giovedì 30 ottobre 2025

Prigionieri di guerra alleati in Italia durante la primavera-estate del 1943


Tuttavia, la fascinazione provocata dai prigionieri [alleati] scaturiva anche da altro, da qualcosa di molto più concreto: «ai prigionieri di Mariano Comense, a cura della Croce Rossa Internazionale, v[eniva] distribuito inappuntabilmente, ogni settimana, un pacco del peso di kg. 5 circa contenente condimenti, cibarie e generi di conforto di ogni qualità non escluso un pacchetto di the e moltissimi di sigarette, circostanza questa che genera[va] discussioni fra i residenti di Mariano Comense i quali afferma[va]no di non avere essi tanta abbondanza».
Anche Absalom attesta reazioni simili per i distaccamenti dell’area di Monigo dove, «vedendo che [gli Alleati ]consumavano tre razioni al giorno (il pasto al campo, quello al lavoro e i pacchi della Croce Rossa), i contadini e i pastori delle montagne li consideravano “prigionieri in vacanza” che “entravano, uscivano e se ne andavano a spasso come gli pareva”». <575
Invidia e, ovviamente, contatti inevitabili. Per questa fraternizzazione non c’erano soluzioni possibili, sia per la naturalità dei rapporti tra esseri umani, sia per le condizioni di quell’Italia sconfitta e affamata che faceva i conti nei pacchi dei suoi nemici prigionieri. Ai cittadini di Mariano Comense, sosteneva il prefetto, bisognava ricordare che «i prigionieri ciprioti colà accantonati [era]no nemici e non ospiti», e la stessa cosa andava fatta, probabilmente, con in contadini e i pastori di Monigo.
Tuttavia, era difficile, al contempo, negare che quei nemici stessero vincendo la guerra.
Rapporti di eccessiva familiarità tra prigionieri e civili, anche donne, erano attestati per diverse parti d’Italia, anche se a volte si colorivano degli elementi, addirittura “favolistici” prodotti dalla propaganda e introiettati nell’immaginario, a volte in modo così duraturo da essere ancora parte del discorso odierno sull’esperienza di guerra. Ad esempio, nel giugno 1943, gli informatori relazionavano sulle voci che giravano e che dicevano che "nella provincia di Pavia, come anche nel Novarese, presta[va]no servizio agricolo presso le varie fattorie, numerosi prigionieri di guerra anglo-americani, in prevalenza australiani [sic]. Sarebbero [stati] trattati benissimo, con alimentazione migliore di quella dei nostri cittadini! Nelle varie fattorie, poi, essi ricev[eva]no cure e facilitazioni pietistiche dai nostri agricoltori, in stridente contrasto al trattamento, spesso inumano, che v[eniva] invece riservato ai nostri prigionieri di guerra […]. I nostri agricoltori [avrebbero] larghegg[iato] nel regalare loro pane bianco e cibarie. Come anche aderi[va]no a barattare con i «prigionieri» <576 inglesi oggetti e cibarie che a loro arriva[va]no regolarmente in pacchi di cinque chili, cioè: saponette, cacao, cioccolatto [sic], sigarette, lamette da rasoio ecc. Gli accantonamenti di questi prigionieri [era]no in apposite fattorie vicine, requisite, cintate da filo spinato, ma situate in posizione molto salubre. [Era] avvenuto […] che in relazione ai lavori stagionali di mietitura, in qualche fattoria dove esiste[va] l’accantonamento di detti «prigionieri» [era]no state alloggiate (in apposito angolo dello stesso stabile) numerose mondine provenienti dalle varie provincie [sic] vicine. [Era]no tutte ragazze giovanissime sui venti anni e gli australiani [era]no dei bei pezzi di giovanotti che da parecchi mesi non vedevano più donne! Così di notte questi [uscivano] dai propri cameroni per incrociarsi in quelli dove alloggia[va]no le ragazze… e gli effetti di ciò si [sarebbero] v[isti] alle varie scadenze dei prescritti «nove mesi»!" <577
Ancora, nell’agosto successivo la prefettura di Udine riferiva delle indagini svolte dai carabinieri a Torviscosa, dove si diceva che i civili fornissero ai prigionieri addetti ai lavori uova, vino e altri generi di conforto, avendo instaurato con loro rapporti più che informali: si era accertata, in particolare, la relazione amorosa tra un sergente boero e una ragazza del posto, con il beneplacito della famiglia di lei. Soprattutto in merito a questa relazione, i carabinieri avevano escluso «ogni forma di intelligenza a scopo spionistico», addebitando il tutto a «una corrente di simpatia da parte della Sabidussi - la ragazza - verso il sergente prigioniero Visser». <578 Fatto sta che il fascio triestino segnalava con preoccupazione l’«eccessiva libertà» concessa ai prigionieri nei rapporti con i civili, il fiorente mercato nero tra le due parti e, soprattutto, il fatto che «tali relazioni, sia pure di semplice carattere economico, suscita[va]no molti commenti e fa[cevan]o chiaramente capire come la propaganda nemica us[asse] tutti i mezzi per abbattere il morale delle nostre popolazioni in modo da far risaltare la ricchezza e la generosità dei nemici contro la nostra povertà». <579
In realtà la documentazione relativa ai sempre più frequenti casi di fraternizzazione, nella primavera-estate del 1943, è anche il segnale molto chiaro del crollo della compattezza del fronte interno (sempre che questa non fosse un mito del regime fin dall’inizio del conflitto). L’avvicinamento al nemico, la palese violazione delle norme relative alla borsa nera, le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei soldati alleati prigionieri, erano tutti sintomi di un rapido precipitare della situazione, causato innanzitutto dalla fallimentare gestione della guerra, che si dimostrava persa, materialmente prima che politicamente. A questi fenomeni non erano estranei gli stessi appartenenti alle forze armate nazionali - a partire dalle guardie dei campi - che non di rado, in quei mesi, presero a dare palesi dimostrazioni di vicinanza (quando non addirittura di complicità) con i soldati nemici, come evidenziavano sdegnati i funzionari del regime. Nel luglio 1943, ad esempio, alcuni marinai che avevano scambiato con i prigionieri in transito nella stazione di Varano di Ancona del pane per delle sigarette, furono portati a Bari e messi a disposizione di quel comando, probabilmente a fini punitivi. <580 Qualche giorno prima, episodi simili si erano avuti alle stazioni di S. Benedetto del Tronto, Cupra Marittima e Ascoli Piceno. A S. Benedetto del Tronto, durante una sosta del treno che trasportava circa 1.000 soldati nemici in 27 vagoni, i prigionieri avevano lanciato all’esterno alcune scatolette di cibo, presumibilmente non come offerta ma come provocazione nei confronti della popolazione e del personale ferroviario presente. Contestualmente, presso il ristoro militare della stazione erano state acquistate, pare dai militari italiani della scorta, «27 bottiglie di birra et 15 spumante e 4 scatole antipasto», pagate solo in parte ma rivendute ai prigionieri a prezzi molto più elevati del normale. Un manovale ferroviario era stato irriso perché indossava zoccoli di legno - «ecco come vi ha ridotti quel vigliacco di Mussolini, fucilatelo», gli avrebbero detto i prigionieri - e il lancio delle scatolette dal treno in partenza sarebbe stato accompagnato da frasi quali «mangiate morti di fame porci italiani, vigliacchi avete perso tutta l’Africa fra due mesi ve ne accorgerete». Nel frattempo, la scorta assisteva passivamente, quando non dimostrava «eccessiva dimestichezza» con i prigionieri. <581 Ad Ascoli si era ripetuto il lancio delle scatolette: il capostazione le aveva recuperate, rilanciandole nel treno, venendo quindi insultato dai prigionieri con improperi simili a quelli profferiti a S. Benedetto. Un soldato avrebbe anche masticato un biglietto da 5 lire, poi sputato sul viso di una donna. I militari di scorta, tra i quali un capitano e un tenente, avevano ignorato le sollecitazioni a intervenire, limitandosi ad assistere e trattando «i prigionieri con eccessiva confidenza e familiarità, scambiandosi perfino bevande ed altri generi». <582
Episodi come questi fanno intravedere fenomeni di alterità, se non di vera e propria frattura, tra organismi dello Stato: da un lato vi era l’apparato repressivo composto da prefetti, polizia e informatori dell’OVRA, dall’altro le forze armate e soprattutto la loro base gerarchica, composta nella stragrande maggioranza di richiamati e militarizzati, prime pedine inviate in guerra e da essa travolte, e dunque tra i primi ad allontanarsi dal fascismo e da quella che, erroneamente ma talvolta in maniera inconsapevole, veniva considerata la “sua” guerra. Il primo fronte di questa frattura intestina era quindi rappresentato da figure come quelle dei prefetti, che relazionavano al capo della polizia circa gli episodi avvenuti nelle Marche, raccomandando punizioni esemplari per i soldati delle scorte che, «mentre la Patria in armi compi[va] supremi sforzi di volontà e di sacrificio», si erano dimostrati «di una incoscienza senza pari», al punto da non sentire «neppure il dovere di difendere la dignità della divisa che indossa[va]no». <583 O dallo stesso capo della polizia che, dal suo canto, scriveva al gen. Sorice, sottosegretario al ministero della Guerra, raccontandogli gli episodi marchigiani e commentando che «se [era] vero e non si fucila[va] questa gente, sar[ebbe stato] bene andarcene a spasso». <584 Il secondo fronte era quello, appunto, dei militari di scorta e delle sentinelle dei campi, sempre più lontane dallo Stato e sempre più vicine, con il passare dei mesi, ai prigionieri che sorvegliavano. Indosso ad alcuni di questi ultimi furono rinvenuti, nell’aprile 1943, gli indirizzi di militari italiani di ogni grado, e tale rinvenimento fu interpretato, probabilmente a ragione, come un segnale della «riprovevole e dannosa familiarità o dimestichezza tra il personale dei campi di concentramento ed i pg.». <585
Una frattura insanabile, dunque, tra due parti dello Stato. Al centro, l’abisso in cui era precipitato il paese, mentre il peggio doveva ancora venire. La strange alliance <586 tra prigionieri di guerra e civili italiani che sarebbe scattata, da lì a qualche settimana, con l’armistizio - una forma di solidarietà nata quasi naturalmente tra persone che si riconobbero come simili e tesero spontaneamente all’aiuto reciproco - ebbe senza dubbio parte della sua origine ai bordi dei campi di prigionia e nei distaccamenti di lavoro. Lo dimostra, tra i tanti esempi, ciò che accadde dopo l’8 settembre al campo di Mortara, che stava per cadere nelle mani dei tedeschi. L’ufficiale italiano che lo comandava aveva però già preparato i propri prigionieri, che furono pronti a raggiungere le fattorie dove avevano lavorato fino a pochi giorni prima, e a trovarvi riparo e aiuto. <587 Come attesta Absalom, la fuga armistiziale di molti degli alleati impiegati nei distaccamenti di lavoro settentrionali fu organizzata e spesso personalmente guidata proprio da comandanti e sentinelle italiani. <588 Quella forma di resistenza, civile e non solo, non nasceva dal nulla.
[NOTE]
575 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 352. Lo studioso aggiunge: «Questo quadro quasi idilliaco è confermato da un’altra testimonianza ufficiosa: […] il memoriale del campo PG 103/6, scritto da Arthur Douglas, raffigura, per lo più attraverso schizzi e vignette, una vita abbastanza spensierata, trascorsa tentando di sottrarsi al lavoro e prendendo in giro le guardie italiane» (ivi, pp. 352-353).
576 Tra virgolette nel testo, qui e di seguito.
577 ACS, MI, DGPS, A5G, II GM, b. 118, f. 59, Nota anonima stilata a Roma il 25 giugno 1943. Il prefetto di Novara smentì tutte le dicerie: Ivi, il prefetto di Novara Ballero, «Prigionieri di guerra in provincia. Trattamento alimentare e rapporti con mondine del luogo», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 30 luglio 1943.
578  Ivi, il prefetto di Udine U. Mazzolani, «Rapporti fra prigionieri di guerra inglesi e popolazione», relazione al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 18 agosto 1943. Tra le prove del rapporto tra la ragazza e il prigioniero vi erano un biglietto amoroso, una fotografia e, soprattutto, un disco con l’incisione del suono di fisarmonica e di una nenia in boero prodotte da Visser e incise da Sabidussi.
579 Ivi, PNF-Direttorio Nazionale, Scorza, «Segnalazione. Rapporti tra prigionieri inglesi e popolazione», nota al capo della polizia Chierici, 8 maggio 1943.
580 Ivi, il prefetto di Ancona F. Scassellati Sforzolini, «Incidenti verificatisi fra militari italiani e prigionieri di guerra inglesi e americani», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 12 luglio 1943.
581 Ivi, Commissariato di PS di Ancona, vicequestore A. Ayroldi, «Incidente tra il personale ferroviario e prigionieri di guerra di transito S. Benedetto del Tronto», nota al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 30 giugno 1943. Ayroldi indagò su questo e sugli altri «fatti incresciosissimi», e sostenne che essi fossero «in parte provocati dagli elementi preposti alla vigilanza ed alla scorta dei prigionieri, ed in parte determinati dal totale assenteismo ed incomprensione della scorta stessa». Tali eventi avevano provocato nei presenti, a suo dire, «una vera demoralizzazione e commenti e critiche nelle forme più varie e più spinte»: Ivi, Id., «Trasporto prigionieri di guerra», relazione al MI-DGPS e Div. Polizia frontiera e trasporti, 1° luglio 1943. Una versione diversa di tale relazione è conservata nello stesso fascicolo e riporta il timbro «visto dal Duce».
582 Ivi, il prefetto di Ascoli Piceno G. Broise, «S. Benedetto del Tronto. Transito prigionieri di guerra», nota al MI-DGPS e Div. AA.GG. e RR., 3 luglio 1943. A Cupra Marittima un soldato e un prigioniero erano stati visti passeggiare insieme, e il primo aveva appoggiato «confidenzialmente una mano sulla spalla» del secondo (ibidem).
583 Ivi, minuta a mano, su carta intestata del prefetto di Ancona Scassellati Sforzolini, a Chierici. Non è dato sapere se la lettera fu poi trasmessa. Il prefetto suggeriva di utilizzare, per le scorte, «più idonei robusti nuclei di autentici squadristi».
584 Ivi, Lettera di Chierici al gen. Sorice, 1° luglio 1943. Qualche giorno dopo, l’ufficio prigionieri dello SMRE emanò una circolare che ricordava le «Norme» per il trasferimento dei prigionieri, per ovviare a «le seguenti principali manchevolezze: superficialità delle perquisizioni alle quali ven[iva]no sottoposti i pg. prima del trasferimento; rilassatezza e trascuratezza del personale di scorta […]; scarsa efficienza del materiale rotabile impiegato e mancata adozione nelle stazioni di adeguate misure di ordine»: AUSSME, M7, b. 3131, f. 1, SMRE-UPG, Manca, «Norme per trasferimento di pg., perquisizioni, personale di scorta, materiale ferroviario», nota allo SMRE-Direzione superiore trasporti e ad altri, 12 agosto 1943.
585 AUSSME, N1-11, b. 1243, DS dello SMRE-UPG-Segr., mesi di marzo-aprile 1943, all. 143, Manca, «Nominativi e recapiti di militari addetti in campi di concentramento in possesso di pg.», 19 aprile 1943. L’ufficio prigionieri dello SMRE ordinò ai comandi dipendenti di comunicare agli addetti ai campi che in nessun caso tali recapiti dovevano essere resi disponibili ai prigionieri, che potevano usarli «come attendibile riferimento a pretesi maltrattamenti subiti dai prigionieri», oppure «per munire agenti al soldo nemico, che dovessero agire nel Regno, di falsi documenti che, per loro riferimento a connazionali realmente esistenti, sarebbero [stati] con maggiore difficoltà identificabili», o ancora essere «indicati quali mittenti nella spedizione di opuscoli sovversivi o di propaganda antinazionale clandestinamente introdotti nel Regno».
586 L’espressione fu utilizzata da Noel Charles in un discorso ai coadiuvanti tenuto a Roma nel maggio 1946, così come riferito da Absalom, che l’ha utilizzata per il titolo del suo libro A Strange Alliance, tradotto in italiano vent’anni dopo con il titolo L’alleanza inattesa: si veda, in questa edizione, a p. 11.
587 TNA, TS 26/95, Brig. Venable, Director of PW Sub Commission, «Conduct. General Massena», rapporto al DPW, 15 novembre 1943.
588 Absalom, L’alleanza inattesa, p. 177 e passim.
Isabella Insolvibile, I prigionieri alleati in Italia. 1940-1943, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno accademico 2019-2020

giovedì 23 ottobre 2025

Antonio Segni, un moderato anti-centrosinistra


Antonio Segni al momento dell’elezione a Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1962, rappresentò il candidato di punta della DC di Aldo Moro. Moro, intenzionato ad aprire una stagione di centrosinistra organico <43, credeva che la presenza al Quirinale di Segni, un moderato, potesse essere rassicurante di fronte all’entrata dei socialisti nella compagine governativa.
Segni era un insigne giurista, tra i fondatori della Democrazia cristiana e due volte Presidente del Consiglio dei ministri <44.
Durante il suo discorso di insediamento, in contrasto con il predecessore, Segni delineò la sua immagine di Presidente come “unità civile e morale della nazione italiana una e indivisibile” “e al quale non spetta” determinare gli indirizzi politici dello Stato <45.
Il settennato di Segni fu caratterizzato da alcune novità. Per primo, egli, durante il proprio mandato, inviò alle Camere il primo messaggio presidenziale della storia della Repubblica; un’ulteriore novità fu la formazione, nel 1963, del primo esecutivo di centrosinistra organico guidato da Aldo Moro, esponente della Dc, con una partecipazione attiva del partito socialista guidato da Pietro Nenni. 
Il programma di questo governo era fortemente riformista e per questo non era ben visto dagli ambienti conservatori del Paese <46.
Il primo governo Moro durò solamente sei mesi, e, in concomitanza dell’epilogo del primo esecutivo “riformista”, serpeggiò la possibilità di una svolta reazionaria. 
Questo era il disegno del Piano Solo.
Il Piano Solo venne predisposto dal generale Giovanni de Lorenzo, all’epoca comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, con il benestare del Presidente Segni. Il coinvolgimento del Presidente è affermato in maniera inequivocabile da Aldo Moro, che dice però, nel memoriale stilato durante la prigionia brigatista, che il piano militare fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato. <47
Questo momento di forte crisi istituzionale si concluse con l’istaurazione di un secondo governo Moro, caratterizzato da un programma di ridotte pretese riformiste.
L’epilogo del mandato di Segni accadde in maniera drammatica poiché nel 1964 venne colpito da un collasso, dal quale il Presidente non si riprese <48.
Nel periodo successivo, tra l’agosto e il dicembre 1964, le funzioni di Presidente vennero esercitate, come prevede l’articolo 84 della Costituzione, dal Presidente del Senato Cesare Merzagora <49, inaugurando la prima e più lunga supplenza alla Presidenza della Repubblica della storia repubblicana.
[NOTE]
43 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, il Mulino 2021
44 IL PORTALE STORICO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
45 Il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Antonio Segni, https://presidenti.quirinale.it/page/4/seg_a_insediamento.html
46 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, il Mulino 2021
47 M. DONDI, L'eco del boato, Storia della strategia della tensione 1965-1974, Edizioni Laterza, 2023
48 PORTALE STORICO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
49 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella
Federica Mattei, Il Presidente della Repubblica nell'ordinamento italiano: evoluzione e prospettive, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2022-2023

lunedì 13 ottobre 2025

Partigiani nel Friuli orientale tra dicembre 1943 ed agosto 1944


La zona libera del Friuli orientale fu chiamata Zona libera Est o Orientale, ma anche di Nimis, Attimis, Faedis, dal nome dei tre principali Comuni che ne formarono il territorio. Non è scopo di questo lavoro raccontare tutti i fatti che portarono alla liberazione del territorio, ma si deve ricordare che fu tra il giugno ed il luglio del 1944 che la Brigata «Garibaldi Natisone», trasformatasi in divisione, cacciò il nemico congiungendosi con la 1ª brigata Osoppo. Le vicende della zona orientale sono legate a questi due reparti. La Brigata «Garibaldi-Natisone», nata dal battaglione «Mazzini» nell’ottobre 1943 sul Collio goriziano, all’inizio dell’estate del 1944 si trasferì dalla zona del Collio, già ben presidiato dalle forze slovene del IX Korpus, verso ovest, nella zona pedemontana <87. Il comando si insediò nelle vicinanze di Faedis. Ben presto dai 500 uomini iniziali, la Brigata continuò a crescere e a ricevere nuove reclute sino ad arrivare a 11 battaglioni e circa 2.000 uomini. In conseguenza il Comando decise di dare vita alla Divisione «Garibaldi Natisone», con comandante Mario Fantini «Sasso», commissario politico Giovanni Padoan «Vanni», e capo di stato maggiore Ferdinando Mautino «Carlino» <88. Nella vallata di Attimis operavano nella primavera del 1944 anche tre battaglioni Osovani, «Julio», «Udine» e «Val Torre» ai quali ben presto affluirono nuovi uomini dando vita ad altri due battaglioni: «Prealpi» e «Attimis». Il 21 agosto 1944 i cinque battaglioni, con circa un migliaio di uomini, costituirono la 1ª Brigata «Osoppo Friuli» <89, sotto il comando di Mario Cencig «Mario» e del delegato politico Alfredo Berzanti «Paolo».
Le due grandi formazioni partigiane iniziarono una serie di contatti per cercare una collaborazione operativa e organizzativa nel territorio, ed essere più efficaci nella lotta contro le forze di occupazione. I risultati furono molto importanti: il 22 luglio venne sottoscritto fra le due formazioni un primo accordo che prevedeva lo scambio di informazioni e il 26 luglio venne costituito una sorta di comando unico. Questo comando, denominato «Comando di Coordinamento Operativo», costituito dai comandanti e commissari dei due reparti, avrebbe coordinato tutte le operazioni sul territorio pedemontano. I due reparti decisero di costituire una divisione unica, la «Garibaldi-Osoppo», forte di circa 3.000 uomini con comandante Mario Fantini «Sasso» e suo vice Francesco De Gregori «Bolla». La sede del Comando fu posta a Forame, frazione del Comune di Attimis. Forti di questa nuova collaborazione, e di reparti ben addestrati e numerosi, i partigiani passarono all’offensiva in tutta la zona, tenendo sotto continua pressione le esigue forze tedesche. Come si è visto in precedenza, i partigiani minacciavano ora da est la ferrovia Pontebbana (la Udine-Tarvisio, arteria principale che collega l’OZAK [Operationszone Adriatisches Küstenland: Zona di Operazione "Litorale Adriatico"] con la Germania) e contemporaneamente la linea che collega Udine con Gorizia e Trieste. Sino alla primavera-estate del 1944 le forze tedesche erano riuscite a controllare il territorio con alcuni capisaldi e continue azioni di rastrellamento. Fu una serie di aspri scontri intervallati da contrattacchi e incursioni nazifasciste col loro seguito di stragi e distruzioni. La zona non è nuova a fatti di violenza o a eccidi di civili; tra il 12 e il 17 dicembre si svolse una vasta operazione antipartigiana <90 che interessò tutta la vallata del Torre. A questa operazione partecipano anche reparti della SS-Karstwehr-Btl: si tratta di una compagnia rinforzata agli ordini dell’SS-Obersturmführer Erich Kühnbander. Tra le carte riguardanti l’unità delle SS è stato ritrovato un rapporto, dello stesso comandante, che descrive le operazioni del reparto <91. Il 12 dicembre la compagnia partendo da Nimis rastrellò il territorio tra Cergneu Superiore e Pecol giungendo sino a Nongruella. Il giorno successivo il reparto attaccò le postazioni partigiane sul monte Cantun; il 14 dicembre il reparto raggiunse Torlano di Nimis e il 15 dicembre rientrò a Gradisca al comando. In tutta l’operazione si registrarono 33 nemici uccisi. Tra questi nemici in realtà vi sono molti civili uccisi dal reparto delle SS: il 12 dicembre 1943 furono incendiate per rappresaglia le frazioni di Pecolle, Nongruella e Cergneu inferiore (si tratta di frazioni di Faedis), e furono fucilati o uccisi sia partigiani caduti nelle loro mani che civili <92: "Durante il rastrellamento a Cergneu, mentre gran parte della popolazione cercava scampo a Monteprato e sui monti circostanti, nel paese i tedeschi incendiarono alcune case e si apprestavano a dare alle fiamme anche le altre, se non fossero stati interrotti da un provvidenziale segnale di fumo bianco lasciato in cielo da un aereo, che pose fine all’orrendo rogo. Nella stessa circostanza furono prelevati dalle loro abitazioni sei uomini del luogo e senza alcun plausibile motivo fucilati a Nongruella. Altri due ragazzi del paese, di 19 anni, riuscirono a fuggire, ma furono catturati a Taipana e fucilati il giorno dopo. Vennero inoltre uccisi per mano dei tedeschi, sempre a Nongruella, quattro giovani" <93.
Alla fine del rastrellamento si contarono 12 civili uccisi dal reparto del SS-Kartswehr-Btl <94. L’operazione di rastrellamento, organizzata dal Sich. Gruppe von le Fort, continuò sino al 17 dicembre con un totale di 57 partigiani morti.
I tedeschi operarono altri rastrellamenti e operazioni antipartigiane durante tutto l’inverno del 1944, ma si trattò di azioni limitate. Con lo spostamento in zona dei nuovi reparti partigiani della Garibaldi le cose si complicarono sempre di più per gli esigui capisaldi tedeschi. I comandi tedeschi, avendo intuito le intenzioni dei partigiani miranti ad avere sotto il controllo tutta la zona, nell’agosto del 1944 avevano fatto affluire in tutta la zona ingenti forze cosacche che avrebbero avuto il compito di presidiare la zona pedemontana e rastrellare il territorio circostante dalle bande nemiche. Il tentativo di arginare l’avanzata delle forze partigiane portò a continui scontri con conseguenze terribili per le popolazioni civili della zona. Il più grave di questi fatti fu la rappresaglia compiuta il 25 agosto contro il paese di Torlano di Nimis, dove vennero uccisi 33 civili <95. Il caso di Torlano riemerse dopo il ritrovamento degli atti di inchiesta abbandonati negli archivi di Roma <96. Nel 1995 il fascicolo su Torlano fu ripreso dalla Procura Militare di Padova, precisamente dal sostituto procuratore militare di Padova Sergio Dini, che ne ha proseguito le indagini sino al 1998, data della chiusura della sua inchiesta <97.
[NOTE]
87 Aggregata alla Divisione la missione inglese del maggiore Vincent Hedley «Tucker», cfr.: Atlante storico della lotta cit., p. 98 e pp. 109-112.
88 Su tali vicende cfr.: G. Padoan, Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine, 1965; G. Gallo, La Resistenza cit.; M. Pacor, Confine orientale cit. 89 Sui reparti della Osoppo cfr.: S. Gervasutti, La stagione della Osoppo, Udine 1981; A. Buvoli, Le formazioni Osoppo Friuli, Udine 2003; A. Savorgnan di Brazzà, Fazzoletto verde, Venezia 1946.
90 Dalle ricerche di Stefano Di Giusto, l’operazione dovrebbe essersi chiamata «Blumendraht», coordinata dal Sich. Gruppe von le Fort, S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., pp. 377-378.
91 BA-MA, N 756/189, Gefechtsbericht Waffen SS-Einsatzkompanie Kühnbander, 18.12.1943; il documento viene citato anche da S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., pp. 377-378.
92 AORF, P2- 39, Nimis, dok. 11, Relazione su Nimis. La relazione non è datata.
93 G. Comelli, Il martirio di Nimis, Udine, 1974, p. 25.
94 Il numero non è ancora preciso, altre fonti parlano di 20 civili uccisi quei giorni, cfr.: V. Pravisano - A. Moretti, I caduti della resistenza nel territorio della zona libera orientale del Friuli, in «Storia Contemporanea in Friuli», nr. 5, IRSML, 1974, pp. 147-148; per molto tempo si è parlato di 32 civili uccisi, tale numero risulta dalla lapide che si trova nel piccolo cimitero di Cergneu, dal titolo «Sacrificati dalle barbarie della guerra», ma che riporta i nomi di vittime del 12 dicembre assieme a quelle del 29 settembre 1944, data del grande rastrellamento finale tedesco.
95 Erroneamente per molto tempo si dichiarò che il numero delle vittime fosse di 34, in quanto era stato incluso nell’elenco anche il nome di Pietro Vizzutti, 38 anni, ucciso dai tedeschi a Torlano il 16 dicembre 1943: cfr.: G. Comelli, Il martirio di Nimis, Udine, 1974, pp. 41.
96 Sul caso di Torlano cfr.: M. Franzinelli, Stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, 2002, pp. 178-182.
97 PM-PD, il fascicolo riguardante il «caso Torlano» è il Procedimento penale n. 233/99 e abbinati 215/96.
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

sabato 4 ottobre 2025

Brogi si apre in modo graduale alla collaborazione di giustizia

Villa Collemandina (LU). Fonte: Wikipedia

Una notte imprecisata del gennaio ’74, una trentina di persone si muovono al lume di candela in due stanze comunicanti di un vecchio mulino abbandonato a Villa Collemandina, piccolo comune della Garfagnana abbarbicato sulle colline dell’Appennino Tosco-Emiliano. Nonostante la temperatura invernale il focolare resta spento per evitare che il fumo del camino attiri attenzioni sgradite. I fitti boschi di castagno garantiscono la riservatezza necessaria all’incontro ma le precauzioni non bastano a dissipare i timori, considerato che le automobili dei presenti - giunte da diverse parti d’Italia - riempiono lo spiazzo davanti al casolare e sono parcheggiate fin lungo la carreggiata.
Il conciliabolo inizia prima della mezzanotte e va avanti per quattro ore. Sulle panche improvvisate con assi di legno, un documento scritto passa di mano in mano. Sono in pochi a parlare, i più ascoltano. Una persona con il basco verbalizza gli interventi. Agli esponenti di Ordine Nuovo si aggiungono quelli di Avanguardia Nazionale, convocati per coordinare le due organizzazioni a livello territoriale. L’attesa presenza del leader Clemente Graziani è andata delusa. È l’impresario teatrale Giuseppe Pugliese - responsabile operativo per la Toscana - a portare da Roma le direttive di Ordine Nuovo, con il dirigente nazionale Elio Massagrande che conferisce autorevolezza all’incontro <143.
L’ordine del giorno è quello di «numerare tutte le forze disponibili» e indicare un programma per la nuova strategia di attacco al sistema. La repressione a cui è sottoposto il movimento nazional-rivoluzionario impone di ricompattare gli schieramenti e dividere gli aderenti in livelli operativi distinti. Al primo - viene spiegato - si trovano «gli sputtanati», compromessi perché entrati nel mirino degli organi inquirenti oppure conosciuti pubblicamente, talvolta per la loro attività nel Msi. Questa base di militanti, inutilizzabile per operazioni delicate, può essere diretta verso azioni di piazza che, sull’esempio dei moti di Reggio Calabria, sfruttino i problemi sociali esistenti per creare destabilizzazione. A tale compito si prestano i gruppi di Avanguardia Nazionale diffusi nelle aree di crisi del Sud e abituati allo «scontro frontale». Un secondo livello costituisce «l’area serbatoio» di coloro che non sono ancora conosciuti. Agendo in clandestinità essi devono «continuare la loro vita normale» ma «prepararsi agli scoppi» per realizzare «lo scontro occulto» con lo Stato. In questo settore sono prevalenti le strutture coperte di Ordine Nuovo, diffuse nelle aree settentrionali e centrali del Paese. Un terzo livello deve infine costituire l’intellighenzia rivoluzionaria e dirigere gli altri, offrendo supporto davanti alle difficoltà riscontrate <144.
Per quanto riguarda gli attentati, in vista dei quali si raccomanda di preparare degli alibi, vengono fissati quattro tipologie di obiettivi: «ambienti di informazione del regime», «ambienti che spolpano i cittadini, come le esattorie», «obiettivi di collegamento come ponti, tralicci e trasporti», «ambienti militari». Alle rimostranze davanti all’ultimo obiettivo viene risposto che sì, le forze armate hanno avuto buoni rapporti con la destra ma iniziano ad essere
ostili. Niente più romanticismi: «quando una pianta si secca, il male va visto alle radici».
I rilevamenti degli obiettivi, viene spiegato, devono esser fatti dagli insospettabili, per farli entrare nella dinamica del «nuovo clima». Le rivendicazioni dei gruppi locali devono far riferimento ad «un ciclostilato unico», utilizzare una fraseologia che rispecchi allo stesso tempo lo stile di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale ed essere firmate con nomi che richiamino personaggi del pantheon ideologico neofascista. Altro aspetto importante è quello
dell’attivazione di staffette per i collegamenti. Tra Roma e Milano, si dice, sono già stati avviati contatti. Non viene stabilita una ripartizione degli obiettivi tra le diverse realtà locali ma lasciata «autonomia» all’interno delle direttive prestabilite. La dirigenza precisa che non vuole «imboccare i gruppi», l’invito è quello di «usare la fantasia» nel procurarsi le armi e l’esplosivo (svuotare cartucce, rubare esplosivo nelle cave, sottrarre materiale alle caserme).
L’ampio discorso programmatico suscita «titubanze e perplessità» riguardanti soprattutto l’«operatività immediata» del secondo livello. Pur se esistente e pronto ad attivarsi, alcuni non lo ritengono adeguatamente preparato. Riguardo alle risorse finanziarie necessarie a dotarsi dei mezzi, invece, la raccomandazione è quella di evitare azioni delinquenziali. La direzione si dice d’altronde capace di assicurare l’assistenza ai detenuti e recuperare fondi attraverso «collette» di industriali simpatizzanti. A chi chiede se è prevista la promozione di attività come librerie o radio private viene risposto che il momento non è opportuno. In chiusura l’incarico è quello di riportare le direttive nel proprio ambiente, in attesa di una nuova riunione da tenersi a Roma <145.
Questa ricostruzione - da cui scaturisce vivida l’immagine della clandestinità - è stata tratteggiata undici anni dopo gli eventi dalla testimonianza del neofascista fiorentino Andrea Brogi, che l’ha suffragata accompagnando gli agenti nel luogo descritto. Come riporta un documento della Digos di Bologna redatto nell’ambito dell’inchiesta Italicus-bis, la riunione in Garfagnana è caratterizzata dalla «presenza di personaggi di grosso calibro provenienti da tutte le parti d’Italia». Sono però assenti i milanesi (che la Digos bolognese ipotizza essere impegnati negli attentati di fine gennaio a Silvi Marina e Milano) <146 ed i veneti, che - secondo quanto Brogi apprende nell’occasione - appartengono «ad un’altra parrocchia, con un altro santone» <147. Le confessioni di Brogi - da accogliere con il beneficio del dubbio - sono state considerate «sostanziate» da «fatti inequivocabili» <148 secondo il giudice fiorentino Rosario Minna, che insieme al collega di Bologna Leonardo Grassi le ha raccolte alla metà degli anni Ottanta. La testimonianza si è rivelata preziosa per delineare le tappe che - nella prima metà del ’74 - portano diversi giovani a intraprendere una forsennata progressione terroristica.
Andrea Brogi si apre in modo graduale alla collaborazione di giustizia; «trovando la dignità umana», scrive il giudice Minna, «di accusare in primo luogo sé stesso» <149. Non senza reticenze e timori per la sua incolumità, il neofascista fiorentino procede a rievocare «persone, avvenimenti e mesi» rimossi faticosamente dalla mente. Messo al bando ed aggredito per il suo dietrofront dall’ambiente nazional-rivoluzionario, Brogi viene inserito nella famigerata “lista degli infami” dal personaggio più temuto dell’eversione nera toscana: il geometra Mario Tuti <150, che nonostante l’ergastolo riesce a depennare alcuni nominativi di delatori, morti ammazzati <151.
La «grossa traccia di paura» è una cicatrice riscontrata dal giudice Minna nel «visibile tormento» dell’imputato <152 . Gli anni trascorsi lontano dall’ambiente politico, il carcere e il recupero degli affetti umani fanno però capire a Brogi - come si legge in una lettera manoscritta da lui indirizzata al magistrato - quanto di «insulso e illogico» ci fosse nelle sue scelte precedenti. È «l’aria pulita e limpida» del nuovo presente, spiega, che lo spinge verso la dissociazione e gli fa raccogliere la «mano tesa» più volte indirizzatagli <153.
Giovane attivista del Msi a Firenze, agli inizi degli anni Settanta Brogi svolge il militare nei paracadutisti a Pisa all’interno del plotone trasmissione. Addetto alla sala radio e alle telescriventi racconta di esser stato contattato, «come altri commilitoni della stessa fede politica», da un ufficiale dell’Ufficio “I” (Informazione) per lavorare nel controllo delle armerie e delle furerie, con il compito di scovare eventuali estremisti di sinistra <154. Finito il
servizio di leva nel settembre ’73, inizia a lavorare in una libreria, per la quale vende enciclopedie senza grande entusiasmo. Fin dai tempi della scuola il suo interesse è infatti assorbito dalla politica. Non dalle discussioni teoriche e dai dibattiti estenuanti ma dalla lotta aspra che si svolge in strada contro i “rossi”, che - supportati dalla sproporzione numerica - a Firenze non lasciano spazi di agibilità ai neofascisti. Pur caratterizzata da punte di
autoindulgenza, la testimonianza di Brogi sottolinea la ghettizzazione a cui sono sottoposti gli attivisti di destra in città, un’emarginazione che a suo avviso complica addirittura la ricerca del lavoro. Nonostante ciò è tra i fascisti che il giovane cerca la propria comunità ideale, vestendo la camicia grigioverde dei Volontari Nazionali, il servizio d’ordine del Msi. Ormai ventenne partecipa con gli amici del Fronte della Gioventù e di Ordine Nuovo a tafferugli e aggressioni davanti alle scuole e nelle manifestazioni, fino ad essere coinvolto nella devastazione del Centro di Ricerche Economiche e Sociali di Firenze. Le denunce e il breve arresto non gli impediscono di rimanere a piede libero, ma il suo nome finisce sui giornali ed entra nel mirino dell’antifascismo militante. L’attacco a bastonate subìto sotto casa, dove appaiono scritte sui muri a lui indirizzate e vengono tagliate le ruote all’auto del padre, gli fanno temere il momento di tornare a casa ogni sera. All’inizio del ’74, quando ha 22 anni, arriva così la decisione di cambiare aria <155. È il camerata aretino Augusto Cauchi, coetaneo e fresco di separazione dalla moglie, ad offrirgli la possibilità di un trasferimento ad Arezzo, nel casolare dove è alloggiato a Verniana di Monte San Savino. Con la sua fama di picchiatore Cauchi è conosciuto da Brogi in occasione dei volantinaggi per la campagna elettorale del Msi di Arezzo. In queste occasioni di attivismo politico i giovani neofascisti della regione si spostano sul territorio per partecipare ai comizi, con i più duri che fanno la scorta ai dirigenti. Trascinati dall’entusiasmo del cambio di vita, ad inizio ’74 i due fantasticano di aprire una cooperativa agricola ispirata al corporativismo fascista, per dare sostegno ai camerati.
[NOTE]
143 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori PM, Questura di Firenze, Andrea Brogi, int. del 31 gennaio 1985.
144 Ivi.
145 Ivi.
146 ASFI, Questura di Firenze, Gabinetto, versamento 1992, E3/E2, pezzo 1986/55 bis, Rapporto inviato da Questura di Bologna (Digos) a Ufficio Istruzione Tribunale Bologna il 30 giugno 1986, oggetto: Italicus-bis.
147 I nominativi dei presenti fatti da Andrea Brogi danno alla riunione un carattere che travalica l’ambito locale; vengono infatti segnalati militanti e dirigente provenienti, oltre che dalla Toscana, da Roma, Perugia, Bologna, Rieti, Brindisi, Torino, Sanremo, Rimini, Lanciano e Napoli. Nella testimonianza risalta la presenza di Adriano Tilgher (responsabile in Italia di Avanguardia Nazionale dopo la latitanza in Spagna del leader Stefano Delle Chiaie) e quella di Luciano Benardelli (elemento di spicco di Ordine Nero, gruppo clandestino che entrerà in azione nel marzo ’74); cfr. Questura di Firenze, int. di Andrea Brogi del 31 gennaio 1985.
148 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, Sent. n. 302/84 R.G.G.I. c/ Affatigato Marco + 63, pp. 50-54.
149 Ivi.
150 Insospettabile geometra del comune di Empoli, sale alla ribalta il 24 gennaio 1975 quando, scoperta la cellula eversiva Toscana, spara agli agenti durante la perquisizione seguita al mandato di cattura, uccidendone due e ferendo il terzo. La sua fuga in latitanza dura fino al 27 luglio ’75, quando viene arrestato in Costa Azzurra. In carcere diventa una figura di riferimento dell’estremismo di destra e si rende responsabile, il 13 aprile 1981, della morte di quello che al tempo è il principale sospettato per la strage di Piazza della Loggia, l’estremista di destra Ermanno Buzzi. Durante l’ora d’aria e insieme all’ex Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli, Tuti strangola il detenuto, in procinto di fare confessioni sulla strage. Condannato dal Tribunale di Arezzo per una serie di attentati ferroviari, Tuti è stato tra i principali imputati per la strage del treno Italicus (4/8/74) e per la tentata strage ferroviaria di Incisa Valdarno (12/4/75), in entrambi i casi è stato assolto dopo un lungo iter processuale.
151 Brogi fa esplicito riferimento a Mauro Mennucci, estremista di destra pisano che, una volta arrestato, collabora con la polizia per far catturare Mario Tuti e verrà ucciso in un agguato sotto casa l’8 luglio 1982.
152 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, Sent. n. 302/84 R.G.G.I., pp. 50-54.
153 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori PM, Questura di Firenze, Lettera manoscritta di Andrea Brogi al Giudice Rosario Minna del 15/1/1985.
154 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori, Andrea Brogi, Trib.Bo, int. del 6/2/1986.
155 Ibidem, Trib.Bo, int. di Andrea Brogi del 9/1/1986
Alessio Ceccherini, La ragnatela nera. L’eversione di destra e la strage dell’Italicus (1973-1975), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno accademico 2021-2022


sabato 27 settembre 2025

I due poli del pluralismo democratico e del conflitto ideologico sono stati a lungo occupati dalla subcultura rossa e dalla subcultura bianca


“Certamente sono indubbie le responsabilità della Chiesa cattolica nel contrastare la nascita di una cultura politica capace di garantire un adeguato sostegno alle istituzioni democratiche e, in precedenza, alla costituzione di uno stato unitario. Tuttavia il giudizio riportato deforma con un eccesso di schematismo un quadro assai più complesso e differenziato. È una conclusione che peraltro contraddice una delle tesi più care all’autore, che considera l’efficienza delle istituzioni e lo spirito pubblico come benefiche eredità delle reti associative impiantate dai movimenti socialisti e cattolici nelle regioni centro-settentrionali al volgere del secolo scorso” (Cartocci, 1994, p. 31)
Se pure Democrazia cristiana e Pci hanno (ri)animato lo spirito e orientato gli umori dell’elettorato e delle famiglie (ivi, p. 117) per i primi cinquanta anni della Repubblica, di contro, fascismo e antifascismo non vanno sottovalutati per quanto e come hanno inciso nelle dinamiche dello stivale sin dall’epoca pre-repubblicana, e i cui echi sono tuttora udibili nel dibattito pubblico. Le conseguenze di questi fenomeni sociopolitici, insieme agli attori che li hanno cavalcati, possono sufficientemente giustificare la travagliata (r)esistenza democratica contemporanea, ma non integralmente: un’analisi, che si voglia intendere come accurata, non può trascurare altri processi che inderogabilmente hanno
scandito i ritmi del pendolo democratico, alimentato dal progetto di una sostanziale applicazione dei principi costituzionali - progetto il cui compimento, come tipicamente avviene in Italia per le “Grandi opere”, è definito sine die. L’impianto istituzionale rappresenta, a un tempo, l’epicentro in cui si consuma il conflitto ideologico insieme al dialogo democratico, e uno spazio controverso del sistema-paese - in quanto funzionari e garanti son coloro che più mal hanno indossato l’habitus affidatogli il 2 giugno 1946, disattendendo e mal reagendo alle sfide che gli si pararono dinnanzi da quel giorno. Qui e per ora, ci interessa sostanziare quell’aggettivo [controverso] riferito al sistema istituzionale repubblicano, tutto fuorché inavvertitamente o inconsapevolmente attribuito.
Ad esempio, controverso è stato il loro ruolo svolto negli anni di piombo: Questo periodo è stato caratterizzato da un tanto tragico quanto ambiguo terrorismo politico, le cui manifestazioni erano, da un lato, direttamente orientate a minare la stabilità delle istituzioni, ma dall’altro, a queste erano parassitariamente riconducibili evidenziando un’Italia occulta (cfr. Turone, 2018).
“Gli “anni di piombo” si caratterizzavano, come in nessun altro paese, per la compresenza e i conflitti tra gruppi di terroristi di sinistra e di destra. Il primo gruppo aveva lanciato l’assalto allo Stato imperialista delle multinazionali (SIM); il secondo si trovava, in buona misura, dentro lo stato, nei suoi apparati, godeva di qualche sostegno esplicito e implicito, anche internazionale, ne erodeva le capacità operative, mirava a indurire lo stato, se non addirittura a sovvertirlo, aveva come obbiettivo finale il ridimensionamento della sinistra italiana e, in particolare, del Partito comunista (e della CGIL) e una transizione autoritaria.” (Pasquino, 2021 p. 93)
La macchia nelle istituzioni - di quell’habitus precedentemente richiamato - si espande, tramutando da un colorito sanguigno ad uno rosso-fango: così dal terrore degli anni di piombo si passa al pantano morale degli anni di fango, espressione cara a Montanelli (cfr. 2001): le stragi mafiose e l’inchiesta “mani pulite”. Per quanto, anche discutibilmente, le mani siano state (ri)pulite, lo stesso non si può dire delle facciate dei palazzi e del simbolo cui erano tenuti a rappresentare, ma che tristemente hanno (dis)onorato.
“In termini impietosi veniamo posti di fronte ai limiti della nostra cultura politica: siamo il popolo che è meno soddisfatto della propria vita e, come abbiamo visto, del funzionamento della democrazia; e tutto questo, vale la pena sottolinearlo, emerge dai dati raccolti prima del 1988” (Cartocci, 1994, p.25)
In proposito, la desecretazione attuata dal premier italiano Draghi nel 2021 riguardo documenti sensibili inerenti all’organizzazione Gladio e alla loggia P2, punta un tenue fascio di luce sui legami occulti e sulle figure coinvolte, cercando di far chiarezza su controversie da risolvere necessariamente; come in un gioco a somma zero, questo parziale passo in avanti comporta un’accidentata complessificazione del passato sfortunatamente oscuro che ha caratterizzato la nostra esperienza nazionale. Apprese queste particolari vicissitudini, una pretesa condanna della mancata, se non limitata, realizzazione della polity - e quindi del progetto costituzionale - non legittima il biasimo, fine a sé stesso, di chi da quello spirito costitutivo doveva ispirarsi; lungi da un vittimismo deresponsabilizzante, la nostra società e il suo scudo liberale ha dovuto/deve fare i conti con eventi tanto poco auspicabili quanto, con buona probabilità, difficilmente fronteggiati da un qualsiasi altro stato. Detto ciò, risulta importante delineare gli effetti di questi eventi e le fratture socio-territoriali generatesi, la loro politicizzazione, interpretazione e radicalizzazione - quest’ultima la tendenza forse più influente e caratterizzante - all’interno della più generale cultura politica italiana. Quest’ultima sostanzialmente è vincolata da una doppia tenaglia che ne ostacola la concreta emancipazione, limitando le elaborazioni ideologiche e la prassi politica; questa propensione è condotta: “da una parte dal substrato più profondo di asocialità, costituito dal «familismo amorale» e dal «guicciardinismo», dall’altro lato dal persistere delle apparenze politico-ideologiche (la subcultura marxista e quella cattolica), di origine più ravvicinata nel tempo, e dalle loro proiezioni nel sistema partitico.” (ivi, p. 21)
Prima di definire i contenuti ideologici/ideali, animanti e caratterizzanti la democrazia italiana, e gli attori - imprenditori culturali annessi - che ne hanno interpretato la dialettica e i conflitti, è necessario, in questa sede almeno richiamare, i termini entro cui il pluralismo polarizzato (Sartori, 1982) si è sviluppato. Per procedere con la trattazione, è indispensabile considerare il ruolo socializzante svolto dalle istituzioni, strettamente legato con il senso civico instauratosi e differenziatosi a partire dall’esperienza comunale e repubblicana nel Centro-Nord, dalle dominazioni straniere e dagli stati regionali pre-risorgimentali che, per svariati secoli, hanno diversamente amministrato la Penisola. La cittadinanza, infatti, risulta pervasa dalla «rimozione nevrotica» (cfr. Tullio-Altan, 1986, in Cartocci, 1994) - una sorta di amnesia indotta - di una evidente arretratezza culturale che rimane ancorata a logiche stantie non compatibili con una democrazia matura; Bellah (cfr. 1974 in Cartocci, 1994) descrive il caso italiano come accompagnato da un «basso continuo» radicalizzato che copre la possibilità ad orientamenti innovativi e riformatori di emergere. La consapevolezza della presenza di un pluralismo polarizzato, a controllo del conflitto ideologico italiano fino agli anni Ottanta del secolo scorso, ci impone per giunta di analizzare gli effetti conseguenti allo scioglimento post-democratico della polarizzazione politica: “infatti a differenza del particolarismo familistico, queste appartenenze politico-ideologiche implicano pur sempre una dimensione collettiva, per quanto con un orizzonte più limitato, o alternativo, rispetto a quello della nazione.” (ivi, p. 50)
A questo scopo, risulta vitale l’analisi delle subculture politiche territoriali e la loro influenza nella costruzione delle rispettive identità, negli orientamenti di voto - complici in parte della piaga del voto di scambio e clientelare -, nel divario che su più fronti intacca la frattura tra Sud e Nord Italia, e nelle forme assunte dal capitale sociale con il particolarismo familista, il localismo ecc. Sul tema è offerta da Cartocci (ibidem) e Almagisti (2016) una corposa argomentazione dedicata a descrivere la democratizzazione del capitale sociale - osservandone la sua indispensabilità - coagulato attorno alle subculture bianca e rossa, ai movimenti sociali e aggregativi. Al centro della loro trattazione vengono poste le dimensioni dell’identità - individuale così come nazionale - e i modi coi quali essa si determina e si percepisce (“il sentirsi parte”), quindi la dimensione della cittadinanza; il focus è sull’intreccio di queste dimensioni con la «grande trasformazione» degli assetti politico-economici, emancipatisi dalla crisalide pazientemente costruita dal secondo dopoguerra. Abbiamo già evidenziato come il capitale sociale bridging - inclusivo e unitario - e bonding - escludente e divisorio - siano strettamente legati alle reti di associazionismo generate dai rituali e dalle simbologie istituzionali; tuttavia, questo aspetto formale-procedurale non è l’unico a favorirlo: la definizione di Farneti (cfr. 1971) chiarisce infatti l’apporto delle subculture politiche territoriali nello sviluppo del capitale sociale, intese come “[un] insieme di tradizioni e norme che regolano i rapporti tra gli individui e tra questi e lo stato, espresso anche in linguaggi politici. […] [Ma] la forza delle subculture deriva dal fatto di regolare un insieme di rapporti ben più vasto dei rapporti politici e, primo fra tutti il rapporto associativo, di solidarietà o di interesse. […] [Esse quindi sono] vere forme complesse di legittimazione dell’autorità politica”. (Farneti, 1971 p. 202-204 in Almagisti, 2016)
I due poli del pluralismo democratico e del conflitto ideologico sono stati a lungo occupati dalla subcultura rossa e dalla subcultura bianca e al loro declino corrispose la perdita di magnetismo dei poli stessi. La rilevanza di queste due realtà non è rinvenibile solamente nella capacità che hanno avuto di orientare il voto elettorale: infatti, attorno ad esse si sono strutturati veri propri stili di vita e pratiche sociali, tali da far viaggiare le due subculture su binari paralleli che mai sono riusciti ad intrecciarsi. Trigilia (cfr. 1981, p. 83) illustra come sia fondamentale il legame tra il territorio locale e l’organizzazione partitica, condizione fertile per lo sviluppo di un carattere essenziale quale “l’esistenza di una rete di associazionismo diffusa e orientata ideologicamente”. Considerando come le subculture abbiano assorbito, all’interno dei propri schemi interpretativi e orientamenti politici sedimentati, importanti fratture sociali sin dal processo di state building, lo sgretolamento del dualismo tra forza politica e identità territoriale - quel basso continuo per l’appunto prima richiamato - ha provocato un tale sgomento per cui la cultura politica è rimasta disorientata, tuttora faticando a riorganizzarsi.
“Il dato di fondo e di lungo periodo è costituito da una diffusa insoddisfazione nei riguardi della politica e del funzionamento delle istituzioni nazionali, soprattutto del parlamento e dei partiti, non solo i partiti degli altri, ma anche quello che gli elettori sceglievano di volta in volta in mancanza di meglio.” (Pasquino, 2021, p. 143)
Davide Agus, Nell’ideologia, percorsi nella prassi sociale e politica, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

domenica 14 settembre 2025

Tre missioni OSS in Valtellina: Sewanee, Santee e Spokane

Tirano (SO). Fonte: Wikipedia

Le operazioni O.S.S. [Office of Strategic Service] in Valtellina presero avvio il 3 marzo 1945 tramite tre gruppi di OG [Operational Group] che avevano come obbiettivo ultimo quello di rallentare le linee di rifornimento tedesche e creare confusione dietro le linee nemiche.
Il sito di lancio per i paracadutisti fu identificato nel Passo dello Stelvio, zona estramemente importante per le comunicazioni tra Italia e i territori tedeschi; la zona, tuttavia, era priva di una importante rete di resistenza. Per tale motivo e per comprendere la fattibilità delle missioni, inizialmente furono paracadutati pochi uomini. Tra questi vi furono il Capitano Victor Giannino, a capo della missione Santee, e il Maggiore Arnold Lorbeer, capo della missione Spokane.
Ritenuta l’aerea sicura, il 4 marzo vennero paracadutati gli agenti restanti per dar via alla missione Alleata. Gli stessi, purtroppo, vennero accolti da spari erroneamente attivati da parte dei partigiani locali, i quali ignoravano la presenza di una missione Alleata. In parallelo, l’OSS non era a conoscenza dell’esistenza di un gruppo partigiano in Livigno.
La missione Santee, il 10 marzo, giorno nel quale smise di nevicare, si diresse in zona di Fusino, dove si incontrò con un gruppo di partigiani. Nel dettaglio, si trattò di uno spostamento complicato in quanto avvenne in una zona dominata da numerose truppe nazi-fasciste che pattugliavano il passo del Foscagno, il quale, trovandosi a 2.300 metri sul livello del mare, costituiva l’univa strada percorribile tra Fusino e Livigno. Compito principale degli OG fu quello di istruire i partigiani locali in operazioni di imboscata e di attacco contro le forze nemiche. Il percorso fu supportato con diversi lanci di rifornimenti che si realizzarono il 4 marzo insieme agli OG mancanti, il 21 marzo, il 30 e il 31 marzo, il 4 aprile ed infine il 12 aprile. Tutti questi voli, nonostante le avverse condizioni atmosferiche (nevicate e venti fortissimi), vennero completati con successo.
Il penultimo giorno di marzo, per ottenere il controllo ed evitare la ritirata delle truppe tedesche, venne sviluppata con successo la prima incursione, indirizzata contro le installazioni militari lungo il Passo dello Stelvio.
Secondo la testimonianza del Maggiore Lorbeer al Convegno Internazionale di Studi Storici “Gli Americani e la Guerra di Liberazione in Italia”, il passo dello Stelvio era presieduto da circa 300 uomini nemici, mentre le truppe unite di OG e partigiani si limitavano a solo 50. Il successo fu ottenuto poiché nelle difficili condizioni atmosferiche le truppe tedesche non si aspettavano un attacco alleato. I combattimenti sullo Stelvio si protrassero fino alla fine della guerra, con le truppe naziste determinate a riconquistare, in qualunque modo, il medesimo passo. Tuttavia, il valico venne difeso con successo dagli Operational Group e dalla resistenza italiana, tramite l’utilizzo di fucili di precisione, mitragliatrici calibro 50 e mortai da 81 mm.
La notte del 13 aprile i tre reparti degli OG, in stretta cooperazione, colpirono le truppe nemiche a Venvio, San Martino e Roncale. Le unità erano composte da 12 membri degli OG e da circa 20-30 partigiani, permettendo così di sorprendere le forze dell’Asse. Tali attacchi furono svolti per evitare i rastrellamenti in programma nei giorni successivi, grazie alle informazioni ottenute dalla SI. Colti a sorpresa dall’attacco notturno, peraltro svolto in pessime condizioni metereologiche, le truppe nazi-fasciste subirono un totale di 50 perdite (30 morti e 20 feriti). I restanti riuscirono a ritirarsi, lasciando libere le postazioni in cima alle valli, permettendo così la loro conquista e il controllo da parte dei partigiani.
Nei giorni finali di aprile i gruppi partigiani combatterono anche in altre battaglie, tra le quali quella di Tirano dove riuscirono a far arrendere, il 29 aprile, insieme ad altri reparti Alleati, 1.200 truppe nemiche. In quegli stessi giorni la città di Bormio venne conquistata, dove vennero catturati 300 uomini tra italiani e tedeschi.
Nel corso dei due mesi di battaglie le tre missioni dell’Office of Strategic Service in Valtellina persero solo tre uomini: i Tenenti Anthony Rocco, Anthony Fantuzzo e il Sergente Bennie Ballone, morti il 13 aprile in un incedente aereo. Oltre a queste tre vittime, tutti gli agenti, fecero ritorno nella base di Siena il 22 maggio del 1945.
Matteo Paglia, Ex pluribus unum. Come l'Office of Strategic Service ha rivoluzionato il sistema d'intelligence statunitense, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2024-2025

Si compose [la missione Spokane dell'O.S.S.] di quattro lanci dall'inizio di marzo a metà dell'aprile 1945. Gli agenti paracadutisti, quasi tutti italo-americani, assommano a 14 (2 morirono in un incidente aereo nella fase di atterraggio il 13 aprile). La zona prescelta per le operazioni era a nord di Edolo, tra la Val Camonica e la Valtellina, importante per la vicinanza dei due paesi fortificati dello Stelvio e del Tonale. Le direttive erano di allacciare contatti con le locali formazioni partigiane, istruire e programmare azioni di sabotaggio sulle linee di comunicazione (per Lecco, Colico-Tirano, Lago d'Iseo, Edolo, Bolzano, Gargnano, Riva, Trento). Le altre direttive, del resto comuni ad ogni missione, riguardavano il mantenimento di contatti radio col Quartier Generale per informazioni militari (localizzazione di fortificazioni, ponti, depositi, ecc.), e il rapporto completo su ogni aspetto delle formazioni partigiane (entità, armamento, responsabili, nonché il "morale" e il "Political Views", la tendenza politica). Interessante è inoltre la direttiva di "prevenire attriti tra di esse". Le operazioni della "Spokane" riguardano, oltre alla trasmissione di informazioni militari, anche l'addestramento dei partigiani nell'uso di esplosivo nonché la partecipazione a sabotaggi e scontri a fuoco. Il 30 marzo, 7 uomini della missione alla testa di una cinquantina di partigiani delle "Fiamme Verdi" provocano con un'esplosione una frana che interrompe la strada da Tirano allo Stelvio. Contemporaneamente interrompono le linee telefoniche e telegrafiche e assaltano il piccolo presidio tedesco nei pressi del passo. Liberano i lavoratori coatti della Todt, che si trovano lì per i lavori di fortificazione del passo. Distruggono il materiale tedesco (in particolare 300 fusti di carburante). Il mattino del 31 arrivano truppe di rinforzo tedesche. Viene tentato uno scambio di prigionieri, che però si trasforma in uno scontro a fuoco, con morti e feriti da ambe le parti. I partigiani devono lasciare il passo, ma nel mese di aprile continuano azioni di disturbo, tra cui il minamento delle strade che causa l'esplosione di una decina di veicoli tedeschi. Il 26 aprile si arrende il presidio di Sondalo, il 28 Bormio. Vengono salvate, su precise istruzioni alleate, le centrali idroelettriche di Isolaccia, di Sondrio, Grosio e Cancano (appartenenti alla Falck, Edison, Società di Milano, Società Lombarda). Con orgoglio il Major Lorbeer, capo-missione, può scrivere che "la Valtellina è liberata 3 giorni prima della fine della guerra in Italia".
La missione "Spokane" si costituì come A.M.G. (Governo Militare Alleato) il 2 maggio.
[...] Missione "Horrible": francese. Nell'aprile giunge alla Spokane l'ordine del Quartier Generale di impedire l'entrata in Italia di missioni francesi. "Li abbiamo ricacciati in Svizzera".
Missione "Sewanee" dell'O.S.S., composta da 7 agenti tutti italo-americani, paracadutati presso Livigno il 13 aprile, in appoggio alla "Spokane". La zona di operazioni era pure a nord di Edolo. Collaborarono con la formazione "Tito Speri" delle "Fiamme Verdi", partecipando alla resa di Bormio (27 aprile). Altre missioni collegate con le "Fiamme Verdi" furono l'"Offense" e l'"Elinor", entrambe americane. A Ponte di Legno la Spokane ebbe una volta contatto anche con la "Norma" (cfr seguito). E' da citare infine la "Santee", paracadutata nei pressi di Livigno il 4 marzo, che ebbe un importante ruolo soprattutto nei contatti e nel coordinamento tra le missioni, i partigiani locali (riuniti a scadenze regolari con i comandi), il CLN e i servizi segreti in Svizzera. Ricevette la resa di Tirano.
Carlo Romeo, Missioni O.S.S. nella zona di operazioni della Prealpi: (1944-1945), «Archivio trentino di storia contemporanea» (ISSN: 1120-4184), 42/2 (1993)

Ultimo a destra il partigiano Cesare Marelli. Foto del soldato americano Joseph J. Genco. Fonte: Fondazione AEM cit. infra

La Resistenza in Valtellina ebbe aspetti molti particolari, spesso problematici anche solo per il fatto di attuarsi in zona di frontiera e per la presenza strategica nel territorio dei maggiori impianti idroelettrici del Nord Italia.
Molti dei luoghi di AEM in Alta Valle, rifugi e cantieri, divennero presto area di resistenza partigiana, come il paese provvisorio di Digapoli alla falde delle diga di San Giacomo in costruzione. Il 4 marzo 1945 fu paracadutata a Livigno la missione americana “Spokane”, formata da una cinquantina di ufficiali e militari, in appoggio alle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” che presidiavano parte dell’Alta Valle. Seguirono ad essa altre due missioni: la “Santee” e la “Sewanee” che contribuirono con uomini e mezzi a sostenere la lotta di Liberazione. Le comunicazioni tra Milano e la Valtellina avvenivano tramite le telescriventi AEM con messaggi cifrati trasmessi da e per Cancano, Milano, Grosio e Tirano.
Redazione, 1945. I partigiani Nicola Colturi, Giuseppe Tuana, “Alonzo” Placido Pozzi, Don Angelo Moltrasio e “Tom” Cesare Marelli, Fondazione AEM 

giovedì 4 settembre 2025

Ampio spazio alla presenza di Basile venne dato dalla stampa di sinistra


Il mese di maggio [1960] fu ugualmente caldo, sia dal punto di vista interno che internazionale. Gli sforzi verso la distensione di Eisenhower e Khruscev subirono un brusco arresto a causa della crisi innescata dall’abbattimento dell’aereo-spia americano U-2 nei cieli sovietici. Nonostante ad Ike fosse stato assicurato che, in caso di incidente, del pilota e del mezzo sarebbe rimasto poco o niente, le cose andarono diversamente. Non solo il pilota si salvò, ma venne prontamente catturato dai sovietici. A questo punto, il presidente americano autorizzò una vera e propria «menzogna ufficiale» annunciando che un apparecchio meteorologico era finito fuori rotta. Ma Khruscev non tardò ad esibire le foto dell’aereo e del pilota vivo e in ottima salute <100.
Le conseguenze della crisi furono pesanti. Ne risentì l’importante conferenza di Parigi, dove si discuteva del disarmo e del trattato di pace con la Germania. In tale contesto, il leader sovietico aveva buon gioco nel presentarsi davanti all’opinione pubblica mondiale come «vittima dei tranelli americani». In più, numerose furono le manifestazioni e le mobilitazioni contro “l’imperialismo americano” <101 soprattutto in Giappone, dove il parlamento stava dibattendo il rinnovo del trattato di mutua sicurezza e cooperazione con gli Usa. Circa diecimila giovani assaltarono la Dieta, il parlamento nipponico, e la lotta continuò nelle piazze. La polizia sparò e ci furono cinque morti e centinaia feriti <102. Intanto, Eisenhower dovette rinunciare alla tappa giapponese del suo viaggio asiatico. I fatti di Tokyo furono un chiaro esempio di come la lotta popolare diretta poteva scavalcare la maggioranza parlamentare <103.
In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107. L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato [degli Stati Uniti], rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile. Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice. Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile. Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
In merito all’invito a Carlo Emanuele Basile, allo stato attuale delle ricerche, non esistono prove. Già iscritto nelle liste dei criminali di guerra, Basile fu protagonista di deportazioni e rastrellamenti, in stretta collaborazione con le autorità naziste. Secondo quanto riporta «L’Espresso», aveva organizzato deportazioni di operai ed era l’uomo più odiato di tutta la Liguria, tanto da essere soprannominato «il boia» <114. Ad ogni modo, gli organi di stampa di destra non avevano accennato alla sua partecipazione. Sul giornale missino, tra maggio e giugno, sono solo due gli articoli da lui firmati <115. Pagine che, per esplicito avvertimento del quotidiano, erano tutt’altro che «ufficiali», ma piuttosto un’iniziativa autonoma del giornale <116.
Nella sua ricostruzione di quegli anni, un esponente missino di primo piano come Gianni Roberti negava nel modo più assoluto sia la partecipazione di Basile che la sua nomina a presiedere il congresso. Oltre al fatto che fosse in quei giorni lontano da Genova - cosa in sé non molto rilevante - Roberti aggiungeva che non era neanche iscritto al Msi, notizia che si trova anche in un rapporto del console generale Joyce <117. Ciò non toglie che i missini non si erano preoccupati di smentire le voci sulla sua partecipazione. Un altro tassello utile a ricostruire la vicenda è l’elenco degli esponenti che effettivamente sarebbero andati a Genova. Dal 25 giugno al 2 luglio il quotidiano neofascista pubblicò nomi, foto e brevissime biografie dei delegati provenienti da tutta Italia. Il 30 compariva Basile. Si trattava però di Michele Basile, avvocato di Vibo Valentia <118. I ricordi di chi scorse l’elenco dei delegati,  probabilmente, si focalizzarono sul ben più famoso e sanguinario Carlo Emanuele. Il coinvolgimento dell’ex gerarca fascista impressionò gli americani per essere stato «un ottimo strumento nelle mani della macchina di propaganda comunista». Ampio spazio alla presenza di Basile venne dato dalla stampa di sinistra e dai frequenti comizi, dove la risposta della folla fu sempre calda. Basti pensare che «L’Unità» del 30 giugno si scagliava contro Basile, che avrebbe intitolato “Torneremo a Genova” un articolo su «Il Secolo d’Italia», alludendo ad una «rivincita sulla città che lo aveva cacciato» <119. Peccato che quell’articolo non sia mai stato scritto, né da Basile né da altri. L’associazione del criminale di guerra al congresso missino divenne prassi consolidata soprattutto dopo l’intervento di Pertini alla Camera, il 1° luglio <120. Questo alimentò le inquietudini degli Usa, che più di tutto temevano un irrigidimento delle posizioni e la polarizzazione del quadro politico.
[NOTE]
100 J. L. Gaddis, La guerra fredda, Mondadori, Milano, 2005, pp. 179-180. Sull’episodio dell’U-2 si veda M.R. Beschloss, Mayday. The U-2 Affair, Harper and Row, New York, 1986.
101 P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 361-362; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 294-295.
102 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 285. Sui manifestanti si veda M. Del Bene, Appunti sulla vicenda del movimento studentesco giapponese, «Passato e Presente», n. 25, a. X, 1991. Per le valutazioni e i timori dei missini si veda I comunisti in Giappone tentano con la forza di rovesciare l’alleanza con il mondo occidentale, «Il Secolo d’Italia», 22 maggio 1960.
103 Da notare che Nenni e Togliatti approvarono le azioni dell’organizzazione Zenga-kuren, si vedano D. Yoshida, 5 milioni di operai giapponesi hanno scioperato contro le basi, «L’Unità», 5 giugno 1960; La nostra solidarietà al popolo giapponese, «L’Unità», 12 giugno 1960; Solidarietà del Pci col popolo giapponese, «L’Unità», 18 giugno 1960.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
114 A. Barbato, “Balilla l’ha impedito”, «L’Espresso», 10 luglio 1960; A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., p. 201; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo, cit., p. 179.
115 C.E. Basile, Una data ferma scolpita nel tempo, «Il Secolo d’Italia», 24 maggio 1960; C.E. Basile, C’è oggi un’Italia che vuol vivere dal ventre ma c’è anche un’Italia che guarda in alto, «Il Secolo d’Italia», 25 giugno 1960.
116 L’avviso relativo alle pagine non ufficiali dedicate al congresso è presente dal 14 giugno 1960.
117 «[Basile] era in tutt’altra località, nella sua abitazione sui laghi, non era neppure iscritto al Msi, e nessuno aveva pensato - né poteva pensare - di nominarlo Presidente del Congresso», G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 140. Il fatto che Basile non fosse iscritto al Msi spiegherebbe la sua collaborazione così saltuaria al quotidiano. Per il resoconto di Joyce, secondo cui faceva parte di un «gruppo neofascista dissidente», si veda Communist-led rioters succeed in causing cancellation of national convention of neofascist Msi party in Genoa, R. Joyce (American Consul General) to the Department of State, July 11, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/7-1160.
118 Si veda I delegati delle federazioni d’Italia, «Il Secolo d’Italia», 30 giugno 1960. La presenza «innocua» di Michele Basile venne ricordata anche in una lettera del 2003 scritta da Francesco Ryllo (nel ’60 delegato provinciale missino di Catanzaro) al Corriere, si veda Verità storica. Il governo Tambroni, (lettere al direttore Paolo Mieli), «Corriere della Sera», 18 dicembre 2003.
119 Puntano di nuovo sui fascisti, «L’Unità», 30 giugno 1960.
120 AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1 luglio 1960, pp. 15435-15439. Il fratello di Sandro Pertini venne deportato a causa di uno dei bandi emanati da Basile durante la Rsi. Il giorno seguente «Paese Sera» scriveva che il governo era «alleato e difensore del deportatore e fucilatore dei patrioti Carlo Emanuele Basile», si veda N. Antoni, Genova ha detto no al fascismo, «Paese Sera», 2 luglio 1960; si veda anche F. Monicelli, Genova insegna, «Paese Sera», 5 luglio 1960. La presenza di Basile è citata in numerosi siti web e lavori storiografici. Tra i tanti G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 166; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 347; P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., p. 377; A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 191; L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 106. Baldoni ha definito la presenza di Basile «una falsa notizia che esplode come un ordigno ad alto potenziale», A. Baldoni, Due volte Genova, cit., p. 71.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010