venerdì 11 dicembre 2020

Giacomo Sartori: scrivere sulle proprie radici (trentine)


Nei libri di Giacomo Sartori la famiglia è un trauma sempre presente, spesso in forme (magari velatamente) autobiografiche. E per estensione si arriva induttivamente anche alle radici territoriali, trentine, del trauma familiare. Ma il tema non era mai stato affrontato con la chiarezza che trovo nei suoi ultimi recenti scritti: la raccolta poetica in morte della madre Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), ed il breve racconto La geografia della mia infanzia, il suo contributo alla antologia di scrittori triveneti Lettere da Nordest (Helvetia, 2019).
Il libro in cui aveva affrontato più di petto le questioni familiari, fino ad ora, era stato Anatomia della battaglia, pubblicato nel 2005. È un romanzo dedicato - ovviamente con tutte le libertà della fiction - al rapporto di un figlio ex-sessantottino con l’anaffettivo padre, vecchio fascista impenitente, ma ormai melanconicamente nostalgico in un secondo Novecento che si muove in tutt’altre direzioni, mentre lui rimane organicamente avvinghiato alle radici storiche, culturali ed anche psicologiche del suo fascismo. Del mito superomistico del fascismo è rimasta in campo solo una passione ideologica per la montagna (molto trentina), come luogo in cui si sublima la fatica, i propri limiti vitali, nella “Grande” impresa della conquista delle cime alpine. E la famiglia, per altro tutt’altro che coesa, si ritrova unita solo in questo: nelle marce in montagna condotte col fiato in gola dietro al padre che impone il ritmo, come un ubbidiente manipolo alpino dietro al suo comandante.
Il rapporto padre-figlio, agli inizi visceralmente conflittuale, man mano che scorrono gli ultimi decenni di fine-secolo, e si costruisce l’esperienza del mondo del figlio, diventa non meno conflittuale ma più problematico, per qualche somiglianza che il figlio riscontra, nel proprio intimo, fra la sua esperienza e quella del padre.
«Il ventennio e la guerra erano ormai lontani anni-luce, appartenevano a un periodo senza più mordente sul presente: un capitolo come un altro della Storia. La depressione che lo aveva assalito quando aveva smesso di lavorare, e dalla quale non si era ancora completamente rimesso, si era portato via le ultime scorie di quel passato che per lui era sempre stato così importante, come una mareggiata che lava e spiana la sabbia. Tutte le sue certezze erano crollate. Ma anche le nostre velleità rivoluzionarie, mi dicevo ricalcando i suoi passi lenti e implacabilmente regolari, erano ormai una nebbia lontana. La Storia aveva fatto una delle sue piroette da illusionista, aveva trasformato la lucente lama di acciaio in un fazzoletto senza consistenza né peso» (p.42).
In quel romanzo familiare era la figura del padre ad essere sotto i riflettori. La figura materna risultava laterale: un personaggio anche lei in fuga da quel giogo, sempre pronta a partire per lidi lontani. In questi ultimi due testi, invece, è la componente femminile della famiglia che si prende il centro della scena, la madre e la nonna, con la sua casa in collina, in mezzo alle vigne, che infidi contadini coltivavano per lei. Ed insieme a loro, il contesto della città natale di Trento, alla quale Giacomo aveva già dedicato un pezzo al vetriolo in Autismi.
L’ultimo libro, Mater amena, devia dall’abituale terreno di scrittura di Sartori - la razionale consequenzialità della narrativa - verso la più ambigua poesia: è un testo che attraversa la contraddittorietà, e il modo migliore per prenderlo è decriptarlo analiticamente.
Mater amena nasce da una esperienza lacerante, la morte recente della madre dell’autore. Sartori aveva scritto di famiglia spesso in modo sarcastico. Ma si può fare sarcasmo in questo caso?  E poi, soprattutto, c’è un altro sentimento, stavolta, che tarpa le ali dell’ironia.
 

Non si può dire che mi manchi

anzi è un sollievo

(come dopo tante parole

si predilige il silenzio)

mi manca

la mancanza

d’averti mancata

Qui è evidente la contraddittorietà dell’abbinamento mancanza / sollievo: due termini che dovrebbero essere divergenti e che qui invece si fondono nella stessa poesia, per raccontare una mancanza che reca sollievo. Se c’è qualcosa di lacerante e contraddittorio sono proprio i rapporti familiari: fusione / separazione, somiglianza / differenza, affetto / ripulsa, potere / insubordinazione, perpetuazione / distacco. In questo libro, cogliendo l’occasione della celebrazione di un distacco, Sartori mette in scena proprio questa doppiezza sfuggente, facendola vivere nei suoi versi. Chi siamo, noi ed i nostri genitori? Da dove veniamo?


Ciò che mi orripilava 

lo ritrovo in me

(è anzi il fulcro?)

l’impossibilità di amarti

è l’incapacità di amarmi

Qui siamo al dualismo originario dell’uno e l’altro fusi assieme: madre/figlio. Siamo al proprio contraddittorio doppio. È la doppiezza originaria della vita, la sua non linearità, l’indistricabile ambivalenza dell’animo umano.
Ma Sartori riesce comunque a condurre anche questo intrico indistricabile ad una radice storica del rapporto madre/figlio, al successivo sviluppo in esperienze storiche diverse, a diverse culture generazionali. Alla differenza che nasce nella Storia, nel chi viene prima e chi dopo, e insomma in quella che ormai è la non trasmissibilità dell’esperienza storica fra una generazione e l’altra, o forse su una trasmissibilità familiare ormai inevitabilmente distorta.


Il tuo fascismo



il tuo fascismo

erano le libidini

d’un corpicino

indomito e ligio

i severi precetti

che gli imponevi

la tua perseveranza

il tuo fascismo

era febbre

di forme

bellezza

vestiti

mobili antichi distinzione

il tuo fascismo era dispatia

il sentirti superiore

a volgo e cafoni

alla gentucola

sprezzo di debolezza

inclusa la tua

(figuriamoci la mia)



il tuo narcisismo

sintetizza la terapeuta

«I versi di Sartori - dice nella postfazione Helena Janeczek - riportano ad una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta … la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio ad una mancanza originaria» (p.151). Ha ragione Janeczek, questo è un passaggio molto interessante, che usa la poesia in maniera insolitamente produttiva, capace di farla transitare dal terreno delle profondità psichiche espresse dalla contraddittorietà condensata nel linguaggio, al campo esterno - collettivo - della Storia, e quindi ad una dimensione narrativa ed autobiografica: i “severi precetti” imposti al “corpicino indomito” ricordano le pagine della Anatomia della battaglia sulle marce in montagna, sulla cultura paterna della sublimazione dei propri limiti nei “Grandi” obiettivi.
 

Giacomo bambino e la madre

Dove si ferma Mater amena riprende il discorso il racconto La geografia della mia infanzia. E il termine che traghetta da un testo all’altro è, questa volta, dispatia: «il tuo fascismo era dispatia». Un contrario della simpatia, quella che certo nonna e madre non provavano per i contadini dei dintorni della villa sulla collina di Trento: un Trentino rurale, antropologicamente lontano dalla sottostante città dove la madre si rifugiava con rapide fughe per fare acquisti, portare ad aggiustare le pellicce, incontrarsi nei caffè con le amiche ed andare al cinema. Dispatia per questo popolo di contadini, come quello che le curava la campagna: «lui entrava dalla porta sul retro, e salutava con la testa bassa, scalcagnato Sancho Panza con il cappello in mano. Lo stesso uomo sovrappeso avanzava però tra i filari di viti con ondeggiamenti spavaldi da vincitore».
Giacomo ci offre in queste poche pagine un efficacissimo ritratto dall’interno di una declinante borghesia con proprietà agrarie, che le stanno sfuggendo di mano, le sono ormai estranee, diventano un territorio nemico, in cui «imperversavano» i contadini. E Giacomo ce ne spiega la ragione: «perché i tempi - questo non potevo saperlo - erano cambiati, la mezzadria era stata abolita». Una borghesia declinante in questi modesti inizi di modernità, che non è ancora l’età del benessere (qui arriverà negli anni ’70-’80), ma in cui il mondo popolare, che in Trentino non è operaio ma rurale, dopo la guerra e il fascismo, non piega più davvero la testa, ormai forte della sua egemonia in epoca democristiana.

Da questo territorio nemico, invece, il figlio ribelle viene attratto: «potevo scorrazzare come mi piaceva, entrare nelle stalle. A differenza dei miei avevo messo le radici in terra nemica» (non è dunque un caso che Giacomo Sartori sia diventato un agronomo, uno studioso del suolo).
Dalla collina il figlio ribelle scende per andare a scuola, a fare il liceo, fra i «rampolli delle famiglie che consideravano il tedesco una lingua più importante dell’inglese. Le famiglie che per secoli avevano intrallazzato con i conti del Tirolo. Lì si era ancora in pieno Ottocento clericale, l’Italia era ancora molto lontana». La conclusione del raccontino è lapidaria, e perfettamente autobiografica: «Sapevo già che sarei andato via, nel mondo».

Giacomo Sartori, Mater amena, postfazione di Helena Janeczek, Osimo (AN), Arcipelago Itaca, 2019
Lettere da Nordest, a cura di Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo, Venezia, Helvetia, 2019
Giacomo Sartori, Anatomia della battaglia, Milano, Sironi, 2005

Roberto Antolini in Spiccioli di storia, letteratura e altra umanità, 6 novembre 2019