lunedì 13 maggio 2024

La morte del Duce lasciò i servizi segreti americani oltremodo insoddisfatti e delusi per essersi lasciati sfuggire l’ambita preda


E’ noto che i due partigiani a guardia della coppia [Benito Mussolono e Claretta Petacci] durante la notte tra il 27 e il 28 aprile 1945 in casa De Maria, furono Giuseppe Frangi, alias “Lino”, e Gugliemo Cantoni, nome in codice “Sandrino”. Tra le persone interrogate dal Mocarski non appare “Lino” che, d’altro canto, moriva agli inizi di maggio del 1945 e, dunque, assai difficilmente poteva essere stato interrogato. Pertanto, il referente per le indagini dei servizi segreti americani ben poteva essere “Sandrino Menefrego” <136, il quale effettivamente figura tra le persone interrogate il 12 giugno 1945, ancorché, come noto, quest’ultimo fornisse versioni differenti della morte del duce <137. “Sandrino” resta, in definitiva, un personaggio assai indecifrabile che s’ipotizza abbia lasciato in eredità un memoriale sulla morte del Duce che, però, non è stato mai rinvenuto e il cui contenuto, prima di morire, avrebbe svelato a una persona anch’essa restata nell’oblio … A meno di non ritenere che l’uno dei due carcerieri interrogato dal Mocarski fosse non il Guglielmo Cantoni ma altri <138.
Sappiamo, inoltre, che “Sandrino” non fu l’unico custode della coppia a casa De Maria nella notte tra il 27 e il 28 aprile ’45. E, infatti, non è trascurabile il ruolo assunto in tale torbida vicenda dal partigiano “Lino”, il quale, nel rapporto dell’OSS, dapprima, figura tra i presenti all’esecuzione del Duce, giacché riferirà di aver sentito la Petacci prima di morire rivolgere a Mussolini quella singolare domanda sopra citata, e, poi, nella seconda stesura, non è direttamente e specificamente nominato né tra i membri della scorta di Mussolini, né tra i suoi omicidi (identificati - si ricordi - nell’uomo da Milano in vesti civili, un partigiano e, infine, l’ignoto autore di due colpi di grazia indicato quale «ufficiale della locale unità partigiana»). Ivi è, però, riportata la medesima domanda rivolta dalla Petacci a Mussolini ma, questa volta, riferita dal capo partigiano proprio all’ufficiale partigiano autore dei due colpi di grazia. In altri termini, se la logica può essere invocata ad ausilio in tutta questa complessa vicenda: o l’elemento costante in entrambi i capitoli sull’esecuzione di Mussolini e della Petacci è irrilevante o, invece, il partigiano “Lino” e quell’«ufficiale partigiano» che esplose almeno due colpi contro il Duce furono la stessa persona che Mocarski, per qualche intuibile ragione, volle poi escludere dalla scena dell’esecuzione.
Va, comunque, rammentato che sul ruolo di “Lino” (al secolo Giuseppe Frangi) nei fatti di Dongo e in ciò che ne scaturì, molto si è scritto e anche insinuato <139. E’ un fatto che il Frangi morì in circostanze misteriose il 5 maggio 1945: fu rinvenuto cadavere sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo. Il partigiano “Bill” ha narrato che fu il “Neri” a trovare lì il suo cadavere intorno alle ore 2,00 del mattino. "La presenza di uno dei personaggi più misteriosi della vicenda di Dongo [il “Neri”] induce a supporre che la morte del “Lino” abbia qualcosa a che vedere con i fatti di Bonzanigo dove “Lino” insieme a “Menefrego” fece la guardia a Mussolini e Claretta Petacci in casa degli zii e assistette alla morte del dittatore e dell’amante. Indubbiamente “Lino” non è stato ucciso per essere stato di guardia a Mussolini. Bisogna quindi cercare nei fatti precedenti e successivi alle vicende di Bonzanigo la causa della morte o meglio dell’uccisione di Lino" <140. Secondo quanto riferito da “Bill”, “Lino” avrebbe voluto avvisare il “Neri” del pericolo su di lui incombente, non dovuto, però, alla vecchia condanna a morte inflittagli dal partito ma al fatto che aveva disobbedito all’ordine di uccidere Mussolini, avendo, invece, aderito al piano di Cadorna - Sardagna - Cademartori che ne prevedeva la consegna agli Alleati: questo, dunque, sarebbe stato il movente dell’assassinio del “Neri” e, di riflesso, anche dello stesso “Lino”che si accingeva a rivelare il disegno criminoso ordito ai suoi danni <141.
É, comunque, un fatto che le circostanze della morte del partigiano “Lino” non furono mai chiarite: si disse che Giuseppe Frangi, alias “Lino”, fosse stato dilaniato dallo scoppio fortuito del suo stesso fucile, ma c’è chi ha mormorato che fosse stato ucciso da mani fratricide. Effettivamente la sentenza della sezione istruttoria della Corte d’Appello di Milano n.772/49, resa nel processo contro Moretti e altri, citava il delitto di omicidio in danno di Giuseppe Frangi in Dongo il 5 maggio 1945. E’, altresì, noto che al partigiano “Lino” furono decretati dai dirigenti del PCI funerali grandiosi che, per molti, sarebbero stati giustificati da notevoli meriti storici <142. Su questa celebrazione post mortem, la fonte più importante è di certo costituita dagli archivi del Pci: una nota dattiloscritta in calce a una copia del manifesto funebre in onore di Siro Rosi <143, alias il comandante “Lino”, così recitava: «Il comandante “Lino”, contrariamente a quanto da questi riferito, cioè che al momento della cattura del Duce, si trovava da tutt’altra parte e abbastanza lontano, aveva, al contrario, partecipato alla cattura del Duce e ovviamente a tutto quanto ne seguì. La prova sul ruolo avuto dal comandante Lino negli ultimi giorni del fascismo, la “tessera” mancante dell’intricato mosaico sui fatti di Dongo doveva emergere solo dopo la morte del leggendario rivoluzionario dall’occhio di vetro» <144. Il ruolo del partigiano “Lino” nelle ultime convulse ore della vita del Duce non è, dunque seriamente, trascurabile, chiunque egli fosse stato. Piuttosto, la questione da porsi è la seguente: se si possa dedurre un tale decisivo ruolo dal mero fatto che “Lino”, come molti altri in quel periodo, fosse morto in circostanze misteriose o anche dalla sin troppo ovvia circostanza che altri protagonisti di quelle intricate vicende abbiano riportato le dichiarazioni da lui rese in quel concitato contesto. O se, forse, non sia più corretto, dal punto di vista storico, oltre che logico, limitarsi a registrare un “sintomo” dell’importanza del personaggio e, dunque, almeno un indizio del ruolo di prim’ordine da lui assunto nella fine del Duce, non, di certo, costretto entro i limiti del mero carceriere, nella peculiare circostanza secondo la quale il PCI, che non ne riconobbe in vita i meriti, poi gli tributò in morte grandiosi onori?
Conclusioni
La vicenda della condanna e messa a morte di Benito Mussolini è ancora avvolta nella nebbia e, probabilmente, cela molti segreti che non saranno mai disvelati … Come si è chiarito in premessa, si condivide l’impostazione metodologica di Renzo De Felice, secondo il quale "la morte non è stata la cosa più importante della vita di Mussolini!", ma ciò non esime lo storico (o chi ambisca a contribuire alla ricerca della verità) dalla ricostruzione dei fatti ovvero, avuto riguardo al lavoro che è stato svolto da coloro che lo hanno preceduto, che, nel caso di specie, non è stato certo di lieve entità, dall’approfondire, correggere, chiarire la loro ricostruzione dei fatti. E ciò è quanto sommessamente ci si è proposto di fare, al fine di lasciar emergere finalmente la verità storica dalla saga romanzesca, anche se forse si è deluso chi si aspettava di scoprire chi abbia premuto il fatidico grilletto …
In compenso, alcune verità ci sembrano ormai acquisite e imprescindibili per una seria ricerca storica sul tema:
- il viaggio di Mussolini lungo la sponda occidentale del lago di Como non aveva come destinazione la Svizzera, dove Mussolini più volte aveva dichiarato di non volere fuggire, ma la Valtellina, eletto a ridotto sicuro in un estremo atto di difesa o, più probabilmente, di resistenza in attesa dell’arrivo degli Alleati ormai prossimi, cui arrendersi dignitosamente nella consapevolezza che tutto era perduto e che i suoi connazionali non gli avrebbero permesso di difendersi innanzi al tribunale della storia;
- Benito Mussolini fu condannato a morte dal “Decreto sui poteri giurisdizionali” del CLNAI del 25 aprile;
- appresa la notizia dell’arresto del Duce, nella seduta notturna del 27 aprile, il Comitato Insurrezionale del CLNAI decise, in esecuzione del decreto sopra detto, la messa in morte del Duce e ne incaricò i comunisti Audisio e Lampredi, i quali, però, dovevano agire in tutta fretta, non escludendo la fucilazione sul posto, per evitare che il Duce cadesse nelle mani degli Alleati che lo avevano espressamente reclamato. Il CVL, organo militare del CLNAI, ratificava la decisione del Comitato Insurrezionale;
- la missione milanese non trovò tutti d’accordo. Innanzitutto il CLN di Como vantava la consegna del Duce (tanto che esiste delega firmata dai suoi membri al delegato alleato comandante Dessy a trattare la resa con i fascisti a Como a condizioni che includevano la consegna di Mussolini agli Alleati); il comandante della Brigata garibaldina a Dongo “Pedro” non fu favorevole all’esecuzione sommaria di Benito Mussolini e temporeggiò ma, alla fine, capitolò di fronte a "‹ordini superiori" e, infine, il “Capitano Neri”, condannato a morte dal Pci e reintegrato nella Resistenza grazie alla mediazione di “Pedro”, fu, di certo, contrario ai metodi stalinisti del partito …
- Mussolini, detenuto dal pomeriggio del 27 aprile, in un viaggio apparentemente cervellotico - da Dongo a Germasino e, dopo qualche ora, a Moltrasio nei pressi di Como e, poi, nuovamente verso Nord sino a Bonzanigo di Mezzegra - ma progettato con la collaborazione del “Neri”, che obbediva agli ordini di “Pedro” e non del partito, oramai vittima degli ordini e contrordini dei suoi carcerieri, fu fucilato a Giulino di Mezzegra nel pomeriggio del 28 aprile ’45 per opera di un’agguerrita spedizione giunta da Milano, i cui protagonisti furono i partigiani comunisti “Valerio”, “Guido”, “Pietro” e, molto probabilmente, “Lino”…
La morte del Duce lasciò i servizi segreti americani, che operarono, anche in tal caso, scoordinati e gli uni all’insaputa degli altri, oltremodo insoddisfatti e delusi per essersi lasciati sfuggire l’ambita preda, tanto che essi dovettero attivarsi a posteriori per scoprire le verità che ora sono emerse, mentre non si può dire parimenti di quelli inglesi che, bene irreggimentati e assai più disciplinati, non solo conferirono ampio mandato ai rappresentanti istituzionali della Resistenza ma li invitarono a “risolvere” la faccenda al più presto possibile. Pertanto, la fine del Duce condensa in sé e, nel contempo, rappresenta un caso eclatante della dicotomia interalleata che connotò la politica anglo-americana verso l’Italia, di cui nei capitoli precedenti si è ampiamente trattato.
[NOTE]
136 A proposito di “Sandrino Menefrego”, Mocarski ha affermato che costui era uno dei vecchi partigiani di “Pedro” a differenza di “Lino” che, invece, faceva parte di un distaccamento diverso.
137 Cantoni avrebbe confidato a “Bill”: «Beh, qualcosa di vero c’è» e ancora: «Di più non posso dirti, Bill; tu capisci, vero?». “Sandrino”, sentito come teste al processo di Padova, prima dichiarò di non avere assistito alla fucilazione dei due ma solo che «quando Mussolini e la Petacci uscirono dalla casa De Maria li accompagnava Moretti e un altro». Successivamente “Sandrino”, richiamato a deporre, affermò di essere rimasto di guardia ai cadaveri ma non anche di aver assistito alla loro fucilazione, poiché quando Mussolini fu prelevato da casa de Maria, egli era andato a fare un «pisolino». Per completezza, va ricordato che “Sandrino” nel 1956 riferì a Giorgio Pisanò: «non è andata come la raccontano. Ma io non posso dirti niente di più. Sono legato al segreto». Prima di morire costui avrebbe affidato il detto segreto a Giuseppe Giulini, sindaco di Gera Lario, il quale però morì nel 1992, prima che lo stesso deputato e giornalista potesse parlargli. Pisanò ha scritto di aver saputo aliunde che Giulini aveva detto che il memoriale di “Sandrino” sarebbe stato reso pubblico solo dopo cinquant’anni ma, in deroga a questo vincolo, aveva deciso che, se
fosse morto prima, il documento avrebbe dovuto essere pubblicato. Giulini aveva anche riferito che né Moretti né Lampredi avevano ucciso Mussolini. Pisanò intervistò anche Savina Cantoni, moglie di “Sandrino”, la quale, superando la paura di “quelli là”, accettò di parlare l’8 febbraio 1996 e, riportando quanto detto lei dal marito, affermò che Mussolini e la Petacci non erano stati uccisi nel pomeriggio del 28 aprile. La mattina di quel giorno, infatti, “Sandrino” avrebbe notato Moretti e altri due partigiani, da lui mai visti prima, salire le scale di casa De Maria. I tre gli avrebbero ordinato di restare sulla porta ma quello avrebbe udito: «vi portiamo a Dongo per fucilarvi» e ancora «anzi, vi uccidiamo qui». La stessa poi parlò di alcuni colpi di arma da fuoco e dichiarò che un’altra persona, di cui non svelò l’identità, aveva ricevuto le confidenze del marito. G. Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini cit., pp. 104 e ss.
138 A tal proposito, si rammenti che il commissario “Piero”, alias Orfeo Landini, riferì al giornalista Bernini: «di guardia a tutela da curiosi ponemmo all’imbocco dello stesso viottolo i due partigiani dell’Oltrepò che avevano scortato Mordini» e, dunque, pare che tali due partigiani sostituirono “Lino” e “Sandrino”.
139 Di recente, il pediatra Alberto Bertotto, autore dell’originale tesi del suicidio del Duce mediante ingestione di una capsula di cianuro inseritagli in un dente da un medico tedesco, ha, poi, affermato che il detto gesto sarebbe stato solo tentato giacché Mussolini in agonia sarebbe stato finito dal partigiano “Lino”. A tal proposito, l’autore giudica determinante il "curriculum", a dir poco sanguinario del personaggio, tanto da essere definito il “Diavolo Rosso” dai suoi conterranei; nonché le grandiose onoranze funebri riservategli dal Pci, circostanza sulla quale, come sopra detto, già il De Felice si era soffermato. Inoltre, richiama la testimonianza (de relato) di Carradori, attendente del Duce, il quale riporta la dichiarazione resagli dal farneticante partigiano nelle circostanze del suo arresto a Dongo: "Con questo mitra ho ucciso il boia e la sua amante cinque colpi a lui e tre a lei.". Carradori ne venne colpito a tal punto da osservare che 'l’esecutore materiale del duplice delitto doveva essere sicuramente lui il diavolo rosso', anche se non è escluso che si fosse lasciato condizionare dalle voci che correvano sul “Lino”. Infine, sono giudicate affidabili le osservazioni proposte da vari pubblicisti quali il Borzicchi e l'Uboldi e altre testimonianze quale quella del sindaco comunista di Dongo eletto dopo la liberazione, che al 28 aprile era ancora il Giuseppe Rubini, i quali, però, non fanno altro che ribadire l’argomento dell’importanza delle onoranze funebri dispensategli. Dulcis in fundo, a suffragio della tesi, l’autore allegava tre documenti inviatigli da un tale Giuseppe Turconi, un
ultraottantenne compaesano del partigiano “Lino”, i quali tuttavia riportavano dichiarazioni rese da altri: - il primo proveniente da tale Arrigoni Martino, partigiano della Formazione Gramsci della 52ª Brigata Garibaldi, datato 1 febbraio 1946, indicava nel "Lino" uno dei partigiani della Formazione Gramsci della 52ª Brigata Garibaldi che avrebbe partecipato alla cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti; il secondo era il certificato di morte dello stesso Giuseppe Frangi nome di battaglia "Lino", con dichiarazione di tale Tenente Arno Bosisio , che confermava l’incidente con esito mortale occorsogli e, nel contempo, ne celebrava il ruolo nella partecipazione alla "cattura del duce" e alla "esecuzione dei 16 ministri"; il terzo era il racconto fatto dallo stesso Turconi circa una dichiarazione resa pubblicamente da Oreste Gementi (“Riccardo”), durante le esequie del “Lino”, nella quale questi aveva celebrato il valore del partigiano caduto e, nell'occasione, aveva accusato lo stesso Movimento partigiano dell’uccisione. ('mani fratricide'). Last but non least, si riportava la dichiarazione del partigiano Urbano Lazzaro, che l'autore ha definito in altra occasione un "fanfarone poco credibile", ancora una volta de relato perché riporta l’affermazione che "Lino", ai primi di maggio '45 e all’indomani della pubblicazione su “L’Unità “ della prima versione ufficiale di “Valerio”, gli avrebbe confidato: "Ti dirò io quello che è successo veramente a Bonzanigo. Adesso non posso", chiamando a propria conferma il “Neri” e la “Gianna” che, come noto, sarebbero poi morti in circostanze misteriose nei giorni immediatamente successivi alla morte del primo, anch’essa avvolta dal mistero. A. Bertotto, E’ stato il pluriomicida Giuseppe Frangi (Lino) a uccidere Mussolini?, reperibile per via telematica su www.Ladestra.it
140 U. Lazzaro, Dongo Mezzo secolo di menzogne, Oscar Mondadori, Milano 1997, p. 161.
141 U. Lazzaro, Ivi, p. 169.
142 F. Borzicchi afferma: «c’è quasi da pensare che a stringere quel mitra furono altri che Valerio e Moretti, forse addirittura uno dei guardiani del duce, Giuseppe Frangi». F. Borzicchi, Dongo. L’ultima autoblinda, Ciarrapico, Milano 1984.
143 Eraldo Vannozzi ha affermato che il vero nome di “Lino” non era Giuseppe Frangi, ma Siro Rosi. Questi, grossetano, già noto in Spagna, dove aveva combattuto nel 1937 con il nome di battaglia “il cugino di Barontini”, dal 1944 partecipò alla lotta partigiana nell’Italia del nord e fu nominato ispettore regionale del Comando Generale delle Brigate Garibaldi; prese parte alla cattura di Mussolini e arrestò alcuni gerarchi; morì il 14 marzo 1987. Archivio Privato Famiglia Rosi reperibile su www.isgrec.it.
144 De Felice aveva annotato in calce a tale copia proprio il riferimento a “Lino”. ACS, Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B. 10, F. 47. Inoltre, nelle sue Lettere a Tomat, Giorgio Amendola si diffondeva a parlare di Domenico Tomat, alias “Valerio” e Siro Rosi, nome in codice “Lino” , che durante la seconda guerra mondiale operarono nelle Brigate Garibaldi nella zona di Chiavenna, il primo come colonnello con la qualifica di ispettore e l’altro quale colonnello ispettore. G. Amendola, Lettere a Milano, di cui uno stralcio è reperibile in ACS, Archivi di famiglie e di persone, Fondo De Felice Renzo, B.10, F. 50.
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012

“Quattro giorni dopo le truppe tedesche capitolarono e Mussolini fu catturato vicino a Dongo mentre tentava di fuggire in Svizzera e fucilato il 28 aprile a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, per ordine del Cln”.
(Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Il Novecento, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2000, p.260).
“Mussolini, in fuga verso la Svizzera, fu arrestato da una colonna partigiana nei pressi di Dongo sul lago di Como e fucilato insieme ad altri gerarchi della Repubblica sociale”.
(Luigi Mascilli Migliorini, Le domande della storia. Corso diretto da Giuseppe Galasso, Profilo storico, vol. 3, Il Novecento, 3ª edizione, Bompiani, Milano 2001, p.212)
[...] “Il 25 aprile i partigiani erano insorti, riuscendo a liberare le grandi città del Nord prima che vi giungessero gli Alleati. Mussolini cercò di intavolare trattative con il CLNAI attraverso il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, che durante il ventennio aveva mostrato aperte simpatie per il fascismo ma, dopo 1'8 settembre, era entrato in contatto con il CLNAI. Le trattative non ebbero successo e Mussolini fuggì verso il confine svizzero, dove fu catturato dai partigiani e fucilato il 28 aprile”.
(Aurelio Lepre, La storia. Dalla fine dell'Ottocento a oggi. Volume terzo. Dalla fine dell'Ottocento a oggi , 2a edizione [1ª edizione: 1999], Zanichelli, Bologna 2004, p.321).
“Il Clnai proclamò per il 25 aprile l'insurrezione generale e i partigiani liberarono molte città e paesi prima dell'arrivo degli alleati. La guerra in Europa ebbe così fine: Mussolini, catturato dai partigiani, venne giustiziato il 28 aprile”.
(Luca Baldissara, Stefano Battilossi, La costruzione del presente. Vol. 3. Il Novecento, 1ª edizione, RCS Libri, Sansoni per la scuola, Milano 2005, p.217).
“Mussolini, Catturato dai partigiani a Dongo, sul lago di Como, mentre probabilmente tentava di fuggire in Svizzera, venne fucilato il 28 aprile insieme ad altri gerarchi”.
(Marco Fossati, Giorgio Luppi, Emilio Zanette, Passato presente. Vol. 3. Il Novecento e il mondo contemporaneo, Paravia Bruno Mondadori editori, Torino 2006, p.252).
“Mentre cercava di fuggire in Germania, Mussolini venne arrestato dai partigiani e fucilato”.
(Mario Trombino, Maurizio Villani, Storiamondo. Corso di storia per il triennio, 1ª edizione, Edizioni il capitello, Torino 2008, p.238)
“Il 28 aprile Mussolini fu catturato dai partigiani e fucilato. Il 4 maggio le forze tedesche presenti in Italia firmarono l'atto di resa”.
(Giovanni De Luna, Marco Meriggi, Giuseppe Albertoni, La storia al presente 3. Il mondo contemporaneo, Paravia, Torino 2008, p.371)
Alcuni manuali riportano un accenno a piazzale Loreto:
“Mussolini, dopo aver vagheggiato un'ultima resistenza in Valtellina, tenta di fuggire da soldato tedesco, verso la Svizzera, con una colonna germanica. Riconosciuto dai partigiani, è giustiziato il 28 aprile; trasportato ormai cadavere a Milano, è esposto per alcune ore, appeso per i piedi, a piazzale Loreto”.
(Carlo Cartiglia, Nella storia. Il Novecento. Loescher, Torino 1997, p.191).
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011