sabato 17 luglio 2021

Ceronetti sa bene che la tradizione del romanzo non è un lungo fiume tranquillo


Dopo «una lunga vita spesa quasi interamente lavorando nel verso, nell’aforisma e nella colonnina di giornale», <1 ossia nella concentrazione, nelle clausole lapidarie e nelle accensioni sapienziali delle forme brevi, nel 2011 Guido Ceronetti si è avventurato nella «terra ignota» del romanzo.
Ed è stato talmente convincente nel presentare In un amore felice come un unicum, da far dimenticare a quasi tutti i recensori il remoto precedente di Aquilegia, uscito quasi quarant’anni prima, nel 1973, e successivamente rivisto e riproposto nel 1988. Due titoli (tre, se ci si concede di annettere al genere anche La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria) non sono forse sufficienti a fare di Ceronetti un romanziere, ma certo incrinano la superficie liscia del rifiuto che lo scrittore ha sempre opposto al genere elettivo della modernità. E possono essere un buon punto di partenza anche per riconsiderare il suo rapporto con la modernità tout court.
Scrivere, come fa Franco Cordelli, che «Ceronetti odia il romanzo, la forma moderna dell’arte dello scrivere, forse perché arriva “dopo il moderno”», <2 significa risolvere quel rapporto nei termini di un’indispettita condizione postuma che si autorisarcisce con un esilio volontario, prendendo talmente alla lettera l’antimodernità dell’autore da esasperarla fino al fraintendimento.
Semmai è vero il contrario. Ceronetti non muove la sua critica alla modernità da una Tebaide intatta, ma dal cuore «appestato» della modernità stessa. E non odia genericamente il romanzo, ma la standardizzazione del mercato, «le macchine editoriali» <3 che lo hanno trasformato in «un surrogato industriale », <4 perché la sua concezione del genere è assolutamente moderna, o più precisamente modernista, quando non addirittura avanguardistica, se è vero, come lui stesso afferma, che dietro Aquilegia ci sono l’«anarchia mentale dei surrealisti» e la lezione di «Buñuel, Ernst, Artaud». <5
Da moderno, Ceronetti sa bene che la tradizione del romanzo non è un lungo fiume tranquillo ma un percorso accidentato pieno di scarti, diramazioni laterali, inversioni di marcia, e che le sperimentazioni novecentesche hanno sovvertito il genere così profondamente da metterne in crisi persino lo statuto: «Il processo non è un romanzo e neppure una favola: forse è un trattato, un sastra. Romanzi ne hanno fatti Simenon, Pierre Mac Orlan; non Kafka, né Jünger, né Céline ...». <6
È in quest’ultima genealogia che va collocato il Ceronetti romanziere. Ossia nell’orizzonte di un ripensamento radicale della funzione fabulatrice, che scarta il canone della verosimiglianza per «risalire verso un’esatta percezione narrativa, ritentando à rebours la filogenesi del romanzo, e procedendo dal sogno alla fiaba, e dalla fiaba al mito». <7
Cos’è del resto La vera storia di Rosa Vercesi, sotto la superficie del racconto-inchiesta, se non il tentativo di sottrarre un caso di cronaca nera all’orbita truce del feuilleton per restituirla a quella di Shakespeare e di Dostoevskij e, ancora più indietro, al «luogo eterno del Tragico » al quale entrambi hanno attinto? <8
In virtù di questa opzione, avanguardistica e «arcaica» al tempo stesso, i quasi quarant’anni che separano Aquilegia da In un amore felice si riducono a un dato puramente estrinseco, lasciando affiorare le profonde affinità strutturali e tematiche che legano i due testi.
Entrambi organizzano i modi e la materia di una «forma semplice» - la fiaba nel primo caso, la leggenda biblica nel secondo - «entro lo schema facilissimo del viaggio iniziatico». <9
Che è non solo la struttura ricorrente dei congegni narrativi ceronettiani, ma la modalità privilegiata del suo esperire e scandagliare la realtà (basti pensare a Viaggio in Italia, La pazienza dell’arrostito, Albergo Italia), <10 perché da un lato rompe la continuità dello spazio e del tempo ordinari per introdurre in una dimensione altra, configurandosi di volta in volta come itinerarium mentis, discesa agl’inferi, uscita dal mondo, dall’altro si presta docilmente all’innesto ripetuto di episodi autonomi, secondo un procedimento di accumulo o collage che ha il compito di preservare, nella durata del romanzo, uno spazio per le accensioni sapienziali, visionarie o meditative della scrittura breve.
[...] E poiché entrambi sono potenzialmente senza fine <15 - il viaggio iniziatico per la sua natura modulare, ogni singola tappa per il procedimento di accumulo che la connota - la storia di Olàm e di Enarchì non può che concludersi nel nulla; ossia, alla lettera, alla fine del Tempo e del linguaggio, quando il racconto realizza la propria tensione alla negazione di sé nell’ineffabile dell’esperienza mistica o nell’infanzia (infans, colui che non parla) della pre-storia individuale e collettiva: «Fu veramente Aquilegia, perché non dicevamo: finalmente Aquilegia, non pensavamo: Aquilegia è nostra; non godevamo di Aquilegia, non sapevamo di Aquilegia, non pensavamo neppure: Aquilegia». <16
Nella struttura narrativa più complessa di In un amore felice i viaggi sono molteplici: a quello «terrestre» dei due protagonisti da una città di mare senza nome fino a Parigi, Washington e Puerto Rico, in cerca di un contatto ravvicinato con gli alieni, s’intersecano il cammino d’espiazione di Ada, la madre veggente e infanticida che si concede alle creature dello spazio per purificare se stessa e salvare l’umanità intera, e il riattraversamento simbolico della bellezza e dell’orrore del Novecento, che Ceronetti affida all’occhio da fotografo del suo alter ego Aristide Boronovici: la guerra di Spagna e le macerie di Berlino, il miliziano di Robert Capa e i versi di Machado, Juliette Gréco e le latterie di Roma, Orson Welles e la bomba atomica, i carri armati sovietici a Budapest e gli esperimenti di Tesla con l’elettricità.
Ma tutti sono racchiusi, e conclusi, nell’unico viaggio che conta: quello che conduce Aris e Ada, attraverso «una delle indecifrate tarlature del mondo», <17 all’incontro con i loro doppi «edenici»: "Se in quel momento il libro della Genesi si aprisse la sua voce direbbe: «Erano nudi entrambi, l’uomo e la sua donna, e non ne avevano vergogna». ... Ed ecco muoversi da quell’apparente Laggiù orizzontale ... due esseri che via via avanzando assunsero aspetto di coppia umanoide, di corpi simili ai loro, teste normali, sesso distinguibile ... Una voce molto musicale, non emessa dai due corpi della coppia umanosimile, così sbalorditivamente umanosimile, affermò di essere Aristide e Nada". <18
Alla maniera degli eroi delle fiabe e dei miti, ma anche di K., dell’Innominabile, i protagonisti dei romanzi di Ceronetti non hanno nome proprio, oppure ne hanno troppi, come Ada-Nada-Nanda, o troppo scopertamente simbolici, come Olàm («in principio») ed Enarchì («tempo lontano»); non hanno biografia, oppure, come Aris, ne hanno una talmente esemplare da coincidere con quella del secolo; non hanno psicologia né appartenenza sociale. La loro unica connotazione significativa è quella di genere: sono un uomo e una donna saldati nel duale dell’«eterna coppia umana», incarnazione della perfezione androgina, simbolo vivente della non separazione delle origini.
[...] Si è detto in principio dello spazio residuale occupato dal romanzo nella produzione ceronettiana. Ma non si è detto tutto se non si tiene conto anche della sua collocazione, che sembra smentire quel destino ancillare. La prima edizione di Aquilegia è del 1973, In un amore felice del 2011: come due sfingi sorelle, presiedono due momenti chiave del percorso dell’autore, quello della formulazione di una poetica e quello del bilancio di una vita. Ed è quanto meno curioso che in entrambi lo spregiatore del romanzo Ceronetti abbia sentito il bisogno di affidarsi alla narrazione. Come se l’atto del narrare, secondo gli schemi più strettamente connaturati a esso e «alla sua natura implicitamente profetica» (il mito, la fiaba, la leggenda), fosse la forma primaria di ricerca della verità. <23
Allora si potrebbe rovesciare la gerarchia dei generi frequentati dallo scrittore: se è vero che, dal punto di vista tematico, i suoi romanzi sono perfettamente coerenti col resto della sua produzione, alla quale di fatto non aggiungono nulla, e sul piano stilistico risentono del saggio, dell’aforisma, del diario filosofico, è altrettanto vero che una tenace vocazione narrativa s’insinua nel saggio, nell’aforisma, nel diario, e persino nella colonnina di giornale - dove tra l’altro, come sapeva bene Dostoevskij, sono nascosti in embrione migliaia di romanzi.
1. G. Ceronetti, In un amore felice. Romanzo in lingua italiana, Adelphi, Milano 2011, p. 9.
2. F. Cordelli, Quell’antica vocazione del libro sapienziale, «Paese Sera», 31 agosto 1983, citato in G. Marinangeli, Guido Ceronetti, il veggente di Cetona, Fondazione Alce Nero, Isola del Piano 1997, p. 23
3. T. Nuvolati, Colloquio con l’autore di «Aquilegia» sulla sua «favola sommersa », in G. Ceronetti, Aquilegia, Einaudi, Torino 1988, p. 229.
4. G. Ceronetti, La vita apparente, Adelphi, Milano 1982, pp. 308-309: «Agli epigoni del grande circo succedono le larve, oggi il romanzo è morte che vive in un respiratore, un surrogato industriale. Si pubblicano romanzi come la Disney
seguita a rovesciare nelle edicole di tutto il mondo i suoi Topolini morti».
5. Nuvolati, Colloquio con l’autore di «Aquilegia», p. 231.
6. Ivi, p. 229.
7. E. Sanguineti, Il trattamento del materiale verbale nei testi narrativi della nuova avanguardia, in Gruppo ’63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Feltrinelli, Milano 1976, p. 217.
8. Tutto in Rosa Vercesi, i moti dell’anima, le ambizioni, i desideri, le azioni, perfino lo stile epistolare, «ha un rapporto con la bestiale letteratura che si teneva in casa», odora «di Montépin o di Zévaco (o di quell’orribile grafomane torinese, autrice del Bacio di una morta, Carolina Invernizio)» (G. Ceronetti, La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino 2000, p. 39). Quanto più questo accostamento è facile, questa somiglianza patente, tanto più l’autore s’impegna a riscattarla, specchiandola in un’altra letteratura: «In una così perfetta dannazione la parola di Amleto a Orazio (V, sc. 2): There is special providence in the fall of a sparrow, depone un balsamo ... Ma Dostoevskij osservava che approfondendo semplici fatti di cronaca si può oltrepassare, in tragico, lo stesso Shakespeare» (ivi, p. 29).
9. Nuvolati, Colloquio con l’autore di «Aquilegia», p. 229.
10. Su Ceronetti scrittore di viaggio vedi V. Bezzi, Il viaggio di Guido Ceronetti. Un nuovo pellegrino nell’Italia della fine del XX secolo, «Studi novecenteschi », XII, 49, 1995, pp. 219-246.
15. Cfr. C. Marabini, Guido Ceronetti. Aquilegia, in Interventi sulla narrativa italiana contemporanea (1973-1975), Matteo, Treviso 1976, p. 28: «... le avventure di Enarchì, di Olàm e di Sigè potrebbero forse durare all’infinito, se la fantasia non sentisse il dovere di chiamare se stessa al messaggio finale».
16. Ceronetti, Aquilegia, p. 223.
17. Ceronetti, In un amore felice, p. 11.
18. Ivi, pp. 269-271.
23. Cfr. Il viaggio aquilegico di Guido Ceronetti, intervista a Guido Ceronetti a cura di Flora Vincenti, «Uomini e libri», 43, aprile-maggio 1973, p. 41: «La capacità umana di accogliere miti è straordinariamente intatta. Il civilizzato li consuma orribilmente trasformati e degenerati, ma non può, evidentemente, farne a meno; perciò gli scrittori che adoperano miti e simboli vanno incontro a una fame eterna dell’uomo ... Niente è durevole, niente è buono, senza la verità del mito».
Beatrice Manetti, Da «Aquilegia» a «In un amore felice»: ipotesi su Ceronetti (anti)romanziere in Pareti di carta. Scritti su Guido Ceronetti, a cura di Paolo Masetti, Alessandro Scarsella e Matteo Vercesi, Tre Lune Edizioni, 2016
 
Ceronetti impegna la propria vita in una delle pieghe della Parola, la scrittura <5, cosciente di quanto Anna Maria Ortese, assieme a pochi altri, ha compreso, ovvero di “come nella scrittura si trovi la sola chiave di lettura di un testo, e la traccia di una sua eventuale verità” <6. Scrivere e vivere, per lui, non sono un mestiere <7, bensì una ricerca, una via ascetica, un placare infiammazioni dell’anima, un lenire ferite - sempre attratto dall’abisso dell’assenza di Dio, che è la sua più potente manifestazione. La Parola sfiora continuamente le ali del sacro, perciò Ceronetti si può definire un uomo religiosissimo, senza però riuscire mai a rinchiuderlo all’interno dei confini delle religioni rivelate
[...] E se, nonostante sia nato a Torino nel 1927, sente “una reale impossibilità a essere cristiano” <8, a questa tradizione rimane legato, non potendo che restare fulminato dal suo linguaggio, soprattutto dall’ebraico dell’Antico Testamento. “Non perché sia ben fatto, un bel tempio: perché è una forza attiva” <9. Ciò che, infatti, Ceronetti sa è che “il linguaggio è una manifestazione divina in cui esiste e si annulla qualunque Cristo, e se riconosco Dio con questo nome in un certo linguaggio lo riconoscerei con altri nomi, Ermete, Krishna, Osiride, Rama, in altri” <10.
È impossibile aprire uno dei suoi libri che raccoglie gli articoli di giornale apparsi sul Corriere della Sera, su La stampa o su Il Giornale, oppure leggere qualche sua poesia o traduzione, o ancora leggere i suoi racconti brevi o il suo unico romanzo, o vedere uno dei suoi spettacoli teatrali per marionette, “senza interrogarsi continuamente sul mostro ammirevole che lo ha concepito” <11.
5 Dunque anche nella traduzione.
6 A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994, p. 9.
7 “Se mi annoio crudelmente con tutti è perché li vedo maledettamente non capire che sono un uomo e non un mestiere di scrivere, che voglio restarlo, che tengo solo a questo,che mi fa più paura perdere il sentimento umano che il prezzo di disperazione da pagare per essermi rifiutato di perderlo”. (G. CERONETTI, Come un talismano. Libro di traduzioni, Milano, Adelphi, 2009, p. 197.)
8 G. CERONETTI, La carta è stanca, Milano, Adelphi, 1976, p. 181.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 182.
11 E.M. CIORAN, Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, Milano, trad. it. di M.A. Rigoni e L. Zilli, Milano, Adelphi, 1988, p. 201.

Luca Vidotto, Guido Ceronetti. Uno squarcio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno accademico 2018-2019

Palombaro di mondi sconosciuti, celati e a volte solo intuiti, Ceronetti si addentra silenzioso nella notte umana, sfida il buio, si nutre di Tenebra e di un fiore azzurro: l’aquilegia. Seguirlo nelle profondità e nei meandri talora sconcertanti delle sue esplorazioni è ciò che si propone questo lavoro, dedicato alla prosa d’invenzione ceronettiana. Di fronte a un’opera che si dirama a prima vista in una congerie eterogenea e frastagliata di scritti, il primo passo è stato perciò quello di concentrare la propria attenzione su un segmento del corpus che riflette esemplarmente in sé la totalità dell’insieme, a testimonianza dell’inesauribile fantasia e della completa libertà nella scelta dello stile e dei suoi temi da parte del filosofo ignoto. Spaziando dal genere fiabesco alla trattazione del cosìddetto testoframmento ceronettiano, il discorso si articola in tre capitoli strettamente legati fra loro, di cui vado ora a descrivere brevemente il contenuto.
Quale iniziale via d’accesso interpretativa, il primo capitolo tenta di chiarire le dinamiche soggiacenti alle ventuno tappe del viaggio iniziatico intitolato Aquilegia. Favola sommersa. Enarchí e Olàm, protagonisti del singolare pellegrinaggio, vengono seguiti nelle loro innumerevoli peripezie, scandite, passo dopo passo, dalla necessità di raggiungere lo stelo di Aquilegia, «l’Introvabile in fuga». Si passa poi a una trattazione selettiva, per campioni, delle fonti che alimentano l’ispirazione della favola, con particolare attenzione alle suggestioni della cultura ebraica e della medicina antica.
[...] Con il terzo capitolo, interamente dedicato allo studio e all’analisi delle modalità scrittorie del filosofo ignoto, la tesi prova a imboccare una strada diversa. Nel Fondo senza Fondo, infatti, riposano, tutt’altro che inerti, le carte dell’autore torinese. Da qui, tramite la preziosa selezione di documenti resi disponibili dalla Biblioteca cantonale di Lugano, ha preso vita un esame minuzioso e attento di una piccola ma significativa parte delle prose-frammentoceronettiane: il recupero di alcune importantissime testimonianze, quali fogli dattiloscritti, testi inediti, taluni contrassegnati da interventi autografi dell’autore, ha reso possibile questo primo sondaggio su un terreno largamente inesplorato.
L’analisi è preceduta, a sua volta, dall’inedito confronto fra la versione originale della favola aquilegica (edita in prima battuta nel 1973) e la sua corposa revisione datata 1988.
In un’alternanza continua di luci e ombre - insegna Ceronetti - si celano infiniti i messaggi di richiamo, i segnali dell’oltre, e così il mistero dell’umano; queste pagine esprimono il timido tentativo di rischiarare, con una fioca luce di candela, lo sterminato buio.
Serena Modolo, La tenebra e il fiore azzurro. La prosa d'invenzione di Guido Ceronetti, da «Aquilegia» ai «Deliri Disarmati», Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno accademico 2015-2016