lunedì 21 ottobre 2024

Il governo italiano diede il suo generale assenso alla proposta americana di schierare sul territorio missili “Irbm” (raggio intermedio) a testata nucleare


Il processo di integrazione europea - anche grazie al “Piano Marshall” - stava dando i suoi frutti. Dopo la creazione della CECA si era percepita la volontà degli stati europei occidentali di realizzare, dietro il largo consenso americano, un mercato unico. Come già visto, nel 1955 vi era stata la conferenza di Messina, che aveva delineato i principali obiettivi futuri per l’integrazione nel vecchio continente.
Il 25 marzo 1957, con i Trattati di Roma, venne istituita la “Comunità Economica Europea” (CEE), insieme al “Mercato Europeo Comune” e l’EURATOM <1.
L’amministrazione Eisenhower era soddisfatta del livello raggiunto dai paesi europei, soprattutto dal punto di vista dell’economia e la liberalizzazione dei mercati. Tuttavia, ciò non bastava a difendere fisicamente l’Occidente. La preoccupazione per i successi sovietici nel campo della missilistica atomica portò gli Stati Uniti a proporre forme di “nuclear sharing” agli alleati europei. Tra il 1957 e il 1958 vi furono diverse consultazioni tra Francia, Germania e Italia per accordarsi sulla possibile produzione di armi nucleari europee <2. Anche se poi questa opzione venne scartata, il governo italiano diede il suo generale assenso alla proposta americana di schierare sul territorio missili “Irbm” (raggio intermedio) a testata nucleare, che sarebbero diventati, come spiega la definizione ufficiale nell’aprile 1958, “la spada che doveva integrare lo scudo costituito dalle forze convenzionali <”3.
Nonostante ciò, la “soglia di Gorizia” rimaneva un punto cruciale per l’Alleanza Atlantica, richiedendo uno schieramento ed organizzazione più profondi ed estesi. Infatti, le elezioni politiche italiane del 1958 assunsero un significato decisivo, sia per la politica interna del paese che per quella estera. La Democrazia Cristiana riuscì a guadagnare il 42% dei voti (273 seggi), mentre i comunisti si attestarono al 23% (140 seggi) e i socialisti al 14% (84 seggi) <4.
L’intervento dell’intelligence americana si era fatto sempre più presente nella penisola. Come rivelò nelle sue memorie il già citato funzionario CIA William Colby: "Il mio lavoro consisteva nell’impedire che i comunisti vincessero le elezioni del 1958 […] Ora, non si può negare che interferenze come quelle della CIA in Italia siano illegali […]; tuttavia, il sostegno a gruppi democratici italiani, per metterli nella condizione di tenere testa a una campagna sovversiva sostenuta dai sovietici, può sicuramente essere accettato come un atto morale" <5.
Gli USA di Eisenhower, dopo i successi del 1953, nel rovesciamento del Governo Mossadeq in Iran e del Governo Arbenz in Guatemala, poterono confermare la riuscita delle operazioni clandestine anche in Italia. Nonostante nel 1959 Colby venne trasferito alla base CIA in Vietnam, lasciò l’italiana nelle mani del SIFAR del Generale De Lorenzo, che continuò con costanza la sua battaglia contro le sinistre <6.
Tornando alla questione degli arsenali nucleari, fu portato avanti il negoziato tra Italia e USA per il dispiegamento di 45 missili “Irbm”, meglio conosciuti con il nome “Jupiter”. Malgrado il fatto che il leader del PCI Togliatti presentasse un disegno di legge per vietare l’istallazione di armi nucleari in Italia, questo fu bocciato <7. Si presero inoltre accordi per missili contraerei che avrebbero garantito una prima linea di difesa in caso di attacco. Nel frattempo, aveva ormai preso avvio la cosiddetta “corsa allo spazio”, che non era altro se non un’ennesima Guerra Fredda dal punto di vista dell’ingegneria aerospaziale delle due superpotenze.
Nel 1957 l’URSS lanciò in orbita il primo satellite artificiale, lo “Sputnik” <8, arrivando poi nel 1961 a portare il primo uomo nello spazio, Yuri Gagarin. Gli USA risposero fondando nel 1958 la “National Aeronautics and Space Administration”, la NASA, e cominciando anche loro a lanciare astronauti in orbita, fino a quando supereranno gli stessi sovietici, con lo sbarco sulla Luna della missione “Apollo 11”, nel 1969.
Le preoccupazioni statunitensi, tuttavia, si intensificheranno quando nel 1959, a Cuba <9, una rivoluzione aveva rovesciato il regime autoritario di Fulgencio Batista, vicino agli USA. Il nuovo leader, Fidel Castro, anche se non prettamente filosovietico, compì mosse dirette ad urtare gli interessi americani: espropriazione delle piantagioni possedute dall’azienda “United Fruit” e nazionalizzazione delle raffinerie petrolifere. Il nuovo presidente americano, il democratico John Fitzgerald Kennedy, per far fronte alla crisi cubana, autorizzò, nell’aprile del 1961, uno sbarco armato di esuli cubani “anticastristi”, alla Baia dei Porci <10. Ma l’operazione si rivelò un fallimento e il piano di rivolta popolare pianificato dalla CIA non trovò attuazione. Anzi, lo sbarco americano non fece che intensificare l’avvicinamento di Castro all’URSS di Chruščëv.
La tensione salì quando l’amicizia cubano-sovietica si concretizzò nel progetto di costruire una base missilistica sull’isola, con armi e mezzi forniti direttamente dall’URSS. Nell’ottobre 1962 Kennedy chiese l’immediato smantellamento della base, minacciando un attacco militare a Cuba <11. Dopo l’assenso dei sovietici, si avviarono delle trattative per impedire test nucleari nei mari e nell’atmosfera, che troveranno l’accordo nell’estate del 1963.
Sistemata la crisi cubana, l’attenzione si spostava sulla “situazione calda” del Vietnam. Nel 1954 erano stati siglati gli accordi di Ginevra, dopo che una lunga guerra tra francesi e vietnamiti (iniziata nel 1946) aveva visto i primi venir sconfitti e costretti a ritirarsi. Come per la questione della Guerra di Corea, il Vietnam venne diviso in due stati: una repubblica comunista nel Nord e uno Stato filoccidentale nel Sud <12. Tuttavia, nel 1963 truppe del Vietnam del Nord avviarono una serie di azioni di guerriglia contro lo stato meridionale, portando gli Stati Uniti ad intensificare i finanziamenti all’esercito del Sud. Il Presidente Kennedy stava considerando l’idea di un intervento militare americano in Vietnam, ma il 22 novembre 1963 <13, durante una visita ufficiale a Dallas, in Texas, verrà assassinato da un cecchino (ancora oggi in circostanze non del tutto chiare). Il suo vicepresidente, Lyndon Johnson, continuò la politica del defunto Capo di Stato, in particolare la questione del Vietnam. Dopo uno scontro navale tra forze americane e vietnamite, nel 1964, nel Golfo del Tonchino, il Congresso USA autorizzava l’intervento diretto di truppe statunitensi nella guerra in corso in Vietnam <14. Nel 1965 vi sarà l’invio di 185.000 soldati, che diverranno 540.000 due anni più tardi. Una delle principali strategie adottate dagli americani era quella di bombardare pesantemente il Vietnam del Nord, per distruggere ogni forma di resistenza dei “Viet Cong” (truppe non regolari dell’esercito del Nord). Tuttavia, per calcoli errati diversi ordigni colpiranno anche la Cambogia e il Laos, estranei al conflitto. Inoltre, l’azione americana non riuscì nell’intento di indebolire le forze settentrionali, che passarono invece al contrattacco nel 1968, con l’imponente “Offensiva del Tet” (dal nome del capodanno vietnamita) <15. La risposta statunitense risultò confusa e vi furono addirittura delle rappresaglie contro civili innocenti, ritenuti sostenitori dei guerriglieri del Nord. La nascita del grande movimento pacifista negli Stati Uniti e il generale malumore dell’opinione pubblica, fomentato dai servizi giornalistici e televisivi che trattavano dei massacri americani in Vietnam, indussero il Presidente Johnson a non ricandidarsi alle elezioni del novembre 1968, che vedranno trionfare il repubblicano Richard Nixon <16.
[NOTE]
1 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
2 Idem, p. 251-252.
3 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p.
62.
4 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 86.
5 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 86.
6 Idem, p. 87.
7 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 62.
8 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 308.
9 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 309.
10 Idem, p. 309.
11 Idem, p. 309.
12 Idem, p. 284.
13 Idem, p. 311.
14 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 311.
15 Idem, p. 311.
16 Idem, p. 312.
Daniele Pistolato, "Operazione Gladio". L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

giovedì 10 ottobre 2024

Continuava a Roma l'allestimento della rete spionistica Gehlen


Il gesto apparentemente generoso, da parte di de Planitz, di aiutare Johannes Gehlen, tuttavia, non sarebbe rimasto fino a se stesso: già nell’inverno del ’47 l’avvocato avrebbe chiesto all’ex fisico di ricambiare il favore, fungendo da traduttore per il suo cliente Wagener durante il processo, circostanza di cui Johannes si sarebbe lamentato più di una volta nei report spediti al fratello. Il legame con de Planitz sarebbe però presto andato al di là del processo Wagener. Sembrerebbe infatti che, già a partire dal ’47, von Planitz sia diventato un informatore abituale di Johannes, aiutandolo non poco con nuovi contatti e collegamenti durante il processo di costituzione dell’ODEUM Roma <139.
2.1.2. “Una mano lava l’altra”: l’ODEUM Roma, Ferdinand von Thun-Hohenstein e il progetto della “rappresentanza SMOM” in Germania
Per quanto riguarda l’attività di Johannes all’interno dello SMOM menzionata nella succitata lettera, può sorprendere, nonostante la stretta amicizia col conte, che egli da protestante abbia potuto avere accesso agli affari interni dell’Ordine così precocemente. Già verso la fine del ’46 von Thun-Hohenstein, una volta rincontrato il suo vecchio amico e informato della nuova attività di quest’ultimo nel campo d’intelligence, aveva assunto Johannes come suo segretario personale presso la Segreteria degli Affari Esteri dell’Ordine, posizione che avrebbe permesso all’ex fisico nucleare di entrare nella sede dello SMOM in via Condotti e di avere accesso agli svariati collegamenti nazionali ed internazionali di cui un’istituzione simile poteva vantarsi <140. Una volta compiuto tale primo ingresso “ufficiale” nel mondo dell’Ordine, von Thun-Hohenstein, come dimostrano i documenti, si sarebbe affrettato ad allargare lo spazio di manovra del suo amico ancora di più, assegnandogli compiti burocratici all’interno di varie commissioni degli enti caritatevoli dello SMOM. Tali incarichi sarebbero tuttavia stati - ed è importante ripeterlo in vista di quanto sarà detto più avanti - privi di ricompensa, in quanto ufficialmente classificati come “volontariato”.
È a questo punto giustificato porsi la domanda circa la motivazione del conte von Thun-Hohenstein nel collaborare con Johannes e, in senso più vasto, con l’Organisation Gehlen e l’intelligence statunitense. La ragione per ciò sta nella stessa natura degli interessi che il neonato organo spionistico tedesco e i suoi supervisori avevano circa l’Ordine. Come emerge dalle carte del BND, il principale obiettivo dell’”infiltrazione” di Johannes nello SMOM era quello di preparare il terreno per la costituzione di una rappresentanza o “missione” dell’ufficio di von Thun-Hohenstein a Francoforte, allora sotto occupazione statunitense <141. Essendo lo SMOM un organo sovrano ed extra-territoriale, vale a dire un’entità “parastatale” per certi versi <142, la creazione di una simile rappresentanza estera dell’Ordine - controllata da una persona fidata come von Thun-Hohenstein e facilmente influenzabile da parte dell’Organisation Gehlen e del G-2 USFET in Germania - avrebbe costituito una win-win-situation per tutte le parti coinvolte. Infatti l’Operation Rusty, da parte sua, avrebbe potuto profittare della rappresentanza non solo come fonte di contatti ed informazioni, ma avrebbe anche potuto sfruttarla come diretto collegamento con Roma: una simile istituzione, di fatto, avrebbe avuto il potere di fornire documenti di viaggio e passaporti diplomatici dell’Ordine, un vantaggio prezioso e non da sottovalutare nell’immediato dopoguerra. Tutto ciò sembra infatti essere confermato dalle stesse parole di Johannes, scritte a Reinhard nel gennaio del ’47:
"Durch eine Bemerkung aus Deinen Kreisen her angeregt habe ich nun vor einigen Tagen Dir berichten lassen, dass mein Freund sich sehr positiv zu dem Projekt stellt, dass sein Verein bei dem dortigen eine Vertretung einrichtet. Er wird in der weitgehendsten Weise, im Falle dies geht, auf unsere Wünsche über das Personal eingehen. Dadurch wäre mit einem Schlag eine direkte Verbindung zwischen Dir und mir hergestellt, die absolut hieb- und stichfest ist" <143.
Se dunque per i fratelli e per l’intelligence statunitense il carattere internazionale ed extra-territoriale degli uffici dello SMOM sembra essere stata la motivazione principale per impegnarsi affinché una rappresentanza della Segreteria di von Thun-Hohenstein fosse istituita su territorio tedesco-occidentale, per il conte ciò avrebbe significato non solo ampliare il suo potere personale <144, ma anche sistemare alcune faccende interne all’Ordine. Infatti i documenti lasciano intuire che nei tardi anni Quaranta si stesse combattendo una sorta di “guerra fredda” all’interno della sede di via Condotti, causata dal formarsi di vari schieramenti in lotta per il predominio sugli affari esteri dello SMOM. Questo aspetto sarà approfondito in dettaglio più avanti, ma si può qui specificare come von Thun-Hohenstein, che parallelamente al suo incarico di capo della Segreteria estera svolgeva anche la prestigiosa funzione di Segretario generale per il Gran Maestro dello SMOM, avesse palesemente degli interessi da difendere, interessi che probabilmente vedeva sempre più minati dalle lotte intestine dell’Ordine.
2.1.3. Il “nuovo inizio” a Roma tra difficoltà e speranza
Sulla base della documentazione presa in esame qui è dunque lecito affermare che il collegamento con lo SMOM abbia costituito senz’altro il perno delle attività di Johannes a Roma durante il periodo 1946-1949. Sempre grazie ai contatti che egli sarebbe riuscito a tessere durante il proprio lavoro come segretario del conte, iniziarono a nascere anche i contatti con i futuri più stretti collaboratori dell’ex fisico nucleare. I primi passi in tale direzione avrebbero portato Johannes già nel ’47 presso il Collegium Germanicum et Hungaricum di Roma. Oltre alle conoscenze con esponenti del clero che Johannes presso il cosiddetto “Germanicum” gesuita, lì l’ex fisico nucleare avrebbe anche incontrato due uomini fondamentali per trasformare la sua “battaglia solitaria” a Roma in lavoro di gruppo: Willy Friede e Jean Henry Guignot. Friede e Guignot sarebbero diventati presto due elementi cruciali per l’attività dell’ODEUM Roma, essendo attivi, per conto di Johannes, in svariati ambienti della capitale italiana e contribuendo così a soddisfare le richieste di Reinhard e dei suoi supervisori statunitensi. Mentre le figure di Friede e di Guignot saranno al centro del seguente paragrafo, l’attività specifica del nascente ODEUM Roma - vale a dire del gruppo costituitosi attorno a Johannes tra il ’47 e il ’48 - sarà oggetto di analisi del terzo capitolo.
Una volta iniziato il lavoro dell’ex fisico nucleare per conto dell’Organisation Gehlen nello SMOM, grazie anche a von Thun-Hohenstein, tutto sembrava dunque andare nel verso giusto per i due fratelli: Reinhard era riuscito a vincere la sua battaglia personale contro Hermann Baun ponendosi a capo dell’Operation Rusty, trasformandola in Organisation Gehlen a tutti gli effetti, mentre a Roma Johannes gettava le basi per il suo nuovo lavoro d’intelligence. Tuttavia nella tarda primavera del ’47, come già detto prima, una serie di preoccupazioni attanagliavano ancora il maggiore dei fratelli Gehlen. l suoi problemi principali risultavano essere la situazione economica, da una parte, e la perdurante assenza della famiglia, dall’altra, fattori aggravati dalle scarse possibilità di contatto con Reinhard e il resto del personale dell’Operation Rusty in Germania. In una lettera scritta al fratello il 1° maggio del ’47, poco dopo l’attesa visita di un membro dell’Operation Rusty a Roma, Johannes scrive:
"Ich bin sehr erfreut über den Besuch Deiner Freunde, der mich aus einem Zustand der Spannung erlöst hat, der mich sehr belastete. […] Trotzdem ich mich gänzlich verlassen fühlte, so verlassen, dass ich an eine definitive Auswanderung denken musste, habe ich in absolutem Glauben an unsere Sache weiter gewartet […]. Ich weiss nun, dass ich nicht vergessen worden bin und habe Deinem Freund alle meine Sorgen ausgeschüttet. […] Ich habe unserem Freund auch etwas von meinen Persönlichen Bedürfnissen und Agdas Verhältnissen erzählt und bitte Dich, besonders an Agda denken zu wollen […]. Mein eigener Wunsch ist, wenn ich einen persönlichen Wunsch ausdrücken darf, sobald wie möglich ein geregeltes Familienleben […] aufzunehmen. Wenn es im Rahmen der Aktion geht, umso besser, somit werde ich weiter Geduld haben" <145.
Il passaggio appena citato non solo rivela le difficoltà di Johannes legati al denaro e alla famiglia, ma anche quelle relative alle dinamiche comunicative, o, in altre parole, alle catene di comando. Come si vedrà nel quarto paragrafo di questo capitolo, la questione del controllo e della supervisione di Johannes e del suo lavoro nell’Organisation Gehlen non sarebbe mai stata davvero chiarita e avrebbe, non di rado, comportato serie frizioni interne.
In generale si può dunque dire che l’inizio dell’attività d’intelligence di Johannes a Roma tra il ’46 e il ’47 fu segnato da apparenti successi, ma anche da difficoltà pratiche, legate tanto a questioni logistiche quanto all’effettiva inesperienza dell’ex fisico nucleare nel mondo dei servizi segreti. Tali aspetti contrastanti, per certi versi, sarebbero poi stati accentuati dall’affacciarsi di tre personaggi: i già menzionati Willy Friede e Jean Henry Guignot e Alix von Fransecky. Sarebbero stati infatti loro tre a costituire, sotto guida di Johannes Gehlen, l’ODEUM Roma, la prima cellula spionistica dell’Organisation Gehlen attiva sul territorio italiano.
[NOTE]
139 Besprechung mit S-1933 am 9. September 1948, 14 settembre 1948, BND-Archiv, 220814_OT, doc. 000411.
140 R.D. Müller, Reinhard Gehlen, cit., p. 451.
141 Un riferimento concreto al tentativo di istituire la rappresentanza della Segreteria estera sotto guida di von Thun-Hohenstein si trova, fra gli altri, anche in un documento del 24 aprile 1948, scritto da Johannes Gehlen: «Questo è un passo decisivo nella giusta direzione. Se la questione della rappresentanza si risolverà a nostro favore, allora potrei dire che il primo […] dei due compiti assegnatimi è stato portato a termine», Bericht N° 16, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 26 aprile 1948, BND-Archiv, 220815, doc. 099-101, qui 101; inoltre cfr. Bericht N°1, 16 novembre 1947, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, BND-Archiv, 228015, doc. 182.
142 Per la storia del Sovrano Militare Ordine di Malta e la sua evoluzione cfr. R. Stark, God’s Battalions: The Case for the Crusades, HarperCollins, New York 2009; R. Prantner, Malteserorden und Völkergemeinschaft, Duncker und Humboldt, Berlin 1974.
143 Lettera di Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 26 gennaio 1947, BND-Archiv, 220814_OT, doc. 000047.
Dietro indicazione sollecitata dai tuoi ambienti, ti ho fatto sapere alcuni giorni fa che il mio amico [von Thun-Hohenstein] vede pienamente di buon occhio il progetto di istituire lì una rappresentanza locale della sua associazione. Egli cercherà nel modo più ampio, nel limite del possibile, di tenere conto delle nostre preferenze riguardo al personale. In questo modo si costituirebbe in un colpo solo un legame diretto, solido e sicuro tra me e te.
144 Secondo quanto scritto esattamente un anno più tardi da Johannes al fratello, la collaborazione con von Thun-Hohenstein sarebbe dovuta essere un classico caso di “una mano lava l’altra”: «Attraverso il nostro aiuto possiamo […] portare F.[erdinand von Thun-Hohenstein] in cima a tutto, e così anche noi avremmo tutto l’Ordine in mano». Bericht N° 6, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 1° gennaio 1948, BND-Archiv, 220815, doc. 150.
145 Lettera di Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 1° maggio 1947, BND-Archiv, 220814_OT, 000051.
La visita dei tuoi amici mi ha fatto davvero molto piacere, in quanto mi ha liberato da uno stato di tensione che mi opprimeva molto. […] Anche se mi ero sentito completamente abbandonato, tanto da dover pensare a lasciare definitivamente il paese, ho comunque continuato nell’attesa, […] con fiducia assoluta nei nostri propositi. Ora so di non essere stato dimenticato e ho confidato al tuo amico tutte le mie preoccupazioni. […] Ho raccontato al nostro amico anche le mie esigenze personali e le circostanze riguardanti Agda e ti prego di voler pensare soprattutto a lei […].È mio desiderio, se posso esprimerne uno, di condurre quanto prima possibile una regolata vita familiare […]. Se ciò fosse conciliabile anche con il progetto, ancora meglio, allora continuerò ad avere pazienza.
Sarah Anna-Maria Lias Ceide, ODEUM Roma. L'Organisation Gehlen in Italia agli inizi della guerra fredda (1946-1956), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Napoli "Federico II", 2022

giovedì 3 ottobre 2024

I partigiani di Tagliacozzo

Tagliacozzo (AQ). Foto: Marica Massaro. Fonte: Wikipedia

La banda [partigiana] Gaetano Di Salvatore <1703 fu attiva nel comune di Tagliacozzo <1704 e aree limitrofe <1705 tra il primo di ottobre 1943 ed il 10 giugno 1944, compiendovi attività di propaganda antinazista ed antifascista, di assistenza nei confronti delle popolazioni e degli ex prigionieri alleati, ed azioni armate e di sabotaggio. Per stessa affermazione del capobanda, Dante Salsiccia, dalla sua costituzione e fino all'aprile 1944 la formazione tagliacozzana agì seguendo le direttive degli «organi centrali del Fronte Clandestino di Resistenza» <1706 a cui era collegata tramite l'avvocato Antonio Paoluzi, mentre dal maggio a seguito dell'interruzione di detti contatti «agimmo solo di nostra iniziativa» <1707. Intessuti dalla banda anche rapporti con viciniori gruppi partigiani con cui operarono assalti armati soprattutto nell'ultima fase della loro esperienza partigiana <1708.
La Commissione Regionale Abruzzese in data 3 febbraio 1947, così si espresse nei confronti della formazione: «esaminata la relazione e documentazione in atti, sentita la relazione del membro Di Gianfilippo Eleuterio incaricato dell'inchiesta delibera: 1° - di riconoscere la Banda quale formazione Partigiana al comando del S. Ten. Salsiccia Dante operante in località Tagliacozzo e dintorni […]; 2° - di riconoscere la qualifica di Partigiano Combattente esclusivamente a coloro per i quali è stata accertata dai sopraluoghi e dalle indaggini [sic!] effettuate l'effettiva partecipazione alla lotta armata e clandestina e precisamente: DI SALVATORE Gaetano <1709 (caduto); SALSICCIA Dante <1710 (Comandante); DE SANTIS Emilio <1711; MARINI Vincenzo <1712; FERRARI Amleto <1713; IACOMINI Benedetto <1714; PROSPERI Corrado <1715; SACERDOTE Lucidi Giulio <1716; MAIOLINI Luigi <1717; MARINI Raffaele <1718» <1719.
Il successivo iter di riconoscimento dell'elenco aggiuntivo - di 37 partigiani e 20 patrioti - presentato dal Salsiccia alla Commissione e da questa accettato nella seduta del 14 agosto 1947 <1720, scatenò però una bufera di reclami e polemiche <1721 che si trascinò fino al 1950 terminando con provvedimenti di revoca di buona parte delle qualifiche aggiuntive rilasciate <1722. Tale complesso percorso rende quindi difficile quantificare con esattezza il numero di partigiani e patrioti effettivamente riconosciuti nella Gaetano di Salvatore, altresì però permette di valutare, con buona approssimazione, la forza della banda come al di sotto della stima del Salsiccia che parlò 10 elementi tra fine settembre e seconda quindicina di ottobre, saliti a 35 nel periodo tra la fine di ottobre '43 e i primi di maggio '44, ed infine a 55 nell'ultimo mese di attività <1723.
Alla fine del settembre '43, dopo che il 12 erano giunte in Tagliacozzo le truppe tedesche d'occupazione, presso la casa del Paoluzi si tennero le prime riunioni dei partigiani tagliacozzani «nelle quali si concepì il bisogno di organizzare una banda armata» <1724. Nonostante questa condivisa decisione di massima, l'elaborazione di una strategia richiese diversi incontri non tutti di esito favorevole, almeno prestando fede al Vincenzo Marini secondo cui nella riunione del 22 settembre, «quando tutto sembrava risolto più che la diffidenza verso qualcuno poco desiderato, fu la paura di alcuni che mandarono, secondo il mio modesto modo di vedere, tutto a monte» <1725. Il progetto comune fu infine realizzato il primo di ottobre con la nascita di un primo gruppo partigiano con a capo Vincenzo Marini e formato da nove partigiani tra cui Dante Salsiccia, Amleto Ferrari, Enea Liberati <1726, Antonio Paoluzi, e Benedetto Attili <1727. Due i primi colpi di mano attuati dalla piccola banda, entrambi ai danni della locale stazione dei Carabinieri «allora comandata dal maresciallo Pecora Rosario» <1728 da cui furono asportati prima «due fucili mitragliatori “Breda 30”, cinque moschetti, quattro pistole, cinquanta bombe a mano, due casse di munizioni per mitragliatori e relativi accessori ed una cassa di munizioni per moschetti» <1729 e poi «le armi civili che erano state consegnate dalla popolazione in considerazione del bando tedesco emanato in proposito» <1730. Forte delle armi sottratte e di un accresciutosi numero di elementi <1731, la banda diede quindi il via alle azioni di sabotaggio con taglio sistematico di cavi telefonici ed interruzioni stradali <1732 operate nell'area tra Tagliacozzo, Magliano dei Marsi, San Donato di Tagliacozzo, Poggiofilippo di Tagliacozzo, Villa San Sebastiano, Carsoli e Valle del Liri <1733. Dette azioni continuarono per i mesi successivi, fino a che i tedeschi per porvi un freno istituirono turni di guardia ai fili, adibendo al servizio gli abitanti del paese <1734. Nell'intento di tutelare l'incolumità della popolazione, i sabotaggi furono quindi interrotti ma ormai i partigiani erano stati in buona parte individuati <1735 e così alla fine del mese di novembre <1736 i tedeschi arrestarono Luigi Maiolini, Raffaele Marini e Corrado Prosperi, mentre il Ferrari <1737 e il Paoluzi <1738 riuscirono fortunosamente ad evitare la cattura.
Tra il mese di ottobre e quello di novembre si segnala anche un trasferimento del comando della banda dalle mani di Vincenzo Marini a quelle del Salsiccia che lo tenne fino al giugno '44. La ricostruzione dell'esatto momento in cui ciò avvenne e delle modalità con cui si determinò sono però quanto mai rese complesse dalla discordanza delle fonti documentali presenti nel carteggio della banda. Il Salsiccia riferì che nell'ottobre '43 l'allora capobanda Marini scomparve senza dare più notizia di sé a seguito di un paventato arresto avvenuto per mano tedesca - arresto fissato però nelle note agli elenchi presentati dalla Commissione Regionale Abruzzese, al 28 novembre. Dal canto suo il Marini <1739 affermò di essersi allontanato volontariamente perché assorbito dalle sue molteplici attività resistenziali - lo ritroveremo nel giugno '44 a capo di un altro gruppo partigiano - ma solo dopo aver passato le consegna della banda al Salsiccia <1740.
Successivamente alla ridda di arresti del novembre e dopo un primo momento di comprensibile disorientamento - benché si legga nella relazione che «la perdita di questi elementi attivi non errestò [sic!] né impaurì gli altri componenti» <1741 - le attività della banda ripresero orientandosi stavolta verso due precisi obiettivi perseguiti per tutto il lungo inverno e fino all'avanzata primavera. In primo luogo prestare assistenza ai numerosi ex prigionieri «fuggiaschi sui monti» <1742 a cui vennero procurati alloggi e guide <1743 e che furono riforniti di viveri e vestiario grazie alle elargizioni in denaro ma non solo, di Paoluzi, Ottorino Gubitosi e del sacerdote don Giulio Lucidi <1744. Il Salsiccia stimò di circa una «centinaia», il numero di ex P.O.W.s che si avvalsero della loro opera umanitaria. Al contempo fu attivata un'intensa campagna di propaganda antinazista ed antifascista, concretizzatasi con la diffusione di manifestini sia volanti che murali, e con la divulgazione del giornale “Italia Libera” di matrice P.d.A. « col cui centro clandestino eravamo in comunicazione per mezzo del sergente Attili Benedetto» <1745.
[NOTE]
1703 Il nome fu scelto per onorare il partigiano omonimo, caduto per la lotta di liberazione tra le fila della formazione. Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Gaetano Di Salvatore, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1704 Tagliacozzo: comune della Marsica in provincia de L'Aquila situato su uno sprone della catena di Monte Bove, non distante dal confine regionale con il Lazio; durante l'occupazione nazista di rilevante interesse strategico per la vicinanza alla strada statale Tiburtina-Valeria e alla ferrovia Roma-Avezzano, e per la presenza a circa 12 km. del Comando della X Armata tedesca con a capo il generale Heinrich von Vietingoff-Scheel, stanziatosi dall'ottobre 1943. Durante il periodo di occupazione fu sede di un carcere tedesco.
1705 «S. Donato di Tagliacozzo, Stazione ferroviaria Villa S. Sebastiano, Poggio Filippo di Tagliacozzo, S. Stefano, Carsoli, Monte Autore, Valle del Liri», ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1706 Non è chiaro a quale organizzazione patriottica con sede a Roma il Salsiccia faccia riferimento con questa dicitura. Si presuppone trattarsi di un centro clandestino di area P.d.A. con cui la banda costituì certamente una collaborazione secondo le testimonianze di seguito nel testo.
1707 «DIRETTIVE RICEVUTE DAGLI ORGANI CENTRALI DEL FRONTE CLANDESTINO DI RESISTENZA: Dall'inizio fin verso aprile furono limitate solo ad atti di sabotaggio. Dopo questo periodo non avemmo più direttive da organi superiori », ibidem.
1708 Cfr. ibidem.
1709 Nato a Pescorocchiano (RI) il 26 gennaio 1914, ha svolto attività partigiana nella banda, dal 01/10/43 al 07/06/44, giorno della sua morte per mano tedesca. Riconosciuto partigiano combattente caduto per la lotta di Liberazione. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1710 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 5 settembre 1919, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani. «Maestro fuori ruolo», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, lettera del Provveditorato agli Studi di Aquila del 3 marzo 1947.
1711 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 04 marzo 1893, soldato, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Il 6 giugno 1944 fu ferito in combattimento da soldati tedeschi. Riconosciuto partigiano combattente invalido per la lotta di Liberazione. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1712 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 16 novembre 1915, tenente, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani. Riferì nella sua relazione che dopo essersi «apertamente opposto fino al 17/9/43 ai Tedeschi in quel di Cogoleto (Genova)», dove svolgeva il servizio militare, raggiunse Tagliacozzo «miracolosamente il giorno 20 settembre 1943, dopo che il 18 s.m. fuggii alla cattura tedesca a Massa Apuiana», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Marini Vincenzo.
1713 Nato a Roma il 26 novembre 1917, sergente, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1714 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 25 luglio 1921, allievo ufficiale, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1715 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 21 novembre 1925, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Ferito il 23 gennaio 1944 a Roccaraso durante un bombardamento. Riconosciuto partigiano combattente invalido per la lotta di Liberazione. Cfr. ibidem.
1716 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 1° maggio 1914, sacerdote, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1717 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 6 settembre 1890, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1718 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 2 luglio 1889, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/1943 al 10/06/1944. Cfr. ibidem.
1719 Ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, Commissione Regionale Abruzzese per il riconoscimento della qualifica di partigiano, presso la Prefettura, L'Aquila, del 3 febbraio 1947, prot. n. 3466, pratica n. 1648: «3° - di richiedere al comandante della Banda (perché si possa procedere al riconoscimento della rispettive qualifiche di “PARTIGIANO CADUTO PER LA LOTTA DI LIBERAZIONE” ed “INVALIDO PER LA LOTTA DI LIBERAZIONE”) gli estratti di morte per i Caduti ed il referto medico per i feriti 4° - di richiedere al comandante della Banda le generalità complete dei Partigiani riconosciuti onde poter procedere alle registrazioni e alle segnalazioni prescritte».
1720 Ivi, Commissione Regionale Abruzzese per il riconoscimento della qualifica di partigiano, presso la Prefettura, L'Aquila, del 15 ottobre 1947, prot. n. 3367, pratica n. 080.
1721 Presenti nel carteggio della banda almeno tre testimonianze dell'avversione suscitata dall'esposizione degli elenchi aggiuntivi presso l'albo del comune di Tagliacozzo. Il Marini Vincenzo in una lettera inviata al comando A.N.P.I. le definì quali «oggetto di scherno da parte di tutti i lettori» dato che il «50% di quella gente o ha servito e collaborato col tedesco invasore o pavida fino alla nausea non ha fatto nulla, oppure all'inizio voleva operare solo dirigendo da lontano», e ne richiese l'immediato annullamento «altrimenti sarò costretto a pubblicare sui giornali i miei risentimenti per difendere il nome mio […], il vostro e quello di tutti coloro che hanno veramente combattuto», ivi. Il maggiore di complemento Frattodì Angelo, vedendo il proprio nome inserito in detto elencò, inviò comunicazione alla Commissione in data 14 novembre 1947, affinché se ne disponesse la cancellazione, motivando la sua scelta con ragioni di competenza ma soprattutto «perché nel suddetto elenco figurano, per la quasi totalità, nomi di persone che notoriamente non hanno fatto nulla per ottenere tale qualifica ed anche, alcuni di essi, hanno collaborato con i tedeschi», ivi. Casali Pierino e altri paesani di Tagliacozzo inviarono alla Commissione in data 7 novembre 1947 una vibrante protesta, adombrando velenose insinuazioni circa l'integrità dei membri commissari accusati di aver proceduto al riconoscimento «per far numero che aumentino i Partigiani falsi della Marsica», o in cambio di qualche «regaluccio». Chiamato dalla Commissione con la missiva del 12 novembre 1947 a rispondere delle sue infamanti affermazioni, il Casali Pierino rispose in tono molto più conciliante il 24 aprile 1948 presentando una lista di partigiani meritevoli a suo giudizio di riconoscimento, e ancora il 22 gennaio 1950 ritirando quanto affermato nella precedente lettera, «scritta in un momento di rabbia», ivi.
1722 Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario patrioti.
1723 Cfr. ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante. Si segnala che per le fonti del Costantino Felice, vennero regolarmente riconosciuti nella formazione 47 partigiani e 20 patrioti e che nel mese di maggio la banda arrivò a contare 150 componenti soprattutto «per l'aggregarsi di un gruppo di montenegrini», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi, Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 233-234. Anche l'allora capobanda Salsiccia Dante accennò dell'apporto di elementi montenegrini, limitandone però la presenza a soli quindici elementi, aggiuntisi per tramite del Ferrari. Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante.
1724 Ibidem.
1725 Ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1726 Il Liberati Enea fu tra i più attivi collaboratori del Corbi Bruno della Patrioti Marsicani, e da questi ritenuto il responsabile per il PCI della zona di Tagliacozzo. Cfr. Bruno Corbi, Scusateci tanto, cit., p. 64. «Faceva il motorista, tutti lo conoscevano e lui sapeva tutto di tutti», ibidem. Per i contatti tra il Liberati ed il Corbi cfr. ivi, Patrioti Marsicani. Al giugno 1946 era Segretario della Sezione di Tagliacozzo del Partito Comunista Italiano, e come tale firmò una dichiarazione relativa all'attività della banda Gaetano di Vincenzo, che è tra le fonti di questa ricostruzione. Si segnala che il suo nome figura tra i partigiani con qualifica revocata e cambiata in quella di patriota. Cfr. ivi, schedario patrioti.
1727 Definito dall'avvocato Paoluzi un «valoroso patriota del Partito d'Azione», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione Paoluzi del 25 luglio 1946.
1728 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1729 Ibidem. Il Marini riferì nella sua relazione che una sera, uscendo da casa del Paoluzi con il Salsiccia e un altro patriota, già in animo di costituire una banda armata, ebbe un incontro con il maresciallo maggiore Pecora Rosario, a capo della stazione dei CC., a cui chiese le armi e da cui si sentì rispondere: «Io non glie le [sic!] posso dare, perché le ha in consegna il sig. Tenente, però lei è una persona intelligente e se vuole si può arrangiare». La notte stessa, all'alba, aiutati dal carabiniere Giannoni, i patrioti penetrarono nella caserma per sottrarvi armi e munizioni che poi furono ricoverate presso la Chiesa di Sant'Egidio. Ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1730 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1731 Tra cui De Sanctis Emilio, Di Salvatore Gaetano e Prosperi Corrado. Cfr. ibidem.
1732 Cfr. ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano, Sezione di Tagliacozzo, del 1° marzo 1946 ed a firma del Segretario della Sezione G. Giua.
1733 Cfr. ibidem e relazione di Salsiccia Dante.
1734 Cfr. ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1735 «Durante tutto il tempo in cui la banda operò nella regione marsicana numerosi furono gli arresti e gli interrogatori della polizia fascista contro gli appartenenti ed i loro parenti», ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano del 1° marzo 1946. Il tristemente noto accanimento vessatorio tedesco sui familiari dei partigiani, trovò un suo esempio anche Tagliacozzo, dove il successivo 4 febbraio 1944, le «S.S. tedesche si recarono nell'abitazione dello Zangari Emilio di Angelo, per arrestare costui, in seguito a segnalazione che lo Zangari espletava opera di partigiano […] non trovando il suddetto, arrestarono la moglie Moretti Maria Elena di Panfilo che […] rimase detenuta per cinque o sei giorni.» ivi, atto notorio.
1736 Secondo le note agli elenchi presentati dalla Commissione Regionale Abruzzese il Prosperi Corrado venne arrestato il 26 novembre 1943 mentre Maiolini Luigi e Marini Raffaele il 29 novembre 1943. Cfr. ivi.
1737 «[…] riuscì ad evitare l'arresto per una intuita riuscita omonimia e fuggì con la propria famiglia nel paese di Borgocollefegato», ivi relazione di Salsiccia Dante.
1738 «[…] fuggito a Roma», ibidem. «A Roma stabilii contatti con il Fronte della resistenza a tramite del dottor Alberto Vecchietti, mentre rimasi in relazione con la banda a mezzo di Attili Benedetto», ivi dichiarazione di Paoluzi Antonio del 25 luglio 1946.
1739 Il Marini Vincenzo fu un personaggio a suo modo controverso: messo a capo della formazione di Tagliacozzo, nella sua relazione riferì di aver compiuto diverse attività personali e stretto numerosi contatti sia prima che dopo la costituzione della banda che non trovano riscontro né nel carteggio della Gaetano Di Salvatore e né nella documentazione relativa alle altre formazioni marsicane esaminate. Per altro contro di lui furono avanzati diversi sospetti di collaborazionismo. Anche nella dichiarazione di Paoluzi del 10 agosto 1947 si evidenziano dei sospetti: «rimane da acclarare la posizione di Marini Vincenzo, al quale si addebita di aver indossato persino la divisa tedesca e di aver partecipato ad un doppio gioco», ivi, dichiarazione di Paoluzi Antonio. Anche il Di Gianfilippo Eleuterio della Patrioti Marsicani e poi membro della Commissione Regionale Abruzzese, ne parlò: «[…] il Marini nell'ottobre 43 arrestato dai tedeschi per liberarsi dal carcere (di Avezzano) si mise al servizio dei tedeschi stessi arrivando a vestire la divisa teutonica», ivi, relazione di Di Gianfilippo Eleuterio alla Commissione del 13 luglio 1947.
1740 Cfr. ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1741 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1742 Ibidem.
1743 «In detta opera ha partecipato come guida, per i rifornimenti viveri e per il cambiamento dei successivi nascondigli il socialista Nuccilli (o Luccilli) Giovanni fu Antonio di Tagliacozzo, affiliato alla suddetta banda», ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano del 1° marzo 1946 e schedario partigiani.
1744 Cfr. ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante.
1745 Ibidem. La circostanza trova conferma, seppure in una diversa collocazione temporale, nella relazione del Marini Vincenzo per cui: «Il 14/10/43 Benedetto ATTILI va a Roma, dove, grazie all'Avv. Antonio Paoluzi, riesce ad avere dei giornali clandestini, fra cui l'Italia Libera, il giornale che tutte le settimane arrivò nella marsica per opera di questo valoroso giovane che tutto sfidando lo andava a prendere usando una bicicletta tutta sgangherata. Io poi m'incaricavo di distribuirlo nella zona. Dimenticavo di dire che l'Attili lo distribuiva da Tivoli ad Arsoli», ivi relazione di Marini Vincenzo.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

giovedì 26 settembre 2024

Amato aveva consegnato a De Matteo un rapporto sul terrorismo di destra


Poco dopo, a luglio [1980], si tengono le elezioni amministrative, che non segnalano grandi cambiamenti nel consenso verso i due principali partiti italiani: la Dc perde meno di un punto (rispetto alle politiche del 1979), il Pci mantiene i propri voti; ma un risultato notevole è quello del Psi, che guadagna oltre tre punti percentuali, che consentono al segretario di sbandierare una vittoria, dopo tante delusioni e spaccature interne. Dopo la tregua con la sinistra in occasione del Comitato Centrale di gennaio, Craxi persegue con determinazione il suo obiettivo di estendere il proprio controllo sul partito, dimostrando particolare attenzione al mondo dell’informazione: ad esempio fa sostituire alcuni giornalisti di Rai Due in quanto ritenuti ostili (o non particolarmente pronti nel sostituire la fedeltà a de Martino, che li aveva proposti per quell’incarico, con quella al nuovo segretario) <154. Ad ottobre Craxi si dimette dalla carica di segretario in modo da poter rinnovare completamente la direzione; la conseguenza è che Signorile perde la carica di vicesegretario e la sinistra interna si riduce ad una piccola minoranza. Prosegue in questo modo il processo di controllo del partito che potrà dirsi completato pienamente in occasione del congresso di Palermo <155.
I comunisti, rispetto all’epoca della solidarietà nazionale, non sono più disposti a prestarsi in maniera gratuita ad appoggiare le politiche di moderazione salariale, né a chiedere ai sindacati di fare altrettanto. La cosa diviene di grande evidenza soprattutto in occasione della vertenza della Fiat a settembre, quando l’azienda di Torino decide di licenziare 14mila operai, per poi rivedere i piani e chiedere la cassa integrazione, ma questa volta per 23mila lavoratori. Ciò provoca scioperi e grandi tensioni nelle fabbriche del capoluogo piemontese. Il partito comunista, dopo le definizione degli equilibri nella Dc e nel Psi che hanno portato ad una riedizione del centrosinistra che relega il Pci all’opposizione e senza una visione strategica utile (è ormai evidente a tutti che continuare a marciare sulla via del compromesso storico è semplicemente velleitario), appare sulla difensiva; ma pensa di poter far leva sulla propria forza per dimostrare che «senza il Pci non si governa» ed è quindi indotto ad appoggiare, quasi senza riserve, le richieste degli scioperanti di Torino: diviene famosa la risposta di Berlinguer ad alcuni operai che gli avevano chiesto se i comunisti avrebbero appoggiato lo sciopero anche in caso di occupazione della Fiat; la risposta, poco cauta, del segretario era stata un «sì», sebbene sia stato poi accompagnato da diverse precisazioni <156. I comunisti si ritrovano però ancor più spiazzati ad ottobre, quando alcune decine di migliaia <157 di quadri ed impiegati manifestano a favore del diritto di lavorare e di far funzionare uffici e fabbriche, un evento, anche simbolico, che segna un ribaltamento del potere negoziale tra imprese e sindacati che caratterizzerà il decennio.
Nello stesso mese di ottobre il governo Cossiga, indebolito su vari fronti, giunge al termine ed è chiamato a succedergli Arnaldo Forlani. Secondo Giorgio Galli l’avvicendamento al governo costituisce un successo socialista in quanto Cossiga apparteneva a quella parte della Dc che, con Zaccagnini ed Andreotti guardava ancora alla collaborazione col Pci, mentre Forlani era uno dei firmatari del preambolo di Donat Cattin <158.
Nei mesi precedenti si erano verificati due episodi che avevano riportato alla ribalta il terrorismo di marca neofascista. Il primo e più terribile, nel mese di agosto, costituisce anche il più micidiale attentato nella storia dell’Italia repubblicana: la strage alla stazione di Bologna. L’evento contribuisce a irrigidire la posizione del Pci, il quale riserva giudizi molto duri sulla classe politica in questa fase <159. Il secondo è costituito dall’assassinio del magistrato di Roma Mario Amato, il 23 giugno del 1980, che segna probabilmente il massimo livello di allarme avvertito da tutta l’ordine giudiziario circa i rischi connessi alle inchieste sul terrorismo. Negli ultimi anni numerosi erano stati i giudici vittime di assalti da parte di gruppi eversivi di destra e di sinistra; dopo Coco e Occorsio assassinati nel 1976, vi erano stati i casi di Palma, Tartaglione e Calvosa nel 1978, di Alessandrini nel 1979, ma è nel 1980 che si intensificano gli agguati: il vicepresidente del Csm Bachelet a febbraio, Giacumbi, Minervini e Galli a marzo. Ad accrescere l’esasperazione tra i giudici non è solo la lunga serie di esecuzioni, ma anche la solitudine e la mancanza di tutele e protezione in cui Amato era stato lasciato nelle sue efficaci inchieste sui gruppi eversivi neofascisti.
La reazione immediata da parte dei magistrati romani è quella di proclamare uno sciopero di protesta nei confronti del governo per la mancata protezione del giudice ucciso. Alla Camera il ministro dell’interno Rognoni afferma che Amato aveva rifiutato la scorta, ma i colleghi del magistrato lo smentiscono <160 e annunciano una nuova astensione dal lavoro, che si estende anche ad alcuni uffici giudiziari di Milano. Pochi giorni dopo il governo prospetta aumenti salariali, ne segue una divisione tra le correnti dell’Anm: Md è contraria e determinata nel chiedere le misure di protezione e quindi confermare ulteriori scioperi, le altre correnti, in particolare Mi, si dimostrano molto più elastiche.
Tutte le principali forze politiche affermano la propria disponibilità nel sostenere le richieste dei magistrati. Il Pci, dopo l’incontro di una sua delegazione con i vertici dell’Anm si impegna ad un’azione «incalzante» nei confronti del governo per la sicurezza <161, ma lancia un allarme quando subentrano gli aumenti salariali: "… in pratica qualcuno ha tentato di barattare le sacrosante richieste dei sostituti procuratori di Roma e della grande maggioranza dei magistrati (sicurezza personale) con una manciata di aumenti salariali […] Md lamenta che il confronto tra il ministro e l’associazione magistrati sia stato dedicato quasi esclusivamente al problema economico…" <162, e, ancora: «la parte più progressista dei giudici denuncia il tentativo di svendere la vertenza attraverso le misure retributive» <163, mentre nell’ambito della maggioranza parlamentare, gli aumenti suscitano le proteste di Giorgio la Malfa <164.
Anche la Dc organizza un incontro tra l’associazione dei magistrati e l’ufficio problemi dello Stato del partito, guidato da Bosco; ma circa gli aumenti salariali l’organo del partito osserva un rigoroso silenzio in questa fase <165. Per quanto riguarda il Psi, anch’esso organizza un incontro con l’Anm all’inizio di luglio, mentre già nei giorni precedenti il partito aveva assicurato tutto l’appoggio ai giudici; in particolare Cicchitto aveva dichiarato che, sebbene non fosse facile proteggere adeguatamente tutti i magistrati, è «aberrante» che non siano state prese le misure del caso per Amato, data la natura delle sue indagini e le minacce ricevute <166. Per quanto riguarda l’aspetto dei riconoscimenti economici che si mescolano alle misure di sicurezza richieste dai giudici, il Psi all’inizio si limita a registrare la contrarietà di Md <167, ma in seguito si mostra molto più sensibile ai settori della magistratura che accolgono con favore gli aumenti di retribuzione; Gaetano Scamarcio, membro della commissione giustizia del Senato, dopo aver denunciato l’«assenteistico comportamento» del ministro della Giustizia, spiega che le richieste di sicurezza, ma anche quelle economiche sembrano ragionevoli e possono essere studiate, non ignorate <168.
L’omicidio di Amato costituisce anche un ulteriore duro colpo per De Matteo, dopo che all’inizio di giugno il Csm aveva iniziato la sua inchiesta sul procuratore di Roma per la gestione del caso Caltagirone. Il procuratore è indotto a dimettersi, gli succederà un altro magistrato che in passato non è apparso insensibile alle sollecitazioni del potere politico, l’ex capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci; Bruti Liberati individua negli sviluppi del caso Amato «una tappa importante del processo di “liberazione” della procura di Roma dai condizionamenti interni ed esterni». E aggiunge: «La preoccupazione che, sull’onda della cacciata di De Matteo, la procura di Roma cominci ad esercitare in modo davvero indipendente il suo ruolo istituzionale determina pressioni politiche fortissime sul Csm chiamato a nominare il nuovo procuratore; a stretta maggioranza viene scelto Achille Gallucci; che per il suo passato come capo dell’ufficio istruzione non appare certo l’emblema di un risanamento, come sarà reso manifesto dalle iniziative sconcertanti e clamorose degli anni successivi» <169. Ma i problemi di De Matteo non si esauriscono con le sue dimissioni, il Csm infatti chiede che venga aperta un’inchiesta penale nei confronti dei «vertici giudiziari» che avevano il dovere di proteggere Amato <170; il riferimento è piuttosto chiaro, si tratta del procuratore della Repubblica. L’inchiesta penale viene effettivamente aperta per omissione d’atti d’ufficio e omicidio colposo e sarà gestita da Perugia, sede indicata dalla Cassazione. Attraverso lo sviluppo dell’inchiesta emergono diversi dettagli: ad esempio che la polizia aveva inviato al ministero un rapporto circa i rischi corsi da Amato; oppure che poco prima dell’omicidio il presidente dell’Anm, Beria d’Argentine, aveva sollecitato una scorta per il giudice <171 e che a giugno Amato aveva denunciato al Csm il disinteresse di De Matteo per i suoi processi <172 (alla fine di settembre appaiono sull’Europeo le dichiarazioni in proposito, e virgolettate, di Amato <173). Ma i guai maggiori cominciano quando emergono i dettagli di un rapporto sul terrorismo di destra che Amato aveva consegnato a De Matteo, al quale era allegata la deposizione di un detenuto fascista, Massimi; questi affermava che «Mario Amato è uno degli obiettivi del terrorismo di destra». De Matteo, in un memoriale inviato a Perugia, afferma di non aver letto tale deposizione, ma in precedenza, al Csm aveva spiegato di aver rivelato all’avvocato difensore di Massimi il contenuto della deposizione del terrorista pentito <174. Intanto anche il procuratore aggiunto di Roma, Raffaele Vessichelli, rimane coinvolto nel caso in quanto lo si sospetta di aver informato Semerari (un perito del tribunale di simpatie neonaziste, e sospettato di omicidio e di complicità nella strage di Bologna) del rapporto inviato da Amato al procuratore (cosa che provoca un’interrogazione da parte del Psi) <175. Ma a metà novembre De Matteo viene convocato dal tribunale di Bologna dai giudici che indagano sulla morte di Amato (inchiesta finita nel capoluogo emiliano in quanto connessa con la strage di Bologna) in veste di imputato (per i reati di omissione e rivelazione d’atti d’ufficio; anche Vessichelli viene inquisito, ma solo per il secondo reato); cosa che spinge il ministro Morlino a chiedere la sospensione di De Matteo e Vessichelli, sancita pochi giorni dopo dal Csm. Nei giorni seguenti la vedova di Amato consegna un documento redatto dal marito (rivelato dall’Espresso) ai giudici bolognesi: in esso si racconta delle interferenze e delle minacce da parte del giudice Alibrandi (il cui figlio, Alessandro, è un elemento delle organizzazioni terroristiche di destra e sospettato di complicità per la strage di Bologna) sulle indagini di Amato circa l’eversione nera nel 1977. Alla fine di novembre i giudici di Bologna aggiungono un reato a quelli contestati a de Matteo, quello di calunnia, per aver incolpato il suo vice, Vessichelli, di rivelazione d’atti d’ufficio.
Non mancano le differenze di tono tra i giornali di partito nel trattare l’affaire: l’Unità è quella che dà maggior spazio all’argomento e che, con maggior vigore, sostiene l’accusa a De Matteo per le sue negligenze circa la protezione di Amato; l’Avanti narra tutti i fatti ma, in particolare rispetto all’aggressività dimostrata in passato nei casi di eversione nera o di giudici considerati conservatori, appare molto più cauto. Il Popolo dedica poco spazio alle vicende e le tratta con distacco.
[NOTE]
154 S. Colarizi e M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Cit. Pag. 94. Secondo gli autori in questa maniera Craxi dimostrerebbe una certa «Discrasia tra visione strategica e pratica quotidiana»; ma si potrebbe obiettare che dal punto di vista del controllo del partito e della cura circa la stampa, l’azione di Craxi sia stata coerente durante tutta la sua segreteria.
155 In occasione del quale iniziano anche a manifestarsi, da parte di Craxi, i «primi segnali di un culto della personalità, destinato a dilagare negli anni successivi», come afferma S. Colarizi, “La trasformazione della leadership. Il Psi di Craxi”, in AA.VV. Gli anni Ottanta come storia, Rubettino, Cosenza, 2004. Pag. 63.
156 Emanuele Macaluso spiega che, mentre in passato i comunisti desideravano mostrare che non si poteva governare contro il Pci, ora intendevano sottolineare che non si poteva governare senza il Pci; da questo proposito derivava una certa «radicalità» politica. Vedi l’intervento di E. Macaluso in G. Acquaviva e M. Gervasoni (a cura di). Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2011. Pag. 104.
157 L’episodio viene ricordato come la «marcia dei quarantamila». Sulla marcia e sulla politica del Pci dopo le elezioni del 1979 vedere, ad esempio, G. Crainz, Il Paese reale, Donzelli, Roma, 2012. Pag. 34s.
158 G. Galli, Storia del socialismo italiano. Cit. Pag. 444
159 A. Giovagnoli, Il partito italiano. Cit. Pag. 205
160 “Udienze bloccate a Roma e Milano per le proteste dei magistrati”, La Stampa del 1 luglio 1980; oppure “Insufficienti per i magistrati le misure prese dal governo”, Unità del 1 luglio 1980
161 “Berlinguer: piena solidarietà del PCI con la magistratura”, Unità del 3 luglio 80. La valutazione del Pci circa la scarsa l’efficacia con cui il governo provvede alla sicurezza dei magistrati è anche espressa in un documento interno della Sezione problemi dello Stato datato giugno 1980. Fondazione Gramsci, Archivio del Pci, Busta 467, Pagina 1044.
162 “Giudici: verso lo sciopero nazionale?”, Unità del 5 luglio 80
163 “Contrasti tra magistrati di fronte alla mossa del governo per gli aumenti”, Unità del 7 luglio 80 164 Ibid.
165 “Magistratura, la Dc mette a punto le sue proposte”, Il Popolo del 3 luglio 80
166 “Appoggio del PSI alle richieste dei magistrati”, Avanti del 28 giugno 80
167 “Incontro PSI-Anm sui problemi della giustizia”, Avanti del 5 luglio 80
168 “Dove i giudici hanno ragione”, Avanti del 16 luglio 80
169 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni Novanta”. Cit. Pag. 205.
170 “Caso Amato: il CSM chiede misure penali”, Unità del 4 luglio 80
171 “Pagherà i conti con la giustizia chi non protesse il giudice Amato?”, Unità del 19 settembre 80
172 “E De Matteo ascoltò Amato infastidito”, Unità del 27 settembre 80
173 “Ma il procuratore De Matteo sarà solo un teste?”, l’Unità del 30 settembre 1980
174 “Caso Amato: De Matteo si contraddice”, Unità del 7 ottobre 80
175 “Inchiesta del CSM sul caso Vessichelli”, Avanti del 29 ottobre 80
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013

domenica 15 settembre 2024

Fin dai primi mesi altrettanto attiva fu l'assistenza agli ex prigionieri alleati

Sassa, frazione del comune de L'Aquila. Fonte: Wikipedia

Per il servizio di informazioni, la formazione partigiana "La Duchessa" si avvalse dell'opera di Mario Bafile <557 che, prima da L'Aquila e poi da San Marco in Preturo, strutturò <558 una fitta rete di collaboratori e di contatti estesa «all'alto bacino dell'Aterno, da S. Demetrio a Montreale; ed all'altipiano di Rocca di Mezzo» <559. Fu convincimento del Bafile che, «scartata la guerriglia arma pericolosissima che si sarebbe potuta ritorcere a tutto danno delle nostre popolazioni», solo attraverso un efficiente e ramificato servizio di informazioni si potesse nuocere ai tedeschi. Di primaria importanza risultava quindi raccogliere dettagliate notizie circa l'ubicazione e il movimento sul territorio di reparti, batterie contraeree, obiettivi strategici quali depositi, officine ed opere di fortificazione, e automezzi, per poi comunicarle agli associati con la massima celerità, «a voce o in inscritto, in qualunque ora del giorno e magari della notte» <560.
Sebbene unitaria nella composizione, operativamente la banda venne suddivisa fin dal suo esordio in tre distaccamenti con a capo un proprio capogruppo che, essendo originario del paese di competenza, aveva una maggiore conoscenza del territorio e della popolazione: a Sassa venne destinato lo Sciomenta, a Tornimparte il Selli, a Lucoli il Colafigli coadiuvato dal Madrucciani. Solo verso la fine dell'anno [1943] <561 venne costituito un quarto gruppo alle dipendenze del sottotenente di Fanteria Gaetano Tiberi <562, operante nelle frazioni di Foce, Piagge e Piè La Villa <563. Verso l'inizio di gennaio [1944] si unì alla banda anche un drappello di partigiani guidati da Ubaldo Pasqualone che si era formato grazie agli armamenti forniti dal tenente D'Amico de L'Aquila che fino a quel momento aveva operato «lungo la strada Aquila-Rieti cercando di sabotare in ogni modo mezzi di trasporto, munizioni e carburante che venivano prese dal deposito munizioni di Lucoli per portarle al fronte di Nettuno, e carburante che veniva trasportato dal campo Madonna della Strada Comune di Scoppito al posto di rifornimento verso il fronte» <564.
Il Marrone - più anziano in grado ed in età - assunse all'interno della banda l'incarico di collegare e coordinare i diversi gruppi, e su suo consiglio, l'organizzazione venne ad essere ideata a compartimenti stagni tali per cui «ognuno non doveva conoscere che i propri uomini e da questi essere conosciuto» <565. La misura cautelare fu motivata della forte preoccupazione che la cattura di uno potesse significare «la morte di tutti», soprattutto «la distruzione di famiglie e di interi villaggi» a seguito delle rappresaglie nazi-fasciste. Così solo il Marrone e i tre capigruppo, più il Madrucciani, restarono sempre in piena conoscenza di tutto quanto inerente la formazione, impegnandosi «con la loro parola, a tacere in tutti i momenti e per qualsiasi frangente» <566.
Dal punto di vista logistico la «speranza - allora per tutti certezza - che presto sarebbero arrivati gli alleati» e le difficoltà a reperire vettovagliamenti, ma anche alloggi in grado di dar riparo ai rigori dell'inverno, convinsero gli organizzatori a posticipare almeno fino all'inizio della primavera il trasferimento degli uomini alla macchia in montagna. Detta scelta, benché ai loro occhi del tutto motivata, di fatto comportò come conseguenza - e fu lo stesso Marrone a dirlo - «rimanere in paese, anche se questo richiedeva la massima prudenza e limitava notevolmente le azioni armate, per evitare le immancabili rappresaglie in danno dell'ignara popolazione» <567.
Un primo impegno per la banda fu diretto al reperimento armi <568: nella notte del 19 settembre '43 un ristretto gruppetto, guidato dal Colafigli, penetrò nella Caserma Allievi Ufficiali de L'Aquila, riuscendo a sottrarvi «dieci fucili mod. 91, tre mitra Beretta, tre casse di munizioni, sei pistole Beretta» <569. L'azione fu condotta con grave rischio per i partigiani dato che presso la caserma si erano acquartierate «le guardie già adibite alla custodia di Mussolini a Campo Imperatore, dopo la liberazione del quale esse, trasferitesi in città, avevano assunto un atteggiamento tedescofilo» <570. Non fu l'unica operazione del genere. La notte del 18 ottobre un più ampio drappello al comando sempre di Colafigli e comprensivo anche dei partigiani Giulio Marotta <571, Dante Aliucci e Giorgio Vespaziani <572, riuscì a trafugare dal Municipio di Lucoli alcune tra le armi in esso raccolte per essere consegnate ai tedeschi; a distruggere gli elenchi di leva e perfino a «bruciare il ritratto di chi aveva presenziato per venti anni a tutti i soprusi compiuti negli uffici d'Italia» <573. Da quando poi, agli inizi di dicembre, i tedeschi realizzarono un imponente deposito di munizioni e di esplosivo esteso per circa 10 chilometri lungo la strada che «da Genzano di Sassa mena alle Ville di Lucoli», le incursioni dei partigiani si ripeterono quasi ogni sera, coadiuvate dagli operai che vi lavoravano e con il concorso di due infiltrati della banda. A seguito di dette azioni, la banda entrò in possesso soprattutto di «ingenti quantità di munizioni di tutti i calibri, per tutte le armi; proiettili per Mauser, per Parabellum, per mitra, per cannoni, per obici, per mortai; bombe a mano italiane; bombe a mano tedesche […]; mine anticarro; dinamite» <574. In un primo tempo il materiale sottratto venne ad essere occultato in un piccolo ripostiglio alle pendici del monte, successivamente fu trasferito «in un grande deposito costruito ad arte in alta montagna, in un sotterraneo sotto i ruderi di una casa diroccata» <575.
Al contempo la banda diede inizio ad un'intensa e perdurante opera di propaganda antifascista e antinazista presso le popolazioni, atta soprattutto a evitare che i giovani di leva e gli sbandati rispondessero ai reiterati appelli di chiamata alle armi del governo repubblicano di Salò, diffondendo allo stesso tempo il messaggio di radio Bari presso i contadini e gli allevatori della zona: «contadini, seminate quanto più potete; non una zolla incolta; non un chicco al nemico; Nascondete quel che potete! Sotterrate quel che non potete nascondere! Avviate il bestiame nei boschi!» <576. «Opera continua, indefessa, una lotta non cruenta» - la definì il Marrone - «ma altrettanto rischiosa, laddove incominciavano a pullulare i delatori» <577.
Fin dai primi mesi altrettanto attiva fu l'assistenza agli ex prigionieri alleati transitanti in zona dopo la fuga dai campi di concentramento abruzzesi. Venivano trattenuti, ospitati, trattata da amici, scrisse il Marrone, aggiungendo poi che alcuni vennero ad essere alloggiati presso contadini disponibili; mentre per chi volle proseguire, pur nelle estreme difficoltà nell'avventurarsi per montagne inospitali in condizioni climatiche avverse e con il continuo pericolo di rastrellamenti nemici, la banda fornì guide attraverso i valichi montani per superare le linee del fronte <578.
[NOTE]
557 Nato a Tornimparte (AQ) nel 1899, ha svolto patriottica nella banda. Cfr. ivi, schedario patrioti. Il Bafile rientrò il 10 settembre a L'Aquila da cui si era allontanato nel 1936 per stabilirsi a Roma. Esente da obblighi militari e non avendo in alcun modo partecipato alle precedenti fasi di guerra, decise di dedicarsi «alla semplice attività informativa […] prima per proprio conto e poi in contatto con la “Duchessa” […] sebbene, in verità con risultati alla fine piuttosto modesti», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 238-239.
558 In collaborazione con l'ing. Filauro Ferdinando «che era tornato da Roma con me e si era stabilito presso i suoi Vecchi a S. Demetrio», ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda La Duchessa, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944.
559 Ibidem.
560 Ibidem. L'area precedentemente identificata, fu divisa dal Bafile in 13 distretti, ognuno sotto in controllo di uno o più collaboratori. A se stesso il Bafile riservò il compito «di seguire un po' tutti e, all'occorrenza, coordinare e dirigere», mentre il ruolo di coordinatore fu affidato all'avv. Giovanni Carloni de L'Aquila - «fra tutti il più esposto al pericolo […] al centro dell'organizzazione avrebbe più facilmente potuto destare dei sospetti», ibidem.
561 Cfr. ivi, relazione Marrone.
562 Nato a Tornimparte (AQ) il 3 maggio 1920, sottotenente del 41° Artiglieria, ha svolto attività partigiana nella banda come comandante di distaccamento partigiano, dal 01/10/1943 al 13/06/1944. Cfr. ivi, schedario partigiani. All'8 settembre era di stanza a Firenze: ricevuto l'ordine di uscire con la batteria alle dipendenze del capitano comandante per raggiungere il Passo della Futa a metà strada fra Firenze e Bologna per appoggiare una compagnia di fanteria che doveva arginare le prime colonne tedesche scendenti verso Firenze, percorsi tre quarti di strada furono «bloccati da due macchine tedesche cariche di armati, fatti prigionieri ed inviati alla volta di Bologna; dopo mezz'ora di strada» furono «liberati dai nostri paracadutisti». Ottenuta dal Capitano una licenza per tutti i suoi uomini, il Tiberi al pari di molti altri, non rientrò in caserma a fine del perìodo, e non potendo restare nascosto a lungo a Firenze senza essere catturato dai tedeschi, preferì fare ritorno a Tornimparte dove si unì alla banda della Duchessa. Ivi, Banda La Duchessa, relazione personale di Tiberi Gaetano del 31 gennaio 1948.
563 Cfr. ibidem.
564 Ivi, relazione personale di Pasqualone Ubaldo. Il gruppo di Pasqualone Ubaldo era formato dai partigiani: Loddi Alessandro, Nardocci Angelo, Pasqualone Italo, Pesce Celestino, Pesce Giuseppe, Prescenzi Carlo e Prescenzi Giglio. Loddi Alessandro, nato a Tornimparte (AQ) il 21 ottobre 1922, soldato del 157° Rgt. mitraglieri di Fanteria, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Nardocci Angelo, nato a Tornimparte (AQ) il 26 marzo 1922, soldato, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Pasqualone Italo, nato a Tornimparte (AQ) il 29 settembre 1919, soldato, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Pesce Celestino, nato a Tornimparte (AQ) nel 1918, soldato del 65° Artiglieria, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Pesce Giuseppe, nato a Tornimparte (AQ) il 21 luglio 1924, soldato, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Prescenzi Carlo, nato a Tornimparte (AQ) l'8 settembre 1924, soldato del 25° Rgt. Fanteria, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44; Prescenzi Giglio, nato a Tornimparte (AQ) il 2 marzo 1922, soldato del 37° Mitraglieri, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/01/44 al 13/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
565 Ivi, Banda La Duchessa, relazione Marrone.
566 Ibidem.
567 Ibidem.
568 I mezzi materiali di cui allora disponevamo erano scarsi: solo qualche pistola che gli ufficiali avevano gelosamente custodita, simbolo del grado e dell'onore mai perduti. Cfr. ibidem.
569 Ibidem. Secondo quanto riferito dal Bafile: «alla Caserma Allievi Ufficiali i capitani Mario Lolli […] e Vincenzo Giglio furono molto solerti; armi e munizioni furono date a tutti coloro che le richiesero, ed ho ragione di ritenere che la maggior parte delle armi che sono passate più tardi nelle mani dei patrioti, uscirono dalla Caserma Allievi Ufficiali in quei giorni», ivi, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944. Questa versione dei fatti è solo in apparente contrasto con quanto riferito dal Marrone, in quanto, come ci ricorda Costantino Felice, «probabilmente, come di solito accadeva, viene sferrata un'azione dall'esterno con complicità dall'interno», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 240.
570 ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda La Duchessa, relazione Marrone. La circostanza trovò conferma anche nel memoriale del Bafile secondo cui nella caserma «furono accasermate le guardie che erano state addette alla custodia di Mussolini e che scesero da Campo Imperatore giusto in quei giorni […] ed impiantarono subito una specie di corpo di guardia all'ingresso della Caserma ed assunsero un atteggiamento alquanto tedescofilo», ivi, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944.
571 Nato a Lucoli (AQ) il 12 febbraio 1923, alpino, ha svolto attività partigiana nella banda dal 15/09/43 al 13/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
572 Nato a Roma il 29 aprile 1922, aviere presso il 1° Rgt. Avieri Roma, ha svolto attività partigiana nella banda dal 15/09/43 al 13/06/44. Cfr. ivi, schedario patrioti e ivi, Banda La Duchessa, ruolino.
573 Ivi, relazione Marrone.
574 Ibidem.
575 Ibidem.
576 Ibidem.
577 Ibidem.
578 Cfr. ibidem.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

giovedì 5 settembre 2024

Programma ideologico e connotazione del MSI entro la destra neofascista


Il MSI, quale partito originatosi dalla costola della RSI, appare “chiaramente debitrice del fascismo repubblicano” <64, nella piena impossibilità di ripristinare il regime fascista del ventennio, dal quale si distacca anche nella denominazione, appellandosi come “movimento”. Tuttavia, nella sua configurazione, il MSI assurge a partito di massa, al pari di quello fascista, che si accresce utilizzando vari strumenti di propaganda (quale la stampa), raccogliendo un numero elevato di iscritti <65.
Esso desidera, quindi, oltrepassare la stretta e angusta nicchia della clandestinità, per raggiungere un ampio consenso popolare, tramutandosi, da “fenomeno di conventicole” in una “forza politica in grado di parlare a molti, se non a tutti” <66.
Il partito prendeva le mosse dalla consapevolezza che il Paese stesse attraversando una fase di crisi, al pari di ogni altro Stato immerso in uno scenario post-bellico, e necessitasse, quindi, di nuovi riferimenti politici che accompagnassero la ricostruzione, recuperando e valorizzando in una diversa luce gli ideali fascisti.
A questo proposito, giova ricordare le parole di Giorgio Almirante, il quale sosteneva: “Che vi sia, in genere una crisi di costume, una crisi morale e civile, prima ancora che politica, di tutto il mondo moderno, è ormai generale ammissione, è angoscia largamente sentita. Noi concepiamo il fascismo come possibilità di superare la crisi del mondo moderno, e nella organizzazione dello Stato, e nei rapporti sociali e nelle relazioni fra le Nazioni, e specificatamente nei compiti che la civiltà assegna all’ Europa e all’Italia” <67.
Il MSI si trovava immerso in un clima politico fondato sull’antifascismo; dunque, esso non avrebbe potuto avviare una politica strettamente aderente a quella del regime, bensì valorizzare quegli ideali a mezzo di un asserito rinnovamento, tale da attirare “consenso e di stabilire criteri di legittimità, e di discriminazione”, rispetto agli altri soggetti partitici, “riconosciuti” e ben identificabili dall’elettorato <68. La nuova manifestazione del fascismo si sarebbe così inserita nei ranghi della “destra”, determinando quella che, secondo alcuni, ha costituito un’“invasione” nell’area della legalità di un gruppo politico erede di un passato “illegale”, almeno alla luce dei crimini commessi dal regime <69.
Gli scopi perseguiti dal partito sono chiaramente enunciati nel relativo programma, composto da una serie di punti sintetici, ai quali era premesso un “Appello agli italiani”, di carattere esortativo, diretto all’ottenimento del consenso di tutti i nostalgici e dei lavoratori che avessero, tra i loro ideali, anche quello di difesa dalla patria, per riportare Roma “all’antica dignità calpestata dall’occupazione straniera e dal servilismo e dall’abiezione morale [...] dalla faziosità imperante, generatrice di scandali e di ruberie” <70.
Una sintesi di questo programma è delineata nell’articolo 2, in cui viene precisata anche la natura del MSI. Si tratta, invero, di “un movimento politico che ha lo scopo di difendere gli interessi e la dignità del popolo italiano, promuovendo tutte quelle iniziative intese ad affermare, difendere e realizzare con la collaborazione di tutti gli italiani”.
Il programma si fondava su alcuni concetti-cardine del neofascismo: la subordinazione della politica estera all’unione nazionale; il superamento della frammentazione territoriale e l’accentramento dei poteri; i limiti posti alle libertà individuali, come quella di espressione, anche a mezzo stampa, e di associazione, le quali non potevano svolgersi in modo contrario al buon costume <71.
Questo programma manifestava le caratteristiche di un partito, almeno apparentemente “ispirat[o] ad una concezione etica della vita, che ha lo scopo di difendere la dignità e gli interessi del popolo italiano e di attuare l’idea sociale nella ininterrotta continuità storica” <72.
Si tratta di un orientamento che venne propugnato durante i vari Congressi del partito, luogo privilegiato per l’elaborazione delle azioni da intraprendere e delle posizioni da assumere rispetto alle varie questioni di rilievo politico <73.
Emblematico appare il fatto che, nel corso del primo Congresso del MSI, svoltosi a Napoli nei giorni 27, 28 e 29 giugno 1948, il partito emanò alcune determinazioni, in forma di relazione, circa gli interventi proposti dal Governo. Esso si schierò contro l’istituzione di enti con competenza territoriale (nella specie, le Regioni), che avrebbe dovuto, secondo i missini, essere sottoposta al vaglio referendario (relazione sulla Politica interna e costituzionale). A latere, si collocava la relazione sulla Politica Estera, con la quale il MSI si opponeva ai Trattati di Parigi, ritenendo la sottoscrizione di tali accordi poco degna per la protezione dell’interesse del Paese, pur sconfitto dalla guerra.
Si trattava di rendere coerente quanto espresso nel programma del partito, il quale desiderava dare vita a un vero e proprio “movimento di consensi per la revisione degli accordi internazionali esistenti” <74 che superasse la logica dei “vinti” e dei “vincitori”.
Infine, con l’approvazione da parte del Comitato centrale della relazione in materia di Politica sociale ed economica venne esposta la posizione del MSI contraria al liberismo e favorevole al corporativismo, nonché alla nazionalizzazione delle imprese e, dunque, all’intervento dello Stato nell’economia <75.
Sotto l’aspetto della composizione e della membership, il MSI raccoglieva tanto le istanze dei militanti che costituivano la corrente rivoluzionaria della destra - avendo combattuto per una riaffermazione degli ideali fascisti, all’indomani dell’avvento della Repubblica - quanto quelle dei moderati, che desideravano conferire veste legale alle attività clandestine organizzate sotto l’egida del neofascismo fino a quel momento.
Si trattava, in altri termini, di trovare un’adeguata sede per evitare che “decine di migliaia di giovani fascisti clandestini o semiclandestini” scegliessero di continuare ad agire “sul piano della lotta armata” <76.
Nella storia del MSI, la fazione “anticapitalista e antiatlantic[a]” <77 trovò sempre un equilibrio nella presenza dell’ala moderata, emblematicamente espressa dal Segretariato, in origine occupato da Almirante, e - in veste di vicesegretari - da Giorgio Roberti e Arturo Michelini.
Proprio questo elemento consentì al MSI di inserirsi nel tessuto democratico e nella logica parlamentare, che - invece - il fascismo rivoluzionario negava e rifiutava.
I rischi, tuttavia, dell’uscita dalla clandestinità e della fondazione di un’organizzazione che avesse una fisionomia partitica, erano ben evidenti agli stessi neofascisti, preoccupati per come sarebbe stata interpretata la loro scelta a favore della strada della legittimità.
Giorgio Almirante, in occasione del Congresso del MSI del 1956 <78, ricordava che lo scopo del MSI era quello di “fare una politica di rilancio sociale”, in qualità di “fascisti della Repubblica Sociale Italiana”, reduci da quella esperienza. Il timore era, invece, quello di ingenerare “l’equivoco” di “essere fascisti in democrazia”, qualifica che appare di “spaventevole difficoltà per [la] democrazia, per [l’] Italia del dopoguerra”; dunque, il fine doveva essere quello di un inserimento “come MSI cioè come partito operante in questa democrazia” e in piena legalità <79. Tale bilanciamento risultava, però, difficile da realizzare, soprattutto a causa del permanere di gruppi di giovani neofascisti, soprattutto studenti, che sostenevano la componente “militare” del partito, attivandosi concretamente anche con manifestazioni di violenza, condannate (formalmente) dal MSI, ma di fatto avallate per poter consentire la stessa sopravvivenza del partito, che altrimenti avrebbe ceduto di fronte ai tentativi di rafforzamento politico della sinistra.
Queste azioni vennero, nel tempo, canalizzate e indirizzate attraverso la creazione di soggetti organizzati, nella forma di associazioni studentesche. Si pensi, per esempio, al Fronte Universitario di Azione Nazionale (FUAN) - poi divenuto, alla fine degli anni Settanta, FUAN Destra Universitaria - che raccoglieva studenti universitari animati dalla volontà di rinsaldare i valori fascisti oltre ciò che proponeva il MSI, distaccandosi da esso <80. Fondato a Roma, nel 1950, il Fronte trovò la tolleranza del MSI, anche se a più riprese ebbe contrasti accesi con quest’ultimo.
D’altra parte, la decisione di intraprendere un percorso legale di riconoscimento e legittimazione politica da parte del MSI era incompatibile tanto con il supporto ad azioni di carattere eminentemente eversivo, quanto con un atteggiamento di impedimento a iniziative giovanili di autonoma organizzazione, che trovavano proprio del MSI la propria forza propulsiva.
È anche innegabile, però, che la mancanza di coesione interna e le difficoltà per addivenire a una linea politica unitaria avrebbero potuto causare una scissione insuperabile, tale da compromettere la stessa sopravvivenza del partito <81, ragione per cui il MSI si schierava solo a parole contro le dimostrazioni dei rivoluzionari, non assumendo, in pratica, alcun provvedimento per impedirne la realizzazione.
Allo stesso modo, esso criticava le posizioni dei giovani neofascisti fuoriusciti dal partito per ingrossare le fila delle associazioni studentesche, senza - tuttavia - pervenire a una formale condanna di questo tipo di atteggiamento.
La ratio che sottendeva a questa strategia risiedeva nella consapevolezza di non poter godere di un vasto e diffuso consenso politico, ragione per cui la conservazione, anche a fronte di un latente compromesso, costituiva l’unica arma di difesa contro i possibili attacchi alla unità del partito.
[NOTE]
64 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., p. 22.
65 Così osserva P. IGNAZI, La cultura politica del Movimento Sociale Italiano, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, vol. 19, n. 3, 1989, pp. 431-465, confrontando il MSI con altri partiti espressione della destra italiana del dopoguerra.
66 G. PARLATO, op. cit., p. 250.
67 G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, Il Movimento Sociale Italiano, Nuova Accademia, Roma, 1958, p. 19.
68 G. SORGONÀ, Cantagallo o Predappio? Il Movimento sociale italiano in Emilia Romagna tra esclusione e tolleranza (1970-1983), in M. Carrattieri, C. De Maria (a cura di), La crisi dei partiti in Emilia Romagna negli anni ’70/’80. E-review dossier, n. 1, 2013, p. 86.
69 G. PARLATO, La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954), in G. Petracchi (a cura di), Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, Gaspari editore, Udine, 2005, p. 134.
70 Ivi, p. 32.
71 La tutela del pudore e di ogni altro profilo rientrante nella nozione extra-giuridica di “buon costume” aveva costituito uno dei principali interessi pubblici protetti dal legislatore fascista, il quale proponeva, soprattutto nella normativa penale, un archetipo “astratto e paternalistico” con l’obiettivo di sostenere altre finalità (si pensi solo alla politica demografica), attraverso una imposizione di un “valore deontologico”, in parte rimasto ingabbiato anche nel vigente quadro giuridico, G. FIANDACA, Il codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale. Dibattito su “Il codice Rocco cinquant’anni dopo”, “La questione criminale”, vol. I, 1981, p. 77.
72 M. GIOVANA, op. cit., p. 48.
73 Proprio durante il primo Congresso del partito, tenutosi a Napoli, fu redatto quello che costituì lo schema del programma del MSI, in sette punti così articolati: “I) Non rinnegare e non restaurare [...] Negare il passato significa svilire il presente e rinunciare all’ avvenire... II) Lanciare tra le generazioni che il dramma della guerra civile ha diviso il ponte della concordia nazionale e della solidarietà sociale [...] III) Esigere che la Nazione sia ricondotta al suo rango di dignità ed onore [...] IV) Lottare ad oltranza [...] soprattutto contro gli abusi e le iniquità di una legislazione anticostituzionale e di una Costituzione antinazionale [...] V) Riconoscere in modo nettissimo che il nostro problema interno è oggi essenzialmente un problema sociale il quale si pone in termini incisivi e indilazionabili: o attuare un sistema che dia al lavoro il rango di protagonista della vita nazionale o cedere al dilagare della reazione bolscevica. Per avviare il problema a soluzione occorre restituire ai lavoratori l’orgoglio del lavoro come manifestazione fondamentale della propria umanità, risolvere in una nuova sintesi il drammatico squilibrio che il prevalere della macchina sul l’uomo ha determinato. In tal senso noi non esitiamo a richiamarci all’idea corporativa concepita come armonia finale degli elementi naturali: individuo e nazione [...] tale idea si ispira la dottrina dello stato Nazionale del Lavoro che è sociale e non socialista, nazionale e non nazionalista. VI) Attuare questa idea nella socializzazione della impresa attraverso la compartecipazione del lavoro manuale e direttivo, agli utili delle aziende, e la corresponsabilità dei lavoratori alla gestione di essa [...] VII) Dare al sindacato [...] personalità e poteri di diritto pubblico e il compito di stipulare i contratti collettivi di lavoro aventi efficacia di leggi”, “Il Secolo d’Italia”, 23 gennaio 1973.
74 G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, op. cit., p. 58. Cfr. sul punto anche R. CHIARINI, «Sacro egoismo» e «missione civilizzatrice». La politica estera del Msi dalla fondazione alla metà degli anni Cinquanta, “Storia contemporanea”, vol. XXI, n. 3, 1990, p. 457 ss.
75 Secondo il programma del partito, suddetto intervento costituiva un “dovere” dello Stato, che richiedeva di essere adempiuto “vastamente e pesantemente” (G. ALMIRANTE, F. PALAMENGHI CRISPI, op. cit., p. 21).
76 P. G. MURGIA, Il Vento del Nord. Episodi e cronache dopo la Resistenza, Edizioni Sugar, Milano, 1975, p. 150.
77 P. BUCHIGNANI, Ribelli d'Italia, Marsilio, Venezia, 2017.
78 Intervento pubblicato in “Il Secolo d’Italia”, 15 novembre 1956.
79 Ibidem.
80 Il Fronte è legato ai nomi di Silvio Vitali, il quale assunse la carica di Presidente, nonché di Franco Petronio, Tomaso Staiti di Cuddia, Benito Paolone, e Giuseppe Tricoli, tutti aderenti al MSI.
81 Tale era la preoccupazione di Romualdi, il quale riteneva che un partito non potesse presentare scissioni interne, ma dovesse riunirsi in una unica corrente, espungendo coloro che non aderivano in pieno alla linea di azione intrapresa.
Andrea Martino, Nascita del MSI nel periodo dal 1946 al 1960 con riferimento al rapporto tra società italiana e neofascismo, Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2019-2020

martedì 27 agosto 2024

La principale differenza tra il pensiero di Moro e quello di Berlinguer


Ciò che il fallimento del referendum abrogativo del 1974 aveva messo in evidenza era non tanto il tentativo mancato da parte della dirigenza della Dc di rafforzare il partito, quanto la minaccia che mirava alla sua centralità. Il partito non aveva saputo mediare fra le istanze del mondo laico e del mondo cattolico: aveva dimostrato di non saper più svolgere quella funzione di sintesi cui aveva assolto nella fase precedente della storia repubblicana <35. Fu in questa situazione, nel quadro di una pesante crisi economica e sotto l’incalzante minaccia del terrorismo, che si sviluppò la strategia di Moro riassunta nella efficace formula della “terza fase” <36. Come si evidenza nell’intervista rilasciata dal segretario della Dc a Eugenio Scalfari <37, la “terza fase” doveva essere divisa in due tempi: il primo consisteva nella realizzazione di una solidarietà tra tutte le forze democratiche, con la reciproca legittimazione dei due partiti maggiori; il secondo tempo era quello della stabilizzazione di una democrazia dell’alternanza, anche se, come sottolinea Scoppola, «questo era solo un barlume di speranza, un’ipotesi di tipo culturale più che politico» <38.
Dopo la tornata elettorale del ’75 era arrivato per Moro il momento di affrontare il nodo politico del rapporto con il Pci: riprendendo le riflessioni che già nel 1969 aveva iniziato formulando la «strategia dell’attenzione», parlava ora dell’indispensabilità di «un confronto non superficiale, né formale, con la massima forza di opposizione, sul contenuto del programma [di governo] e sulla situazione politica» <39.
Anche per Berlinguer, forte della fiducia ottenuta dal partito alle amministrative del 1975 e ancora più rafforzato dal processo di secolarizzazione che stava investendo l’Italia in quegli anni, di cui la vittoria del ‘no’ al referendum fu una prova inconfutabile, sembrava giunto il momento di iniziare a parlare chiaramente di questo dialogo tra i due partiti. Per scavalcare il recinto di accesso al governo i comunisti avrebbero dovuto sciogliere il loro legame con Mosca e rinnegare il leninismo. Berlinguer non era ancora in grado di affrontare questa radicale trasformazione ideologica, politica e culturale, nonostante fosse stato fautore di un allontanamento dalla casa madre che aveva portato alla nascita di un polo comunista alternativo a quello sovietico e guidato appunto dal suo partito, portavoce di un comunismo democratico compatibile con le democrazie occidentali <40. Berlinguer era convinto che l’Italia dovesse fare tesoro della sua esperienza passata, quando, nel periodo 1944-45, i partiti antifascisti avevano cooperato per consentire il risorgimento della nazione, malgrado i diversi e opposti orientamenti politici. Questa esperienza andava ripetuta dopo trent’anni per superare la frase critica in cui la nazione transitava, sbandata dalla crisi economica e dalla minaccia terrorista sempre alle porte. Spettava quindi ai partiti farsi carico della responsabilità di ricerca di un accordo dall’alto per comporre i conflitti che i cittadini lasciati a se stessi non apparivano in grado di regolare <41. Questo pensiero del segretario comunista si era già ampiamente rafforzato due anni prima quando, nel 1973, in Cile i militari guidati dal generale Augusto Pinochet avevano rovesciato con un colpo di stato il governo socialista di Salvador Allende, instaurando una dittatura. Berlinguer non aveva dubbi che quella del “compromesso” fosse l’unica strada da intraprendere, e lo dimostrò nello stesso 1975 quando la corrente socialista di Riccardo Lombardi gli propose una collaborazione alternativa a quella con la Dc, ossia con il Psi. Questi, infatti, era uscito dalle elezioni del 1975 con un 11,8%, che, sommato ai voti del Pci, avrebbe consentito di raggiungere il 45,3%, una percentuale mai conquistata da socialisti e comunisti insieme. Berlinguer rifiutò l’offerta nella convinzione che Moro condividesse il ragionamento di fondo alla base del dialogo tra i partiti: la democrazia italiana era una democrazia debole, bisognosa della cura attenta da parte dei due partiti che insieme rappresentavano più del 70% dei cittadini-elettori <42.
La principale differenza tra il pensiero di Moro e quello di Berlinguer risiedeva, tuttavia, proprio nel carattere specifico della “solidarietà nazionale”: la sua durata, o meglio, il fatto che per Moro l’accordo fosse destinato ad avere una durata limitata nel tempo, in quanto il fine ultimo sarebbe stato quello di arrivare ad un’alternanza politica.
L’accordo tra i due leader di partito rimase accuratamente taciuto durante la campagna elettorale per le politiche del ’76: i comunisti dipinsero la Dc come il ricettacolo di tutti i vizi politici, i democristiani rievocarono il fantasma della dittatura comunista. Il 20 giugno 1976, quando gli italiani furono chiamati alle urne per il rinnovo dei due rami del Parlamento, i risultati delle votazioni attestarono una ripresa della Democrazia cristiana, arrivata al 38,7% a dimostrazione dell’arresto della spirale negativa in cui era caduto il partito l’anno precedente. Sorpresa ancor più grande fu il mancato “sorpasso” del Pci sul partito di maggioranza, nonostante i pochi punti percentuali tra le due forze. Il Pci infatti raggiunse il 34,4%, maturando il miglior risultato della sua storia.
Una volte chiuse le urne, il problema di formare un governo sembrò insolubile <43: dalle votazioni risultavano indeboliti i partiti del centro laico, il Psi, terzo partito italiano con uno scarto sul Pci di 24,7 punti percentuali, e il Pli che era sceso ancora rispetto alle politiche del ’72, raggiungendo un misero 1,3%. Le opzioni confluirono in un’unica soluzione, la formazione del terzo governo Andreotti, un monocolore democristiano passato alla storia come il governo della “non sfiducia”: una formula ambigua dietro la quale si affacciava il compromesso storico con il Pci. L’espressione fu coniata dallo stesso Andreotti quando, il 4 agosto, presentò il governo alle Camere: «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati» <44. La coalizione di solidarietà nazionale fondata sull’astensione di comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani, sarebbe rimasta in piedi per un anno e mezzo durante i quali il governo Andreotti avrebbe operato di concerto con il Pci, nonostante le riserve nutrite da un’ampia frangia della Democrazia cristiana. Per le correnti di destra e di centro, e per lo stesso Andreotti, infatti l’intesa con Berlinguer proposta da Moro aveva una funzione più che altro strumentale: il Pci era l’anello di congiunzione con il centro sindacale della Cgil, indispensabile per l’approvazione di provvedimenti impopolari necessari per porre ordine ai conti pubblici del paese. Per Berlinguer la nuova formula di governo avrebbe dovuto avere un carattere provvisorio: un preludio all’entrata vera e propria del Pci all’interno della maggioranza, con la nomina di esponenti del Partito comunista ad alcune delle cariche ministeriali alla guida del paese. Proprio quando il Pci decise di alzare la posta in gioco, mettendo in crisi il terzo governo Andreotti nel 1977 il paese venne invaso da una nuova ondata di protesta. Questa volta, i moti del Settantasette provenivano da gruppi di studenti che vedevano nelle loro carriere universitarie non una transizione verso il mondo del lavoro, ma una situazione di blocco dovuta all’incertezza del paese in campo di occupazione e lavoro. Le università di Roma, Bologna e Padova diverranno nuovamente scenari di guerriglia e manifestazioni, vasche dove nuotavano i pesci delle Br, di Prima linea, dei Comitati dei comunisti combattenti che negli studenti trovavano appoggi e consensi <45. Questa volta, l’avversione dei cittadini era contro l’intera partitocrazia, nessuna forza esclusa, neanche il Pci che con il compromesso con la Dc aveva segnato la sua condanna a partito omologatosi alle altre forze politiche, ed era per questo stato accusato di tradimento da chi pochi anni prima aveva visto in esso una via alternativa ai centri di potere che dominavano l’Italia da un ventennio.
[NOTE]
35 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, sistema politico e istituzioni, Rubbettino, 2003.
36 Ivi, p.26
37 E. Scalfari, “Quel che Moro mi disse il 18 febbraio”. L’ultima intervista del leader Dc, in «la Repubblica», 14 ottobre 1978.
38 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, ivi, cit., p.28.
39 Aldo Moro, Scritti e discorsi, VI, p. 3362, in P. Craveri (a cura di), Storia d’Italia, La Repubblica dal 1958 al 1992, Milano, TEA, 1996.
40 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 117.
41 Ivi, p. 118.
42 Ivi, p. 125.
43 Ivi, p. 127.
44 Discorso programmatico pronunciato da Andreotti alla Camera dei deputati (4 agosto 1972) in occasione della presentazione del III° governo, (http://storia.camera.it/res/pdf/discorsi_parlamentari/alessandro_natta.pdf).
45 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 129.
Francesca Lanzillotta, La svolta degli anni Settanta nelle pagine de «L’Unità» e de «Il Popolo», Tesi di Laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2015-2016