti e, soprattutto, il fatto che «tali relazioni, sia pure di semplice carattere economico, suscita[va]no molti commenti e fa[cevan]o chiaramente capire come la propaganda nemica us[asse] tutti i mezzi per abbattere il morale delle nostre popolazioni in modo da far risaltare la ricchezza e la generosità dei nemici contro la nostra povertà». <579
In realtà la documentazione relativa ai sempre più frequenti casi di fraternizzazione, nella primavera-estate del 1943, è anche il segnale molto chiaro del crollo della compattezza del fronte interno (sempre che questa non fosse un mito del regime fin dall’inizio del conflitto). L’avvicinamento al nemico, la palese violazione delle norme relative alla borsa nera, le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei soldati alleati prigionieri, erano tutti sintomi di un rapido precipitare della situazione, causato innanzitutto dalla fallimentare gestione della guerra, che si dimostrava persa, materialmente prima che politicamente. A questi fenomeni non erano estranei gli stessi appartenenti alle forze armate nazionali - a partire dalle guardie dei campi - che non di rado, in quei mesi, presero a dare palesi dimostrazioni di vicinanza (quando non addirittura di complicità) con i soldati nemici, come evidenziavano sdegnati i funzionari del regime. Nel luglio 1943, ad esempio, alcuni marinai che avevano scambiato con i prigionieri in transito nella stazione di Varano di Ancona del pane per delle sigarette, furono portati a Bari e messi a disposizione di quel comando, probabilmente a fini punitivi. <580 Qualche giorno prima, episodi simili si erano avuti alle stazioni di S. Benedetto del Tronto, Cupra Marittima e Ascoli Piceno. A S. Benedetto del Tronto, durante una sosta del treno che trasportava circa 1.000 soldati nemici in 27 vagoni, i prigionieri avevano lanciato all’esterno alcune scatolette di cibo, presumibilmente non come offerta ma come provocazione nei confronti della popolazione e del personale ferroviario presente. Contestualmente, presso il ristoro militare della stazione erano state acquistate, pare dai militari italiani della scorta, «27 bottiglie di birra et 15 spumante e 4 scatole antipasto», pagate solo in parte ma rivendute ai prigionieri a prezzi molto più elevati del normale. Un manovale ferroviario era stato irriso perché indossava zoccoli di legno - «ecco come vi ha ridotti quel vigliacco di Mussolini, fucilatelo», gli avrebbero detto i prigionieri - e il lancio delle scatolette dal treno in partenza sarebbe stato accompagnato da frasi quali «mangiate morti di fame porci italiani, vigliacchi avete perso tutta l’Africa fra due mesi ve ne accorgerete». Nel frattempo, la scorta assisteva passivamente, quando non dimostrava «eccessiva dimestichezza» con i prigionieri. <581 Ad Ascoli si era ripetuto il lancio delle scatolette: il capostazione le aveva recuperate, rilanciandole nel treno, venendo quindi insultato dai prigionieri con improperi simili a quelli profferiti a S. Benedetto. Un soldato avrebbe anche masticato un biglietto da 5 lire, poi sputato sul viso di una donna. I militari di scorta, tra i quali un capitano e un tenente, avevano ignorato le sollecitazioni a intervenire, limitandosi ad assistere e trattando «i prigionieri con eccessiva confidenza e familiarità, scambiandosi perfino bevande ed altri generi». <582
Episodi come questi fanno intravedere fenomeni di alterità, se non di vera e propria frattura, tra organismi dello Stato: da un lato vi era l’apparato repressivo composto da prefetti, polizia e informatori dell’OVRA, dall’altro le forze armate e soprattutto la loro base gerarchica, composta nella stragrande maggioranza di richiamati e militarizzati, prime pedine inviate in guerra e da essa travolte, e dunque tra i primi ad allontanarsi dal fascismo e da quella che, erroneamente ma talvolta in maniera inconsapevole, veniva considerata la “sua” guerra. Il primo fronte di questa frattura intestina era quindi rappresentato da figure come quelle dei prefetti, che relazionavano al capo della polizia circa gli episodi avvenuti nelle Marche, raccomandando punizioni esemplari per i soldati delle scorte che, «mentre la Patria in armi compi[va] supremi sforzi di volontà e di sacrificio», si erano dimostrati «di una incoscienza senza pari», al punto da non sentire «neppure il dovere di difendere la dignità della divisa che indossa[va]no». <583 O dallo stesso capo della polizia che, dal suo canto, scriveva al gen. Sorice, sottosegretario al ministero della Guerra, raccontandogli gli episodi marchigiani e commentando che «se [era] vero e non si fucila[va] questa gente, sar[ebbe stato] bene andarcene a spasso». <584 Il secondo fronte era quello, appunto, dei militari di scorta e delle sentinelle dei campi, sempre più lontane dallo Stato e sempre più vicine, con il passare dei mesi, ai prigionieri che sorvegliavano. Indosso ad alcuni di questi ultimi furono rinvenuti, nell’aprile 1943, gli indirizzi di militari italiani di ogni grado, e tale rinvenimento fu interpretato, probabilmente a ragione, come un segnale della «riprovevole e dannosa familiarità o dimestichezza tra il personale dei campi di concentramento ed i pg.». <585
Una frattura insanabile, dunque, tra due parti dello Stato. Al centro, l’abisso in cui era precipitato il paese, mentre il peggio doveva ancora venire. La strange alliance <586 tra prigionieri di guerra e civili italiani che sarebbe scattata, da lì a qualche settimana, con l’armistizio - una forma di solidarietà nata quasi naturalmente tra persone che si riconobbero come simili e tesero spontaneamente all’aiuto reciproco - ebbe senza dubbio parte della sua origine ai bordi dei campi di prigionia e nei distaccamenti di lavoro. Lo dimostra, tra i tanti esempi, ciò che accadde dopo l’8 settembre al campo di Mortara, che stava per cadere nelle mani dei tedeschi. L’ufficiale italiano che lo comandava aveva però già preparato i propri prigionieri, che furono pronti a raggiungere le fattorie dove avevano lavorato fino a pochi giorni prima, e a trovarvi riparo e aiuto. <587 Come attesta Absalom, la fuga armistiziale di molti degli alleati impiegati nei distaccamenti di lavoro settentrionali fu organizzata e spesso personalmente guidata proprio da comandanti e sentinelle italiani. <588 Quella forma di resistenza, civile e non solo, non nasceva dal nulla.
[NOTE]
575 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 352. Lo studioso aggiunge: «Questo quadro quasi idilliaco è confermato da un’altra testimonianza ufficiosa: […] il memoriale del campo PG 103/6, scritto da Arthur Douglas, raffigura, per lo più attraverso schizzi e vignette, una vita abbastanza spensierata, trascorsa tentando di sottrarsi al lavoro e prendendo in giro le guardie italiane» (ivi, pp. 352-353).
576 Tra virgolette nel testo, qui e di seguito.
577 ACS, MI, DGPS, A5G, II GM, b. 118, f. 59, Nota anonima stilata a Roma il 25 giugno 1943. Il prefetto di Novara smentì tutte le dicerie: Ivi, il prefetto di Novara Ballero, «Prigionieri di guerra in provincia. Trattamento alimentare e rapporti con mondine del luogo», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 30 luglio 1943.
578  Ivi, il prefetto di Udine U. Mazzolani, «Rapporti fra prigionieri di guerra inglesi e popolazione», relazione al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 18 agosto 1943. Tra le prove del rapporto tra la ragazza e il prigioniero vi erano un biglietto amoroso, una fotografia e, soprattutto, un disco con l’incisione del suono di fisarmonica e di una nenia in boero prodotte da Visser e incise da Sabidussi.
579 Ivi, PNF-Direttorio Nazionale, Scorza, «Segnalazione. Rapporti tra prigionieri inglesi e popolazione», nota al capo della polizia Chierici, 8 maggio 1943.
580 Ivi, il prefetto di Ancona F. Scassellati Sforzolini, «Incidenti verificatisi fra militari italiani e prigionieri di guerra inglesi e americani», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 12 luglio 1943.
581 Ivi, Commissariato di PS di Ancona, vicequestore A. Ayroldi, «Incidente tra il personale ferroviario e prigionieri di guerra di transito S. Benedetto del Tronto», nota al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 30 giugno 1943. Ayroldi indagò su questo e sugli altri «fatti incresciosissimi», e sostenne che essi fossero «in parte provocati dagli elementi preposti alla vigilanza ed alla scorta dei prigionieri, ed in parte determinati dal totale assenteismo ed incomprensione della scorta stessa». Tali eventi avevano provocato nei presenti, a suo dire, «una vera demoralizzazione e commenti e critiche nelle forme più varie e più spinte»: Ivi, Id., «Trasporto prigionieri di guerra», relazione al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 1° luglio 1943. Una versione diversa di tale relazione è conservata nello stesso fascicolo e riporta il timbro «visto dal Duce».
582 Ivi, il prefetto di Ascoli Piceno G. Broise, «S. Benedetto del Tronto. Transito prigionieri di guerra», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 3 luglio 1943. A Cupra Marittima un soldato e un prigioniero erano stati visti passeggiare insieme, e il primo aveva appoggiato «confidenzialmente una mano sulla spalla» del secondo (ibidem).
583 Ivi, minuta a mano, su carta intestata del prefetto di Ancona Scassellati Sforzolini, a Chierici. Non è dato sapere se la lettera fu poi trasmessa. Il prefetto suggeriva di utilizzare, per le scorte, «più idonei robusti nuclei di autentici squadristi».
584 Ivi, Lettera di Chierici al gen. Sorice, 1° luglio 1943. Qualche giorno dopo, l’ufficio prigionieri dello SMRE emanò una circolare che ricordava le «Norme» per il trasferimento dei prigionieri, per ovviare a «le seguenti principali manchevolezze: superficialità delle perquisizioni alle quali ven[iva]no sottoposti i pg. prima del trasferimento; rilassatezza e trascuratezza del personale di scorta […]; scarsa efficienza del materiale rotabile impiegato e mancata adozione nelle stazioni di adeguate misure di ordine»: AUSSME, M7, b. 3131, f. 1, SMRE-UPG, Manca, «Norme per trasferimento di pg., perquisizioni, personale di scorta, materiale ferroviario», nota allo SMRE-Direzione superiore trasporti e ad altri, 12 agosto 1943.
585 AUSSME, N1-11, b. 1243, DS dello SMRE-UPG-Segr., mesi di marzo-aprile 1943, all. 143, Manca, «Nominativi e recapiti di militari addetti in campi di concentramento in possesso di pg.», 19 aprile 1943. L’ufficio prigionieri dello SMRE ordinò ai comandi dipendenti di comunicare agli addetti ai campi che in nessun caso tali recapiti dovevano essere resi disponibili ai prigionieri, che potevano usarli «come attendibile riferimento a pretesi maltrattamenti subiti dai prigionieri», oppure «per munire agenti al soldo nemico, che dovessero agire nel Regno, di falsi documenti che, per loro riferimento a connazionali realmente esistenti, sarebbero [stati] con maggiore difficoltà identificabili», o ancora essere «indicati quali mittenti nella spedizione di opuscoli sovversivi o di propaganda antinazionale clandestinamente introdotti nel Regno».
586 L’espressione fu utilizzata da Noel Charles in un discorso ai coadiuvanti tenuto a Roma nel maggio 1946, così come riferito da Absalom, che l’ha utilizzata per il titolo del suo libro A Strange Alliance, tradotto in italiano vent’anni dopo con il titolo L’alleanza inattesa: si veda, in questa edizione, a p. 11.
587 TNA, TS 26/95, Brig. Venable, Director of PW Sub Commission, «Conduct. General Massena», rapporto al DPW, 15 novembre 1943.
588 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 177 e passim.
Isabella Insolvibile, I prigionieri alleati in Italia. 1940-1943, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno accademico 2019-2020