A sinistra Dantilio Bruno, a destra Carlo Gallinella (che dà la mano a Carlo Carletto Cattaneo, già comandante partigiano, deceduto l'anno scorso): fotografia scattata in Fontane, Frazione di Frabosa Soprana (CN) in occasione della manifestazione citata infra |
[...] Da esso traspaiono episodi che possono assomigliare ad altri già letti in epoche diverse. Ma in essi traspare un afflato di umanità e di freschezza che corrisponde a delineare la statura portante dell'autore.
L'episodio del partigiano incolpevole, che trascina dentro di sé il rimorso per lo sterminio di una famiglia di contadini fino ad arrivare a suicidarsi è tra le pagine più belle.
In quelle zone descritte nel romanzo Dantilio ha voluto tornarci recentemente, contattando partigiani protagonisti di quelle pagine epiche e dolorose, promuovendo un ritorno nella località di Fontane (Frabosa) ove i partigiani delle brigate di Cascione e di Vittò trovarono rifugio nell'ottobre del 1944. Insieme all'ANPI ha voluto esprimere con quell'incontro, avvenuto lo scorso ottobre, la sua gratitudine e la sua riconoscenza per quelle popolazioni con la grande umanità che connota il suo modo di intendere la vita.
[...] al primo posto continua a porsi l'affetto e la riconoscenza verso quei protagonisti superstiti che scrissero le pagine più belle del popolo italiano (o per lo meno quella parte migliore di esso, è forse meglio precisare) incontrando ovunque i partigiani, i loro eredi, le famiglie, porgendo loro il nostro saluto e la nostra presenza gentile e partecipe, a significare che ci si ricorda di loro.
Il libro, scorrevole e delicato, che vi accingete a leggere, se ne comprenderete l'afflato più pregnante, è portatore di questo messaggio, fatto soprattutto di una grande carica di coerenza, di coraggio e di umanità.
Carlo Gallinella, Segretario ANPI di Ventimiglia
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Nota dell'autore
Nell'immediato dopoguerra, periodo in cui ho ambientato liberamente questo mio lavoro, nelle cucine di tantissimi italiani si poteva quasi sempre trovare almeno una caffettiera sempre pronta, una radio sempre accesa ed un fiasco impagliato di vino, comprato alla Cooperativa.
Inoltre, attaccate ai muri c'erano immancabilmente le foto di qualche giovane col vestito da sposa e un'altra dove c'era un giovanotto con la divisa d'alpino. Appoggiata sopra un seggiola o custodita accanto a un divano c'era quasi sempre "Grand Hotel", una rivista femminile avidamente letta da tutte le donne della famiglia: quelle più anziane, quelle più giovani e le giovinette più curiose. Veniva letta, magari facendo gli schizzinosi, anche da uomini maturi e da ragazzetti appena svezzati dal "Vittorioso" o in certi quartieri operai dal "Pioniere", simpatico giornaletto per ragazzi che rivaleggiava col giornale cattolico con gran disappunto di parroci e di curati.
Rina, la protagonista di questo breve romanzo, era una di quelle che ogni venerdì attraverso la lettura di quel giornale entrava in un mondo virtuale, dove poteva emancipare, leggendo racconti d'amore e di vita, continuando nel frattempo ad immaginare un mondo che forse non sarebbe mai venuto.
"Grand Hotel", più ancora della "Domenica del Corriere", più del "Vittorioso", più di tanti fumetti, contribuì a formare in maniera meno bigotta un'intera generazione di italiani che attraverso quelle pagine cominciò ad amare la lettura.
"Grand Hotel" fu in quegli anni confusi un veicolo importante, spesso una locomotiva, con cui partire per soddisfare sempre nuove curiosità. Innumerevoli furono gli analfabeti e le analfabete che, sillabando su quelle pagine, cessarono di esserlo
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Poca carne, molte ossa
Ogni volta che ripenso a Mario, e questo mi capita spesso, mi viene alla mente Pin, l'imberbe protagonista del romanzo di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno.
Perché Mario facesse di cognome Giordano e non portasse invece quello del marito di sua madre, né tantomeno quello del padre, è stato per me un dilemma non facile da sbrogliare.
Il vero padre, un facoltoso proprietario terriero di un paese in provincia di Cuneo che, dopo aver sedotto l'allora giovanissima mamma di Mario, l'aveva, come ci si esprimeva allora, vilmente abbandonata.
Non ha mai portato neppure quello della mamma che, poco tempo dopo averlo messo al mondo, era stata costretta ad affidarlo a una balia, la quale, un giorno, aveva fatto perdere le proprie tracce.
Mario fin dalla prima infanzia ha invece portato il cognome di una modesta famiglia contadina di Vinadio che, dopo averlo ottenuto in affidamento quando aveva appena poche settimane di vita, lo aveva poi adottato davanti alla legge. Una famiglia di gran brava gente, dignitosamente povera e laboriosa, dove per anni, ignaro di tutto, Mario si è sempre sentito circondato dallo stesso affetto riservato agli altri suoi fratelli più grandi.
Anzi, come a volte succede all'ultimo arrivato, il più vezzeggiato e il più protetto
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Occhi giovani e ingenui che ci offrono una visione, senza esaltazioni o ideologie, di quanto accadde a uomi e donne di quelle vallate. Avvenimenti che inevitabilmente e indelebilmente hanno profondamente inciso, nel bene e nel male, nelle coscienze degli abitanti della Granda, terra dura, aspra e difficile, ma sempre madre e non matrigna dei suoi figli. E la Granda, la provincia di Cuneo, accompagna e colora l'intero romanzo, anche quando siamo trasportati in altri luoghi, dalla Costa Azzurra alla montagna del Gangapurna. Un territorio marginale geograficamente, di tradizioni e costumi solo apparentemente immutabili e immodificabili, in realtà solo difficilmente degradabili. Una terra feconda che ospita, come conclude l'autore, i semi che, germogliando, porteranno ai frutti di un indefinito oggi che, forse, arriverà domani. Un libro scritto col cuore in mano. Un libro che ha rubato, nella memoria dell'autore, momenti vissuti che volevano restare nascosti... forse. Leggendolo rendiamo a Dantilio un'assoluzione per aver rubato a se stesso memorie che col tempo potevano perdersi e non rivivere come noi volevamo. Alfredo Schiavi
Dantilio Bruno, La donna che leggeva Grand Hotel, Antea Edizioni, 2014