giovedì 23 ottobre 2025

Antonio Segni, un moderato anti-centrosinistra


Antonio Segni al momento dell’elezione a Presidente della Repubblica, avvenuta nel 1962, rappresentò il candidato di punta della DC di Aldo Moro. Moro, intenzionato ad aprire una stagione di centrosinistra organico <43, credeva che la presenza al Quirinale di Segni, un moderato, potesse essere rassicurante di fronte all’entrata dei socialisti nella compagine governativa.
Segni era un insigne giurista, tra i fondatori della Democrazia cristiana e due volte Presidente del Consiglio dei ministri <44.
Durante il suo discorso di insediamento, in contrasto con il predecessore, Segni delineò la sua immagine di Presidente come “unità civile e morale della nazione italiana una e indivisibile” “e al quale non spetta” determinare gli indirizzi politici dello Stato <45.
Il settennato di Segni fu caratterizzato da alcune novità. Per primo, egli, durante il proprio mandato, inviò alle Camere il primo messaggio presidenziale della storia della Repubblica; un’ulteriore novità fu la formazione, nel 1963, del primo esecutivo di centrosinistra organico guidato da Aldo Moro, esponente della Dc, con una partecipazione attiva del partito socialista guidato da Pietro Nenni. 
Il programma di questo governo era fortemente riformista e per questo non era ben visto dagli ambienti conservatori del Paese <46.
Il primo governo Moro durò solamente sei mesi, e, in concomitanza dell’epilogo del primo esecutivo “riformista”, serpeggiò la possibilità di una svolta reazionaria. 
Questo era il disegno del Piano Solo.
Il Piano Solo venne predisposto dal generale Giovanni de Lorenzo, all’epoca comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, con il benestare del Presidente Segni. Il coinvolgimento del Presidente è affermato in maniera inequivocabile da Aldo Moro, che dice però, nel memoriale stilato durante la prigionia brigatista, che il piano militare fu disdetto dallo stesso Capo dello Stato. <47
Questo momento di forte crisi istituzionale si concluse con l’istaurazione di un secondo governo Moro, caratterizzato da un programma di ridotte pretese riformiste.
L’epilogo del mandato di Segni accadde in maniera drammatica poiché nel 1964 venne colpito da un collasso, dal quale il Presidente non si riprese <48.
Nel periodo successivo, tra l’agosto e il dicembre 1964, le funzioni di Presidente vennero esercitate, come prevede l’articolo 84 della Costituzione, dal Presidente del Senato Cesare Merzagora <49, inaugurando la prima e più lunga supplenza alla Presidenza della Repubblica della storia repubblicana.
[NOTE]
43 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, il Mulino 2021
44 IL PORTALE STORICO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
45 Il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Antonio Segni, https://presidenti.quirinale.it/page/4/seg_a_insediamento.html
46 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, il Mulino 2021
47 M. DONDI, L'eco del boato, Storia della strategia della tensione 1965-1974, Edizioni Laterza, 2023
48 PORTALE STORICO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
49 A. PERTICI, Presidenti della Repubblica, da De Nicola al secondo mandato di Mattarella
Federica Mattei, Il Presidente della Repubblica nell'ordinamento italiano: evoluzione e prospettive, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2022-2023

lunedì 13 ottobre 2025

Partigiani nel Friuli orientale tra dicembre 1943 ed agosto 1944


La zona libera del Friuli orientale fu chiamata Zona libera Est o Orientale, ma anche di Nimis, Attimis, Faedis, dal nome dei tre principali Comuni che ne formarono il territorio. Non è scopo di questo lavoro raccontare tutti i fatti che portarono alla liberazione del territorio, ma si deve ricordare che fu tra il giugno ed il luglio del 1944 che la Brigata «Garibaldi Natisone», trasformatasi in divisione, cacciò il nemico congiungendosi con la 1ª brigata Osoppo. Le vicende della zona orientale sono legate a questi due reparti. La Brigata «Garibaldi-Natisone», nata dal battaglione «Mazzini» nell’ottobre 1943 sul Collio goriziano, all’inizio dell’estate del 1944 si trasferì dalla zona del Collio, già ben presidiato dalle forze slovene del IX Korpus, verso ovest, nella zona pedemontana <87. Il comando si insediò nelle vicinanze di Faedis. Ben presto dai 500 uomini iniziali, la Brigata continuò a crescere e a ricevere nuove reclute sino ad arrivare a 11 battaglioni e circa 2.000 uomini. In conseguenza il Comando decise di dare vita alla Divisione «Garibaldi Natisone», con comandante Mario Fantini «Sasso», commissario politico Giovanni Padoan «Vanni», e capo di stato maggiore Ferdinando Mautino «Carlino» <88. Nella vallata di Attimis operavano nella primavera del 1944 anche tre battaglioni Osovani, «Julio», «Udine» e «Val Torre» ai quali ben presto affluirono nuovi uomini dando vita ad altri due battaglioni: «Prealpi» e «Attimis». Il 21 agosto 1944 i cinque battaglioni, con circa un migliaio di uomini, costituirono la 1ª Brigata «Osoppo Friuli» <89, sotto il comando di Mario Cencig «Mario» e del delegato politico Alfredo Berzanti «Paolo».
Le due grandi formazioni partigiane iniziarono una serie di contatti per cercare una collaborazione operativa e organizzativa nel territorio, ed essere più efficaci nella lotta contro le forze di occupazione. I risultati furono molto importanti: il 22 luglio venne sottoscritto fra le due formazioni un primo accordo che prevedeva lo scambio di informazioni e il 26 luglio venne costituito una sorta di comando unico. Questo comando, denominato «Comando di Coordinamento Operativo», costituito dai comandanti e commissari dei due reparti, avrebbe coordinato tutte le operazioni sul territorio pedemontano. I due reparti decisero di costituire una divisione unica, la «Garibaldi-Osoppo», forte di circa 3.000 uomini con comandante Mario Fantini «Sasso» e suo vice Francesco De Gregori «Bolla». La sede del Comando fu posta a Forame, frazione del Comune di Attimis. Forti di questa nuova collaborazione, e di reparti ben addestrati e numerosi, i partigiani passarono all’offensiva in tutta la zona, tenendo sotto continua pressione le esigue forze tedesche. Come si è visto in precedenza, i partigiani minacciavano ora da est la ferrovia Pontebbana (la Udine-Tarvisio, arteria principale che collega l’OZAK [Operationszone Adriatisches Küstenland: Zona di Operazione "Litorale Adriatico"] con la Germania) e contemporaneamente la linea che collega Udine con Gorizia e Trieste. Sino alla primavera-estate del 1944 le forze tedesche erano riuscite a controllare il territorio con alcuni capisaldi e continue azioni di rastrellamento. Fu una serie di aspri scontri intervallati da contrattacchi e incursioni nazifasciste col loro seguito di stragi e distruzioni. La zona non è nuova a fatti di violenza o a eccidi di civili; tra il 12 e il 17 dicembre si svolse una vasta operazione antipartigiana <90 che interessò tutta la vallata del Torre. A questa operazione partecipano anche reparti della SS-Karstwehr-Btl: si tratta di una compagnia rinforzata agli ordini dell’SS-Obersturmführer Erich Kühnbander. Tra le carte riguardanti l’unità delle SS è stato ritrovato un rapporto, dello stesso comandante, che descrive le operazioni del reparto <91. Il 12 dicembre la compagnia partendo da Nimis rastrellò il territorio tra Cergneu Superiore e Pecol giungendo sino a Nongruella. Il giorno successivo il reparto attaccò le postazioni partigiane sul monte Cantun; il 14 dicembre il reparto raggiunse Torlano di Nimis e il 15 dicembre rientrò a Gradisca al comando. In tutta l’operazione si registrarono 33 nemici uccisi. Tra questi nemici in realtà vi sono molti civili uccisi dal reparto delle SS: il 12 dicembre 1943 furono incendiate per rappresaglia le frazioni di Pecolle, Nongruella e Cergneu inferiore (si tratta di frazioni di Faedis), e furono fucilati o uccisi sia partigiani caduti nelle loro mani che civili <92: "Durante il rastrellamento a Cergneu, mentre gran parte della popolazione cercava scampo a Monteprato e sui monti circostanti, nel paese i tedeschi incendiarono alcune case e si apprestavano a dare alle fiamme anche le altre, se non fossero stati interrotti da un provvidenziale segnale di fumo bianco lasciato in cielo da un aereo, che pose fine all’orrendo rogo. Nella stessa circostanza furono prelevati dalle loro abitazioni sei uomini del luogo e senza alcun plausibile motivo fucilati a Nongruella. Altri due ragazzi del paese, di 19 anni, riuscirono a fuggire, ma furono catturati a Taipana e fucilati il giorno dopo. Vennero inoltre uccisi per mano dei tedeschi, sempre a Nongruella, quattro giovani" <93.
Alla fine del rastrellamento si contarono 12 civili uccisi dal reparto del SS-Kartswehr-Btl <94. L’operazione di rastrellamento, organizzata dal Sich. Gruppe von le Fort, continuò sino al 17 dicembre con un totale di 57 partigiani morti.
I tedeschi operarono altri rastrellamenti e operazioni antipartigiane durante tutto l’inverno del 1944, ma si trattò di azioni limitate. Con lo spostamento in zona dei nuovi reparti partigiani della Garibaldi le cose si complicarono sempre di più per gli esigui capisaldi tedeschi. I comandi tedeschi, avendo intuito le intenzioni dei partigiani miranti ad avere sotto il controllo tutta la zona, nell’agosto del 1944 avevano fatto affluire in tutta la zona ingenti forze cosacche che avrebbero avuto il compito di presidiare la zona pedemontana e rastrellare il territorio circostante dalle bande nemiche. Il tentativo di arginare l’avanzata delle forze partigiane portò a continui scontri con conseguenze terribili per le popolazioni civili della zona. Il più grave di questi fatti fu la rappresaglia compiuta il 25 agosto contro il paese di Torlano di Nimis, dove vennero uccisi 33 civili <95. Il caso di Torlano riemerse dopo il ritrovamento degli atti di inchiesta abbandonati negli archivi di Roma <96. Nel 1995 il fascicolo su Torlano fu ripreso dalla Procura Militare di Padova, precisamente dal sostituto procuratore militare di Padova Sergio Dini, che ne ha proseguito le indagini sino al 1998, data della chiusura della sua inchiesta <97.
[NOTE]
87 Aggregata alla Divisione la missione inglese del maggiore Vincent Hedley «Tucker», cfr.: Atlante storico della lotta cit., p. 98 e pp. 109-112.
88 Su tali vicende cfr.: G. Padoan, Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine, 1965; G. Gallo, La Resistenza cit.; M. Pacor, Confine orientale cit. 89 Sui reparti della Osoppo cfr.: S. Gervasutti, La stagione della Osoppo, Udine 1981; A. Buvoli, Le formazioni Osoppo Friuli, Udine 2003; A. Savorgnan di Brazzà, Fazzoletto verde, Venezia 1946.
90 Dalle ricerche di Stefano Di Giusto, l’operazione dovrebbe essersi chiamata «Blumendraht», coordinata dal Sich. Gruppe von le Fort, S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., pp. 377-378.
91 BA-MA, N 756/189, Gefechtsbericht Waffen SS-Einsatzkompanie Kühnbander, 18.12.1943; il documento viene citato anche da S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., pp. 377-378.
92 AORF, P2- 39, Nimis, dok. 11, Relazione su Nimis. La relazione non è datata.
93 G. Comelli, Il martirio di Nimis, Udine, 1974, p. 25.
94 Il numero non è ancora preciso, altre fonti parlano di 20 civili uccisi quei giorni, cfr.: V. Pravisano - A. Moretti, I caduti della resistenza nel territorio della zona libera orientale del Friuli, in «Storia Contemporanea in Friuli», nr. 5, IRSML, 1974, pp. 147-148; per molto tempo si è parlato di 32 civili uccisi, tale numero risulta dalla lapide che si trova nel piccolo cimitero di Cergneu, dal titolo «Sacrificati dalle barbarie della guerra», ma che riporta i nomi di vittime del 12 dicembre assieme a quelle del 29 settembre 1944, data del grande rastrellamento finale tedesco.
95 Erroneamente per molto tempo si dichiarò che il numero delle vittime fosse di 34, in quanto era stato incluso nell’elenco anche il nome di Pietro Vizzutti, 38 anni, ucciso dai tedeschi a Torlano il 16 dicembre 1943: cfr.: G. Comelli, Il martirio di Nimis, Udine, 1974, pp. 41.
96 Sul caso di Torlano cfr.: M. Franzinelli, Stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, 2002, pp. 178-182.
97 PM-PD, il fascicolo riguardante il «caso Torlano» è il Procedimento penale n. 233/99 e abbinati 215/96.
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

sabato 4 ottobre 2025

Brogi si apre in modo graduale alla collaborazione di giustizia

Villa Collemandina (LU). Fonte: Wikipedia

Una notte imprecisata del gennaio ’74, una trentina di persone si muovono al lume di candela in due stanze comunicanti di un vecchio mulino abbandonato a Villa Collemandina, piccolo comune della Garfagnana abbarbicato sulle colline dell’Appennino Tosco-Emiliano. Nonostante la temperatura invernale il focolare resta spento per evitare che il fumo del camino attiri attenzioni sgradite. I fitti boschi di castagno garantiscono la riservatezza necessaria all’incontro ma le precauzioni non bastano a dissipare i timori, considerato che le automobili dei presenti - giunte da diverse parti d’Italia - riempiono lo spiazzo davanti al casolare e sono parcheggiate fin lungo la carreggiata.
Il conciliabolo inizia prima della mezzanotte e va avanti per quattro ore. Sulle panche improvvisate con assi di legno, un documento scritto passa di mano in mano. Sono in pochi a parlare, i più ascoltano. Una persona con il basco verbalizza gli interventi. Agli esponenti di Ordine Nuovo si aggiungono quelli di Avanguardia Nazionale, convocati per coordinare le due organizzazioni a livello territoriale. L’attesa presenza del leader Clemente Graziani è andata delusa. È l’impresario teatrale Giuseppe Pugliese - responsabile operativo per la Toscana - a portare da Roma le direttive di Ordine Nuovo, con il dirigente nazionale Elio Massagrande che conferisce autorevolezza all’incontro <143.
L’ordine del giorno è quello di «numerare tutte le forze disponibili» e indicare un programma per la nuova strategia di attacco al sistema. La repressione a cui è sottoposto il movimento nazional-rivoluzionario impone di ricompattare gli schieramenti e dividere gli aderenti in livelli operativi distinti. Al primo - viene spiegato - si trovano «gli sputtanati», compromessi perché entrati nel mirino degli organi inquirenti oppure conosciuti pubblicamente, talvolta per la loro attività nel Msi. Questa base di militanti, inutilizzabile per operazioni delicate, può essere diretta verso azioni di piazza che, sull’esempio dei moti di Reggio Calabria, sfruttino i problemi sociali esistenti per creare destabilizzazione. A tale compito si prestano i gruppi di Avanguardia Nazionale diffusi nelle aree di crisi del Sud e abituati allo «scontro frontale». Un secondo livello costituisce «l’area serbatoio» di coloro che non sono ancora conosciuti. Agendo in clandestinità essi devono «continuare la loro vita normale» ma «prepararsi agli scoppi» per realizzare «lo scontro occulto» con lo Stato. In questo settore sono prevalenti le strutture coperte di Ordine Nuovo, diffuse nelle aree settentrionali e centrali del Paese. Un terzo livello deve infine costituire l’intellighenzia rivoluzionaria e dirigere gli altri, offrendo supporto davanti alle difficoltà riscontrate <144.
Per quanto riguarda gli attentati, in vista dei quali si raccomanda di preparare degli alibi, vengono fissati quattro tipologie di obiettivi: «ambienti di informazione del regime», «ambienti che spolpano i cittadini, come le esattorie», «obiettivi di collegamento come ponti, tralicci e trasporti», «ambienti militari». Alle rimostranze davanti all’ultimo obiettivo viene risposto che sì, le forze armate hanno avuto buoni rapporti con la destra ma iniziano ad essere
ostili. Niente più romanticismi: «quando una pianta si secca, il male va visto alle radici».
I rilevamenti degli obiettivi, viene spiegato, devono esser fatti dagli insospettabili, per farli entrare nella dinamica del «nuovo clima». Le rivendicazioni dei gruppi locali devono far riferimento ad «un ciclostilato unico», utilizzare una fraseologia che rispecchi allo stesso tempo lo stile di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale ed essere firmate con nomi che richiamino personaggi del pantheon ideologico neofascista. Altro aspetto importante è quello
dell’attivazione di staffette per i collegamenti. Tra Roma e Milano, si dice, sono già stati avviati contatti. Non viene stabilita una ripartizione degli obiettivi tra le diverse realtà locali ma lasciata «autonomia» all’interno delle direttive prestabilite. La dirigenza precisa che non vuole «imboccare i gruppi», l’invito è quello di «usare la fantasia» nel procurarsi le armi e l’esplosivo (svuotare cartucce, rubare esplosivo nelle cave, sottrarre materiale alle caserme).
L’ampio discorso programmatico suscita «titubanze e perplessità» riguardanti soprattutto l’«operatività immediata» del secondo livello. Pur se esistente e pronto ad attivarsi, alcuni non lo ritengono adeguatamente preparato. Riguardo alle risorse finanziarie necessarie a dotarsi dei mezzi, invece, la raccomandazione è quella di evitare azioni delinquenziali. La direzione si dice d’altronde capace di assicurare l’assistenza ai detenuti e recuperare fondi attraverso «collette» di industriali simpatizzanti. A chi chiede se è prevista la promozione di attività come librerie o radio private viene risposto che il momento non è opportuno. In chiusura l’incarico è quello di riportare le direttive nel proprio ambiente, in attesa di una nuova riunione da tenersi a Roma <145.
Questa ricostruzione - da cui scaturisce vivida l’immagine della clandestinità - è stata tratteggiata undici anni dopo gli eventi dalla testimonianza del neofascista fiorentino Andrea Brogi, che l’ha suffragata accompagnando gli agenti nel luogo descritto. Come riporta un documento della Digos di Bologna redatto nell’ambito dell’inchiesta Italicus-bis, la riunione in Garfagnana è caratterizzata dalla «presenza di personaggi di grosso calibro provenienti da tutte le parti d’Italia». Sono però assenti i milanesi (che la Digos bolognese ipotizza essere impegnati negli attentati di fine gennaio a Silvi Marina e Milano) <146 ed i veneti, che - secondo quanto Brogi apprende nell’occasione - appartengono «ad un’altra parrocchia, con un altro santone» <147. Le confessioni di Brogi - da accogliere con il beneficio del dubbio - sono state considerate «sostanziate» da «fatti inequivocabili» <148 secondo il giudice fiorentino Rosario Minna, che insieme al collega di Bologna Leonardo Grassi le ha raccolte alla metà degli anni Ottanta. La testimonianza si è rivelata preziosa per delineare le tappe che - nella prima metà del ’74 - portano diversi giovani a intraprendere una forsennata progressione terroristica.
Andrea Brogi si apre in modo graduale alla collaborazione di giustizia; «trovando la dignità umana», scrive il giudice Minna, «di accusare in primo luogo sé stesso» <149. Non senza reticenze e timori per la sua incolumità, il neofascista fiorentino procede a rievocare «persone, avvenimenti e mesi» rimossi faticosamente dalla mente. Messo al bando ed aggredito per il suo dietrofront dall’ambiente nazional-rivoluzionario, Brogi viene inserito nella famigerata “lista degli infami” dal personaggio più temuto dell’eversione nera toscana: il geometra Mario Tuti <150, che nonostante l’ergastolo riesce a depennare alcuni nominativi di delatori, morti ammazzati <151.
La «grossa traccia di paura» è una cicatrice riscontrata dal giudice Minna nel «visibile tormento» dell’imputato <152 . Gli anni trascorsi lontano dall’ambiente politico, il carcere e il recupero degli affetti umani fanno però capire a Brogi - come si legge in una lettera manoscritta da lui indirizzata al magistrato - quanto di «insulso e illogico» ci fosse nelle sue scelte precedenti. È «l’aria pulita e limpida» del nuovo presente, spiega, che lo spinge verso la dissociazione e gli fa raccogliere la «mano tesa» più volte indirizzatagli <153.
Giovane attivista del Msi a Firenze, agli inizi degli anni Settanta Brogi svolge il militare nei paracadutisti a Pisa all’interno del plotone trasmissione. Addetto alla sala radio e alle telescriventi racconta di esser stato contattato, «come altri commilitoni della stessa fede politica», da un ufficiale dell’Ufficio “I” (Informazione) per lavorare nel controllo delle armerie e delle furerie, con il compito di scovare eventuali estremisti di sinistra <154. Finito il
servizio di leva nel settembre ’73, inizia a lavorare in una libreria, per la quale vende enciclopedie senza grande entusiasmo. Fin dai tempi della scuola il suo interesse è infatti assorbito dalla politica. Non dalle discussioni teoriche e dai dibattiti estenuanti ma dalla lotta aspra che si svolge in strada contro i “rossi”, che - supportati dalla sproporzione numerica - a Firenze non lasciano spazi di agibilità ai neofascisti. Pur caratterizzata da punte di
autoindulgenza, la testimonianza di Brogi sottolinea la ghettizzazione a cui sono sottoposti gli attivisti di destra in città, un’emarginazione che a suo avviso complica addirittura la ricerca del lavoro. Nonostante ciò è tra i fascisti che il giovane cerca la propria comunità ideale, vestendo la camicia grigioverde dei Volontari Nazionali, il servizio d’ordine del Msi. Ormai ventenne partecipa con gli amici del Fronte della Gioventù e di Ordine Nuovo a tafferugli e aggressioni davanti alle scuole e nelle manifestazioni, fino ad essere coinvolto nella devastazione del Centro di Ricerche Economiche e Sociali di Firenze. Le denunce e il breve arresto non gli impediscono di rimanere a piede libero, ma il suo nome finisce sui giornali ed entra nel mirino dell’antifascismo militante. L’attacco a bastonate subìto sotto casa, dove appaiono scritte sui muri a lui indirizzate e vengono tagliate le ruote all’auto del padre, gli fanno temere il momento di tornare a casa ogni sera. All’inizio del ’74, quando ha 22 anni, arriva così la decisione di cambiare aria <155. È il camerata aretino Augusto Cauchi, coetaneo e fresco di separazione dalla moglie, ad offrirgli la possibilità di un trasferimento ad Arezzo, nel casolare dove è alloggiato a Verniana di Monte San Savino. Con la sua fama di picchiatore Cauchi è conosciuto da Brogi in occasione dei volantinaggi per la campagna elettorale del Msi di Arezzo. In queste occasioni di attivismo politico i giovani neofascisti della regione si spostano sul territorio per partecipare ai comizi, con i più duri che fanno la scorta ai dirigenti. Trascinati dall’entusiasmo del cambio di vita, ad inizio ’74 i due fantasticano di aprire una cooperativa agricola ispirata al corporativismo fascista, per dare sostegno ai camerati.
[NOTE]
143 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori PM, Questura di Firenze, Andrea Brogi, int. del 31 gennaio 1985.
144 Ivi.
145 Ivi.
146 ASFI, Questura di Firenze, Gabinetto, versamento 1992, E3/E2, pezzo 1986/55 bis, Rapporto inviato da Questura di Bologna (Digos) a Ufficio Istruzione Tribunale Bologna il 30 giugno 1986, oggetto: Italicus-bis.
147 I nominativi dei presenti fatti da Andrea Brogi danno alla riunione un carattere che travalica l’ambito locale; vengono infatti segnalati militanti e dirigente provenienti, oltre che dalla Toscana, da Roma, Perugia, Bologna, Rieti, Brindisi, Torino, Sanremo, Rimini, Lanciano e Napoli. Nella testimonianza risalta la presenza di Adriano Tilgher (responsabile in Italia di Avanguardia Nazionale dopo la latitanza in Spagna del leader Stefano Delle Chiaie) e quella di Luciano Benardelli (elemento di spicco di Ordine Nero, gruppo clandestino che entrerà in azione nel marzo ’74); cfr. Questura di Firenze, int. di Andrea Brogi del 31 gennaio 1985.
148 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, Sent. n. 302/84 R.G.G.I. c/ Affatigato Marco + 63, pp. 50-54.
149 Ivi.
150 Insospettabile geometra del comune di Empoli, sale alla ribalta il 24 gennaio 1975 quando, scoperta la cellula eversiva Toscana, spara agli agenti durante la perquisizione seguita al mandato di cattura, uccidendone due e ferendo il terzo. La sua fuga in latitanza dura fino al 27 luglio ’75, quando viene arrestato in Costa Azzurra. In carcere diventa una figura di riferimento dell’estremismo di destra e si rende responsabile, il 13 aprile 1981, della morte di quello che al tempo è il principale sospettato per la strage di Piazza della Loggia, l’estremista di destra Ermanno Buzzi. Durante l’ora d’aria e insieme all’ex Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli, Tuti strangola il detenuto, in procinto di fare confessioni sulla strage. Condannato dal Tribunale di Arezzo per una serie di attentati ferroviari, Tuti è stato tra i principali imputati per la strage del treno Italicus (4/8/74) e per la tentata strage ferroviaria di Incisa Valdarno (12/4/75), in entrambi i casi è stato assolto dopo un lungo iter processuale.
151 Brogi fa esplicito riferimento a Mauro Mennucci, estremista di destra pisano che, una volta arrestato, collabora con la polizia per far catturare Mario Tuti e verrà ucciso in un agguato sotto casa l’8 luglio 1982.
152 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, Sent. n. 302/84 R.G.G.I., pp. 50-54.
153 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori PM, Questura di Firenze, Lettera manoscritta di Andrea Brogi al Giudice Rosario Minna del 15/1/1985.
154 CLD, Fondo Ammannato, Attentati ai treni in Toscana, vol. 1, interrogatori, Andrea Brogi, Trib.Bo, int. del 6/2/1986.
155 Ibidem, Trib.Bo, int. di Andrea Brogi del 9/1/1986
Alessio Ceccherini, La ragnatela nera. L’eversione di destra e la strage dell’Italicus (1973-1975), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno accademico 2021-2022


sabato 27 settembre 2025

I due poli del pluralismo democratico e del conflitto ideologico sono stati a lungo occupati dalla subcultura rossa e dalla subcultura bianca


“Certamente sono indubbie le responsabilità della Chiesa cattolica nel contrastare la nascita di una cultura politica capace di garantire un adeguato sostegno alle istituzioni democratiche e, in precedenza, alla costituzione di uno stato unitario. Tuttavia il giudizio riportato deforma con un eccesso di schematismo un quadro assai più complesso e differenziato. È una conclusione che peraltro contraddice una delle tesi più care all’autore, che considera l’efficienza delle istituzioni e lo spirito pubblico come benefiche eredità delle reti associative impiantate dai movimenti socialisti e cattolici nelle regioni centro-settentrionali al volgere del secolo scorso” (Cartocci, 1994, p. 31)
Se pure Democrazia cristiana e Pci hanno (ri)animato lo spirito e orientato gli umori dell’elettorato e delle famiglie (ivi, p. 117) per i primi cinquanta anni della Repubblica, di contro, fascismo e antifascismo non vanno sottovalutati per quanto e come hanno inciso nelle dinamiche dello stivale sin dall’epoca pre-repubblicana, e i cui echi sono tuttora udibili nel dibattito pubblico. Le conseguenze di questi fenomeni sociopolitici, insieme agli attori che li hanno cavalcati, possono sufficientemente giustificare la travagliata (r)esistenza democratica contemporanea, ma non integralmente: un’analisi, che si voglia intendere come accurata, non può trascurare altri processi che inderogabilmente hanno
scandito i ritmi del pendolo democratico, alimentato dal progetto di una sostanziale applicazione dei principi costituzionali - progetto il cui compimento, come tipicamente avviene in Italia per le “Grandi opere”, è definito sine die. L’impianto istituzionale rappresenta, a un tempo, l’epicentro in cui si consuma il conflitto ideologico insieme al dialogo democratico, e uno spazio controverso del sistema-paese - in quanto funzionari e garanti son coloro che più mal hanno indossato l’habitus affidatogli il 2 giugno 1946, disattendendo e mal reagendo alle sfide che gli si pararono dinnanzi da quel giorno. Qui e per ora, ci interessa sostanziare quell’aggettivo [controverso] riferito al sistema istituzionale repubblicano, tutto fuorché inavvertitamente o inconsapevolmente attribuito.
Ad esempio, controverso è stato il loro ruolo svolto negli anni di piombo: Questo periodo è stato caratterizzato da un tanto tragico quanto ambiguo terrorismo politico, le cui manifestazioni erano, da un lato, direttamente orientate a minare la stabilità delle istituzioni, ma dall’altro, a queste erano parassitariamente riconducibili evidenziando un’Italia occulta (cfr. Turone, 2018).
“Gli “anni di piombo” si caratterizzavano, come in nessun altro paese, per la compresenza e i conflitti tra gruppi di terroristi di sinistra e di destra. Il primo gruppo aveva lanciato l’assalto allo Stato imperialista delle multinazionali (SIM); il secondo si trovava, in buona misura, dentro lo stato, nei suoi apparati, godeva di qualche sostegno esplicito e implicito, anche internazionale, ne erodeva le capacità operative, mirava a indurire lo stato, se non addirittura a sovvertirlo, aveva come obbiettivo finale il ridimensionamento della sinistra italiana e, in particolare, del Partito comunista (e della CGIL) e una transizione autoritaria.” (Pasquino, 2021 p. 93)
La macchia nelle istituzioni - di quell’habitus precedentemente richiamato - si espande, tramutando da un colorito sanguigno ad uno rosso-fango: così dal terrore degli anni di piombo si passa al pantano morale degli anni di fango, espressione cara a Montanelli (cfr. 2001): le stragi mafiose e l’inchiesta “mani pulite”. Per quanto, anche discutibilmente, le mani siano state (ri)pulite, lo stesso non si può dire delle facciate dei palazzi e del simbolo cui erano tenuti a rappresentare, ma che tristemente hanno (dis)onorato.
“In termini impietosi veniamo posti di fronte ai limiti della nostra cultura politica: siamo il popolo che è meno soddisfatto della propria vita e, come abbiamo visto, del funzionamento della democrazia; e tutto questo, vale la pena sottolinearlo, emerge dai dati raccolti prima del 1988” (Cartocci, 1994, p.25)
In proposito, la desecretazione attuata dal premier italiano Draghi nel 2021 riguardo documenti sensibili inerenti all’organizzazione Gladio e alla loggia P2, punta un tenue fascio di luce sui legami occulti e sulle figure coinvolte, cercando di far chiarezza su controversie da risolvere necessariamente; come in un gioco a somma zero, questo parziale passo in avanti comporta un’accidentata complessificazione del passato sfortunatamente oscuro che ha caratterizzato la nostra esperienza nazionale. Apprese queste particolari vicissitudini, una pretesa condanna della mancata, se non limitata, realizzazione della polity - e quindi del progetto costituzionale - non legittima il biasimo, fine a sé stesso, di chi da quello spirito costitutivo doveva ispirarsi; lungi da un vittimismo deresponsabilizzante, la nostra società e il suo scudo liberale ha dovuto/deve fare i conti con eventi tanto poco auspicabili quanto, con buona probabilità, difficilmente fronteggiati da un qualsiasi altro stato. Detto ciò, risulta importante delineare gli effetti di questi eventi e le fratture socio-territoriali generatesi, la loro politicizzazione, interpretazione e radicalizzazione - quest’ultima la tendenza forse più influente e caratterizzante - all’interno della più generale cultura politica italiana. Quest’ultima sostanzialmente è vincolata da una doppia tenaglia che ne ostacola la concreta emancipazione, limitando le elaborazioni ideologiche e la prassi politica; questa propensione è condotta: “da una parte dal substrato più profondo di asocialità, costituito dal «familismo amorale» e dal «guicciardinismo», dall’altro lato dal persistere delle apparenze politico-ideologiche (la subcultura marxista e quella cattolica), di origine più ravvicinata nel tempo, e dalle loro proiezioni nel sistema partitico.” (ivi, p. 21)
Prima di definire i contenuti ideologici/ideali, animanti e caratterizzanti la democrazia italiana, e gli attori - imprenditori culturali annessi - che ne hanno interpretato la dialettica e i conflitti, è necessario, in questa sede almeno richiamare, i termini entro cui il pluralismo polarizzato (Sartori, 1982) si è sviluppato. Per procedere con la trattazione, è indispensabile considerare il ruolo socializzante svolto dalle istituzioni, strettamente legato con il senso civico instauratosi e differenziatosi a partire dall’esperienza comunale e repubblicana nel Centro-Nord, dalle dominazioni straniere e dagli stati regionali pre-risorgimentali che, per svariati secoli, hanno diversamente amministrato la Penisola. La cittadinanza, infatti, risulta pervasa dalla «rimozione nevrotica» (cfr. Tullio-Altan, 1986, in Cartocci, 1994) - una sorta di amnesia indotta - di una evidente arretratezza culturale che rimane ancorata a logiche stantie non compatibili con una democrazia matura; Bellah (cfr. 1974 in Cartocci, 1994) descrive il caso italiano come accompagnato da un «basso continuo» radicalizzato che copre la possibilità ad orientamenti innovativi e riformatori di emergere. La consapevolezza della presenza di un pluralismo polarizzato, a controllo del conflitto ideologico italiano fino agli anni Ottanta del secolo scorso, ci impone per giunta di analizzare gli effetti conseguenti allo scioglimento post-democratico della polarizzazione politica: “infatti a differenza del particolarismo familistico, queste appartenenze politico-ideologiche implicano pur sempre una dimensione collettiva, per quanto con un orizzonte più limitato, o alternativo, rispetto a quello della nazione.” (ivi, p. 50)
A questo scopo, risulta vitale l’analisi delle subculture politiche territoriali e la loro influenza nella costruzione delle rispettive identità, negli orientamenti di voto - complici in parte della piaga del voto di scambio e clientelare -, nel divario che su più fronti intacca la frattura tra Sud e Nord Italia, e nelle forme assunte dal capitale sociale con il particolarismo familista, il localismo ecc. Sul tema è offerta da Cartocci (ibidem) e Almagisti (2016) una corposa argomentazione dedicata a descrivere la democratizzazione del capitale sociale - osservandone la sua indispensabilità - coagulato attorno alle subculture bianca e rossa, ai movimenti sociali e aggregativi. Al centro della loro trattazione vengono poste le dimensioni dell’identità - individuale così come nazionale - e i modi coi quali essa si determina e si percepisce (“il sentirsi parte”), quindi la dimensione della cittadinanza; il focus è sull’intreccio di queste dimensioni con la «grande trasformazione» degli assetti politico-economici, emancipatisi dalla crisalide pazientemente costruita dal secondo dopoguerra. Abbiamo già evidenziato come il capitale sociale bridging - inclusivo e unitario - e bonding - escludente e divisorio - siano strettamente legati alle reti di associazionismo generate dai rituali e dalle simbologie istituzionali; tuttavia, questo aspetto formale-procedurale non è l’unico a favorirlo: la definizione di Farneti (cfr. 1971) chiarisce infatti l’apporto delle subculture politiche territoriali nello sviluppo del capitale sociale, intese come “[un] insieme di tradizioni e norme che regolano i rapporti tra gli individui e tra questi e lo stato, espresso anche in linguaggi politici. […] [Ma] la forza delle subculture deriva dal fatto di regolare un insieme di rapporti ben più vasto dei rapporti politici e, primo fra tutti il rapporto associativo, di solidarietà o di interesse. […] [Esse quindi sono] vere forme complesse di legittimazione dell’autorità politica”. (Farneti, 1971 p. 202-204 in Almagisti, 2016)
I due poli del pluralismo democratico e del conflitto ideologico sono stati a lungo occupati dalla subcultura rossa e dalla subcultura bianca e al loro declino corrispose la perdita di magnetismo dei poli stessi. La rilevanza di queste due realtà non è rinvenibile solamente nella capacità che hanno avuto di orientare il voto elettorale: infatti, attorno ad esse si sono strutturati veri propri stili di vita e pratiche sociali, tali da far viaggiare le due subculture su binari paralleli che mai sono riusciti ad intrecciarsi. Trigilia (cfr. 1981, p. 83) illustra come sia fondamentale il legame tra il territorio locale e l’organizzazione partitica, condizione fertile per lo sviluppo di un carattere essenziale quale “l’esistenza di una rete di associazionismo diffusa e orientata ideologicamente”. Considerando come le subculture abbiano assorbito, all’interno dei propri schemi interpretativi e orientamenti politici sedimentati, importanti fratture sociali sin dal processo di state building, lo sgretolamento del dualismo tra forza politica e identità territoriale - quel basso continuo per l’appunto prima richiamato - ha provocato un tale sgomento per cui la cultura politica è rimasta disorientata, tuttora faticando a riorganizzarsi.
“Il dato di fondo e di lungo periodo è costituito da una diffusa insoddisfazione nei riguardi della politica e del funzionamento delle istituzioni nazionali, soprattutto del parlamento e dei partiti, non solo i partiti degli altri, ma anche quello che gli elettori sceglievano di volta in volta in mancanza di meglio.” (Pasquino, 2021, p. 143)
Davide Agus, Nell’ideologia, percorsi nella prassi sociale e politica, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

domenica 14 settembre 2025

Tre missioni OSS in Valtellina: Sewanee, Santee e Spokane

Tirano (SO). Fonte: Wikipedia

Le operazioni O.S.S. [Office of Strategic Service] in Valtellina presero avvio il 3 marzo 1945 tramite tre gruppi di OG [Operational Group] che avevano come obbiettivo ultimo quello di rallentare le linee di rifornimento tedesche e creare confusione dietro le linee nemiche.
Il sito di lancio per i paracadutisti fu identificato nel Passo dello Stelvio, zona estramemente importante per le comunicazioni tra Italia e i territori tedeschi; la zona, tuttavia, era priva di una importante rete di resistenza. Per tale motivo e per comprendere la fattibilità delle missioni, inizialmente furono paracadutati pochi uomini. Tra questi vi furono il Capitano Victor Giannino, a capo della missione Santee, e il Maggiore Arnold Lorbeer, capo della missione Spokane.
Ritenuta l’aerea sicura, il 4 marzo vennero paracadutati gli agenti restanti per dar via alla missione Alleata. Gli stessi, purtroppo, vennero accolti da spari erroneamente attivati da parte dei partigiani locali, i quali ignoravano la presenza di una missione Alleata. In parallelo, l’OSS non era a conoscenza dell’esistenza di un gruppo partigiano in Livigno.
La missione Santee, il 10 marzo, giorno nel quale smise di nevicare, si diresse in zona di Fusino, dove si incontrò con un gruppo di partigiani. Nel dettaglio, si trattò di uno spostamento complicato in quanto avvenne in una zona dominata da numerose truppe nazi-fasciste che pattugliavano il passo del Foscagno, il quale, trovandosi a 2.300 metri sul livello del mare, costituiva l’univa strada percorribile tra Fusino e Livigno. Compito principale degli OG fu quello di istruire i partigiani locali in operazioni di imboscata e di attacco contro le forze nemiche. Il percorso fu supportato con diversi lanci di rifornimenti che si realizzarono il 4 marzo insieme agli OG mancanti, il 21 marzo, il 30 e il 31 marzo, il 4 aprile ed infine il 12 aprile. Tutti questi voli, nonostante le avverse condizioni atmosferiche (nevicate e venti fortissimi), vennero completati con successo.
Il penultimo giorno di marzo, per ottenere il controllo ed evitare la ritirata delle truppe tedesche, venne sviluppata con successo la prima incursione, indirizzata contro le installazioni militari lungo il Passo dello Stelvio.
Secondo la testimonianza del Maggiore Lorbeer al Convegno Internazionale di Studi Storici “Gli Americani e la Guerra di Liberazione in Italia”, il passo dello Stelvio era presieduto da circa 300 uomini nemici, mentre le truppe unite di OG e partigiani si limitavano a solo 50. Il successo fu ottenuto poiché nelle difficili condizioni atmosferiche le truppe tedesche non si aspettavano un attacco alleato. I combattimenti sullo Stelvio si protrassero fino alla fine della guerra, con le truppe naziste determinate a riconquistare, in qualunque modo, il medesimo passo. Tuttavia, il valico venne difeso con successo dagli Operational Group e dalla resistenza italiana, tramite l’utilizzo di fucili di precisione, mitragliatrici calibro 50 e mortai da 81 mm.
La notte del 13 aprile i tre reparti degli OG, in stretta cooperazione, colpirono le truppe nemiche a Venvio, San Martino e Roncale. Le unità erano composte da 12 membri degli OG e da circa 20-30 partigiani, permettendo così di sorprendere le forze dell’Asse. Tali attacchi furono svolti per evitare i rastrellamenti in programma nei giorni successivi, grazie alle informazioni ottenute dalla SI. Colti a sorpresa dall’attacco notturno, peraltro svolto in pessime condizioni metereologiche, le truppe nazi-fasciste subirono un totale di 50 perdite (30 morti e 20 feriti). I restanti riuscirono a ritirarsi, lasciando libere le postazioni in cima alle valli, permettendo così la loro conquista e il controllo da parte dei partigiani.
Nei giorni finali di aprile i gruppi partigiani combatterono anche in altre battaglie, tra le quali quella di Tirano dove riuscirono a far arrendere, il 29 aprile, insieme ad altri reparti Alleati, 1.200 truppe nemiche. In quegli stessi giorni la città di Bormio venne conquistata, dove vennero catturati 300 uomini tra italiani e tedeschi.
Nel corso dei due mesi di battaglie le tre missioni dell’Office of Strategic Service in Valtellina persero solo tre uomini: i Tenenti Anthony Rocco, Anthony Fantuzzo e il Sergente Bennie Ballone, morti il 13 aprile in un incedente aereo. Oltre a queste tre vittime, tutti gli agenti, fecero ritorno nella base di Siena il 22 maggio del 1945.
Matteo Paglia, Ex pluribus unum. Come l'Office of Strategic Service ha rivoluzionato il sistema d'intelligence statunitense, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2024-2025

Si compose [la missione Spokane dell'O.S.S.] di quattro lanci dall'inizio di marzo a metà dell'aprile 1945. Gli agenti paracadutisti, quasi tutti italo-americani, assommano a 14 (2 morirono in un incidente aereo nella fase di atterraggio il 13 aprile). La zona prescelta per le operazioni era a nord di Edolo, tra la Val Camonica e la Valtellina, importante per la vicinanza dei due paesi fortificati dello Stelvio e del Tonale. Le direttive erano di allacciare contatti con le locali formazioni partigiane, istruire e programmare azioni di sabotaggio sulle linee di comunicazione (per Lecco, Colico-Tirano, Lago d'Iseo, Edolo, Bolzano, Gargnano, Riva, Trento). Le altre direttive, del resto comuni ad ogni missione, riguardavano il mantenimento di contatti radio col Quartier Generale per informazioni militari (localizzazione di fortificazioni, ponti, depositi, ecc.), e il rapporto completo su ogni aspetto delle formazioni partigiane (entità, armamento, responsabili, nonché il "morale" e il "Political Views", la tendenza politica). Interessante è inoltre la direttiva di "prevenire attriti tra di esse". Le operazioni della "Spokane" riguardano, oltre alla trasmissione di informazioni militari, anche l'addestramento dei partigiani nell'uso di esplosivo nonché la partecipazione a sabotaggi e scontri a fuoco. Il 30 marzo, 7 uomini della missione alla testa di una cinquantina di partigiani delle "Fiamme Verdi" provocano con un'esplosione una frana che interrompe la strada da Tirano allo Stelvio. Contemporaneamente interrompono le linee telefoniche e telegrafiche e assaltano il piccolo presidio tedesco nei pressi del passo. Liberano i lavoratori coatti della Todt, che si trovano lì per i lavori di fortificazione del passo. Distruggono il materiale tedesco (in particolare 300 fusti di carburante). Il mattino del 31 arrivano truppe di rinforzo tedesche. Viene tentato uno scambio di prigionieri, che però si trasforma in uno scontro a fuoco, con morti e feriti da ambe le parti. I partigiani devono lasciare il passo, ma nel mese di aprile continuano azioni di disturbo, tra cui il minamento delle strade che causa l'esplosione di una decina di veicoli tedeschi. Il 26 aprile si arrende il presidio di Sondalo, il 28 Bormio. Vengono salvate, su precise istruzioni alleate, le centrali idroelettriche di Isolaccia, di Sondrio, Grosio e Cancano (appartenenti alla Falck, Edison, Società di Milano, Società Lombarda). Con orgoglio il Major Lorbeer, capo-missione, può scrivere che "la Valtellina è liberata 3 giorni prima della fine della guerra in Italia".
La missione "Spokane" si costituì come A.M.G. (Governo Militare Alleato) il 2 maggio.
[...] Missione "Horrible": francese. Nell'aprile giunge alla Spokane l'ordine del Quartier Generale di impedire l'entrata in Italia di missioni francesi. "Li abbiamo ricacciati in Svizzera".
Missione "Sewanee" dell'O.S.S., composta da 7 agenti tutti italo-americani, paracadutati presso Livigno il 13 aprile, in appoggio alla "Spokane". La zona di operazioni era pure a nord di Edolo. Collaborarono con la formazione "Tito Speri" delle "Fiamme Verdi", partecipando alla resa di Bormio (27 aprile). Altre missioni collegate con le "Fiamme Verdi" furono l'"Offense" e l'"Elinor", entrambe americane. A Ponte di Legno la Spokane ebbe una volta contatto anche con la "Norma" (cfr seguito). E' da citare infine la "Santee", paracadutata nei pressi di Livigno il 4 marzo, che ebbe un importante ruolo soprattutto nei contatti e nel coordinamento tra le missioni, i partigiani locali (riuniti a scadenze regolari con i comandi), il CLN e i servizi segreti in Svizzera. Ricevette la resa di Tirano.
Carlo Romeo, Missioni O.S.S. nella zona di operazioni della Prealpi: (1944-1945), «Archivio trentino di storia contemporanea» (ISSN: 1120-4184), 42/2 (1993)

Ultimo a destra il partigiano Cesare Marelli. Foto del soldato americano Joseph J. Genco. Fonte: Fondazione AEM cit. infra

La Resistenza in Valtellina ebbe aspetti molti particolari, spesso problematici anche solo per il fatto di attuarsi in zona di frontiera e per la presenza strategica nel territorio dei maggiori impianti idroelettrici del Nord Italia.
Molti dei luoghi di AEM in Alta Valle, rifugi e cantieri, divennero presto area di resistenza partigiana, come il paese provvisorio di Digapoli alla falde delle diga di San Giacomo in costruzione. Il 4 marzo 1945 fu paracadutata a Livigno la missione americana “Spokane”, formata da una cinquantina di ufficiali e militari, in appoggio alle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” che presidiavano parte dell’Alta Valle. Seguirono ad essa altre due missioni: la “Santee” e la “Sewanee” che contribuirono con uomini e mezzi a sostenere la lotta di Liberazione. Le comunicazioni tra Milano e la Valtellina avvenivano tramite le telescriventi AEM con messaggi cifrati trasmessi da e per Cancano, Milano, Grosio e Tirano.
Redazione, 1945. I partigiani Nicola Colturi, Giuseppe Tuana, “Alonzo” Placido Pozzi, Don Angelo Moltrasio e “Tom” Cesare Marelli, Fondazione AEM 

giovedì 4 settembre 2025

Ampio spazio alla presenza di Basile venne dato dalla stampa di sinistra


Il mese di maggio [1960] fu ugualmente caldo, sia dal punto di vista interno che internazionale. Gli sforzi verso la distensione di Eisenhower e Khruscev subirono un brusco arresto a causa della crisi innescata dall’abbattimento dell’aereo-spia americano U-2 nei cieli sovietici. Nonostante ad Ike fosse stato assicurato che, in caso di incidente, del pilota e del mezzo sarebbe rimasto poco o niente, le cose andarono diversamente. Non solo il pilota si salvò, ma venne prontamente catturato dai sovietici. A questo punto, il presidente americano autorizzò una vera e propria «menzogna ufficiale» annunciando che un apparecchio meteorologico era finito fuori rotta. Ma Khruscev non tardò ad esibire le foto dell’aereo e del pilota vivo e in ottima salute <100.
Le conseguenze della crisi furono pesanti. Ne risentì l’importante conferenza di Parigi, dove si discuteva del disarmo e del trattato di pace con la Germania. In tale contesto, il leader sovietico aveva buon gioco nel presentarsi davanti all’opinione pubblica mondiale come «vittima dei tranelli americani». In più, numerose furono le manifestazioni e le mobilitazioni contro “l’imperialismo americano” <101 soprattutto in Giappone, dove il parlamento stava dibattendo il rinnovo del trattato di mutua sicurezza e cooperazione con gli Usa. Circa diecimila giovani assaltarono la Dieta, il parlamento nipponico, e la lotta continuò nelle piazze. La polizia sparò e ci furono cinque morti e centinaia feriti <102. Intanto, Eisenhower dovette rinunciare alla tappa giapponese del suo viaggio asiatico. I fatti di Tokyo furono un chiaro esempio di come la lotta popolare diretta poteva scavalcare la maggioranza parlamentare <103.
In varie città italiane salirono la tensione e il nervosismo <104. I comizi missini nelle città di Reggio Emilia, Parma e Messina furono impediti <105. A Bologna, invece, era stato il discorso di Pajetta, pronunciato in piazza Malpighi il 21 maggio, a provocare l’intervento della polizia <106. Gli scontri durarono quaranta minuti provocando numerosi feriti, tra cui Giovanni Bottonelli, deputato del Pci, che riportò gravi ferite <107. L’episodio, secondo quanto annotava un funzionario del consolato [degli Stati Uniti], rifletteva ancora una volta la «prontezza comunista nello sfruttare gli scontri con le pubbliche autorità» <108. Era questo uno dei tratti maggiormente sottolineati dalle relazioni americane. In più, il giudizio sul partito era a dir poco lapidario. Il Pci non era più in grado di «cavalcare le agitazioni e la propaganda come faceva una volta». La sede dei disordini non poteva che dare credito all’intuizione. Dopotutto, si era trattato di uno scontro in una roccaforte del Pci dove un deputato comunista era stato arrestato e ferito. «Qualche anno fa - ha scritto il segretario d’ambasciata Lister - avremmo assistito a dimostrazioni di massa, scioperi e altre azioni contro il governo in tutta Italia» <109.
Altrettanto attivo era il partito neofascista, galvanizzato dall’appoggio esterno al governo. Il Msi aveva indetto il VI congresso nazionale a Genova, dal 2 al 4 luglio. In quell’occasione, avrebbe dovuto dichiarare fedeltà al metodo democratico e alla Costituzione, anche se la Carta non sarebbe stata accettata come documento intoccabile. Com’è noto, la scelta di Genova, peraltro conosciuta da tempo <110, fu un’opzione poco felice. Molti esponenti missini, negli anni successivi, avrebbero fatto autocritica sia sull’effettiva maturità del partito che sulla scelta della sede <111. A suscitare la protesta del fronte antifascista furono soprattutto due elementi. L’oltraggio di un congresso neofascista in una città medaglia d’oro della Resistenza e la presenza - più vociferata che accertata - dell’ex prefetto della città ai tempi di Salò, Carlo Emanuele Basile. Secondo alcuni avrebbe addirittura dovuto presiedere i lavori. Il nome di Basile bastava ad evocare lo spettro dei non lontani massacri di guerra, rendendo l’affronto missino insostenibile. Sulla scelta di Genova e sulle voci che riguardavano Basile, però, rimangono forti perplessità. Il 15 maggio, quando vennero resi noti i giorni e la sede del congresso le reazioni furono piuttosto blande <112. Genova, inoltre, non era la prima città fortemente legata alla Resistenza in cui il Msi convocava il suo raduno nazionale. Quattro anni prima la sede prescelta era stata Milano. In più, dal 1956, la giunta comunale della città ligure era appoggiata dai voti missini. Certamente Genova era «più contaminata dal Msi con il voto determinante del governo cittadino che con un congresso di tre giorni» <113.
In merito all’invito a Carlo Emanuele Basile, allo stato attuale delle ricerche, non esistono prove. Già iscritto nelle liste dei criminali di guerra, Basile fu protagonista di deportazioni e rastrellamenti, in stretta collaborazione con le autorità naziste. Secondo quanto riporta «L’Espresso», aveva organizzato deportazioni di operai ed era l’uomo più odiato di tutta la Liguria, tanto da essere soprannominato «il boia» <114. Ad ogni modo, gli organi di stampa di destra non avevano accennato alla sua partecipazione. Sul giornale missino, tra maggio e giugno, sono solo due gli articoli da lui firmati <115. Pagine che, per esplicito avvertimento del quotidiano, erano tutt’altro che «ufficiali», ma piuttosto un’iniziativa autonoma del giornale <116.
Nella sua ricostruzione di quegli anni, un esponente missino di primo piano come Gianni Roberti negava nel modo più assoluto sia la partecipazione di Basile che la sua nomina a presiedere il congresso. Oltre al fatto che fosse in quei giorni lontano da Genova - cosa in sé non molto rilevante - Roberti aggiungeva che non era neanche iscritto al Msi, notizia che si trova anche in un rapporto del console generale Joyce <117. Ciò non toglie che i missini non si erano preoccupati di smentire le voci sulla sua partecipazione. Un altro tassello utile a ricostruire la vicenda è l’elenco degli esponenti che effettivamente sarebbero andati a Genova. Dal 25 giugno al 2 luglio il quotidiano neofascista pubblicò nomi, foto e brevissime biografie dei delegati provenienti da tutta Italia. Il 30 compariva Basile. Si trattava però di Michele Basile, avvocato di Vibo Valentia <118. I ricordi di chi scorse l’elenco dei delegati,  probabilmente, si focalizzarono sul ben più famoso e sanguinario Carlo Emanuele. Il coinvolgimento dell’ex gerarca fascista impressionò gli americani per essere stato «un ottimo strumento nelle mani della macchina di propaganda comunista». Ampio spazio alla presenza di Basile venne dato dalla stampa di sinistra e dai frequenti comizi, dove la risposta della folla fu sempre calda. Basti pensare che «L’Unità» del 30 giugno si scagliava contro Basile, che avrebbe intitolato “Torneremo a Genova” un articolo su «Il Secolo d’Italia», alludendo ad una «rivincita sulla città che lo aveva cacciato» <119. Peccato che quell’articolo non sia mai stato scritto, né da Basile né da altri. L’associazione del criminale di guerra al congresso missino divenne prassi consolidata soprattutto dopo l’intervento di Pertini alla Camera, il 1° luglio <120. Questo alimentò le inquietudini degli Usa, che più di tutto temevano un irrigidimento delle posizioni e la polarizzazione del quadro politico.
[NOTE]
100 J. L. Gaddis, La guerra fredda, Mondadori, Milano, 2005, pp. 179-180. Sull’episodio dell’U-2 si veda M.R. Beschloss, Mayday. The U-2 Affair, Harper and Row, New York, 1986.
101 P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 361-362; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 294-295.
102 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., p. 285. Sui manifestanti si veda M. Del Bene, Appunti sulla vicenda del movimento studentesco giapponese, «Passato e Presente», n. 25, a. X, 1991. Per le valutazioni e i timori dei missini si veda I comunisti in Giappone tentano con la forza di rovesciare l’alleanza con il mondo occidentale, «Il Secolo d’Italia», 22 maggio 1960.
103 Da notare che Nenni e Togliatti approvarono le azioni dell’organizzazione Zenga-kuren, si vedano D. Yoshida, 5 milioni di operai giapponesi hanno scioperato contro le basi, «L’Unità», 5 giugno 1960; La nostra solidarietà al popolo giapponese, «L’Unità», 12 giugno 1960; Solidarietà del Pci col popolo giapponese, «L’Unità», 18 giugno 1960.
104 Sul generale inasprimento delle autorità pubbliche nei confronti dell’opposizione di sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., pp. 365-367.
105 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 138. Per le reazioni sulla stampa missina si veda Preordinate provocazioni dei socialcomunisti a Parma, «Il Secolo d’Italia», 1 maggio 1960.
106 A. Barbato, Da Bologna il primo squillo di tromba, «L’Espresso», 29 maggio 1960, p. 6. Si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 62.
107 Si veda G. Fanti, G.C. Ferri, Cronache dall’Emilia rossa: l’impossibile riformismo del Pci, Pendragon, Bologna, 2001, pp. 67-68.
108 Police breakup of Bologna communist meeting arouses strong reaction, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 30, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-3060.
109 Communists provoke incidents in Chamber June 1 over clash with police in Bologna, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, June 10, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-1060. Tuttavia, proprio in relazione ai fatti di Bologna, il parlamentare democristiano Elkan parlò di una grande quantità di armi detenute nelle case di alcuni arrestati o in luoghi vicini. Erano tutti esponenti del Pci e le armi facevano parte, secondo Elkan, di «oscuri e gravi ricordi di guerra civile», si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1° giugno 1960, p. 14423.
110 «L’autorizzazione era stata data da tempo, addirittura da Segni come ministro degli Interni del suo governo», si veda L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 105. La notizia del congresso apparve sul quotidiano neofascista a metà maggio, si veda In difesa dello Stato e della nazione insostituibile la funzione del Msi, «Il Secolo d’Italia», 15 maggio 1960. La mozione congressuale fu pubblicata, sempre sul quotidiano neofascista, il 3 giugno.
111 A. Baldoni, La destra in Italia, cit., p. 553; Servello ha scritto di un partito «completamente impreparato», della «sottovalutazione delle capacità di mobilitazione delle sinistre» e della «sopravvalutazione della capacità del governo Tambroni di gestire la situazione». I tempi, comunque, non erano ancora giudicati maturi, F. Servello, 60 anni in fiamma. Dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, pp. 63-68. Sull’autocritica di Almirante si veda A. Pitamitz (a cura di), Tre protagonisti 25 anni dopo, «Storia Illustrata», n. 337, dicembre 1985, p. 47. Particolarmente netto e amaro fu il giudizio di Anfuso, che nel 1962 arrivò a dire che il Msi avrebbe potuto anche sparire, se la Dc si fosse sforzata di comprendere le intenzioni del partito neofascista, A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 202. La questione delle intenzioni missine è peraltro molto dibattuta. Ne «Il Secolo d’Italia» del 30 giugno ’60 si legge «il Msi rappresenta dunque, e assume apertamente di voler rappresentare, la continuazione del Fascismo». Tarchi ha ricordato la «classica connotazione bicefala del Msi», alla luce della quale l’obiettivo ultimo restava la costruzione di «un regime destinato a richiamare - sia pure in forme che nessuno avrebbe saputo indicare con precisione - quello mussoliniano», M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Intervista di A. Carioti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 66
112 P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 39-41; F.M. Solo la Dc a Genova non protesta contro il congresso dei neofascisti, «L’Unità», 11 giugno 1960; Per le reazioni missine si veda La farsa rossa dell’indignazione popolare contro il Congresso nazionale del Msi a Genova, «Il Secolo d’Italia», 11 giugno 1960. Il console Joyce rimase colpito dalla durezza della campagna che poi iniziò. A tal proposito citò un manifesto con la scritta: «Msi uguale fascismo, fascismo uguale nazismo, nazismo uguale camere a gas», Growing opposition to planned Msi convention in Genoa, R. Joyce (American Consul General, Genoa) to the Department of State, June 27, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/6-2760.
113 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 287-288. Pombeni ha scritto che lo «scandalo» per il congresso a Genova «era credibile fino a un certo punto», P. Pombeni, L’eredità degli anni Sessanta, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 46. Secondo Cooke le difficoltà sul nascere del governo Tambroni si erano subito riversate a livello locale. Genova fu una delle prime città in cui i missini votarono contro importanti provvedimenti, provocando così la crisi della giunta, si veda P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 26-27.
114 A. Barbato, “Balilla l’ha impedito”, «L’Espresso», 10 luglio 1960; A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”, cit., p. 201; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo, cit., p. 179.
115 C.E. Basile, Una data ferma scolpita nel tempo, «Il Secolo d’Italia», 24 maggio 1960; C.E. Basile, C’è oggi un’Italia che vuol vivere dal ventre ma c’è anche un’Italia che guarda in alto, «Il Secolo d’Italia», 25 giugno 1960.
116 L’avviso relativo alle pagine non ufficiali dedicate al congresso è presente dal 14 giugno 1960.
117 «[Basile] era in tutt’altra località, nella sua abitazione sui laghi, non era neppure iscritto al Msi, e nessuno aveva pensato - né poteva pensare - di nominarlo Presidente del Congresso», G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia, cit., p. 140. Il fatto che Basile non fosse iscritto al Msi spiegherebbe la sua collaborazione così saltuaria al quotidiano. Per il resoconto di Joyce, secondo cui faceva parte di un «gruppo neofascista dissidente», si veda Communist-led rioters succeed in causing cancellation of national convention of neofascist Msi party in Genoa, R. Joyce (American Consul General) to the Department of State, July 11, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/7-1160.
118 Si veda I delegati delle federazioni d’Italia, «Il Secolo d’Italia», 30 giugno 1960. La presenza «innocua» di Michele Basile venne ricordata anche in una lettera del 2003 scritta da Francesco Ryllo (nel ’60 delegato provinciale missino di Catanzaro) al Corriere, si veda Verità storica. Il governo Tambroni, (lettere al direttore Paolo Mieli), «Corriere della Sera», 18 dicembre 2003.
119 Puntano di nuovo sui fascisti, «L’Unità», 30 giugno 1960.
120 AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 1 luglio 1960, pp. 15435-15439. Il fratello di Sandro Pertini venne deportato a causa di uno dei bandi emanati da Basile durante la Rsi. Il giorno seguente «Paese Sera» scriveva che il governo era «alleato e difensore del deportatore e fucilatore dei patrioti Carlo Emanuele Basile», si veda N. Antoni, Genova ha detto no al fascismo, «Paese Sera», 2 luglio 1960; si veda anche F. Monicelli, Genova insegna, «Paese Sera», 5 luglio 1960. La presenza di Basile è citata in numerosi siti web e lavori storiografici. Tra i tanti G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 166; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 347; P. Di Loreto, La difficile transizione, cit., p. 377; A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 191; L. Radi, Tambroni trent’anni dopo, cit., p. 106. Baldoni ha definito la presenza di Basile «una falsa notizia che esplode come un ordigno ad alto potenziale», A. Baldoni, Due volte Genova, cit., p. 71.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010

sabato 30 agosto 2025

Nell’ambito consumeristico si è avuta la prima introduzione di una azione di classe risarcitoria


2. Il dibattito dottrinale italiano dagli anni Settanta e l’elaborazione scientifica dell’azione collettiva e dell’azione di classe
Proprio durante gli anni 70’, la produzione convegnistica e scientifica ha focalizzato gran parte del suo interesse sulla ricerca di strumenti e rimedi per la tutela di questi “nuovi” interessi che emergevano dalla società. Vi era la consapevolezza, da un lato, di dover ragionare sul bene della vita da tutelare, a fronte di concetti, quali gli interessi collettivi e diffusi, tutt’altro che nitidi e condivisi, dall’altro lato, che il sistema della tutela giurisdizionale civile dell’epoca (e vedremo ancor oggi) non offrisse articolati strumenti di tutela dei fenomeni collettivi (14).
Si coglieva nel sistema della giustizia civile una netta impostazione fondata su rapporti bilaterali (o semmai plurilaterali ma con soggetti identificati o identificabili). Gli istituti processuali a maggior grado di inadeguatezza rispetto ai nuovi bisogni di tutela attenevano in particolare alla legittimazione ad agire (intesa appunto come affermazione di titolarità del rapporto dedotto in giudizio), alla disciplina delle garanzie processuali (sub specie di diritto al contraddittorio e diritto di difesa) ed al regime dei limiti oggettivi e soggettivi del giudicato civile, oltre alla funzione meramente risarcitoria delle misure sanzionatorie dell’illecito.
Proprio il principio-cardine di effettività della tutela giurisdizionale (15) e di accesso alla giustizia sia per il singolo cittadino, sia per la collettività, ma invero anche per colui che ha compiuto la condotta lesiva, hanno sollecitato le indagini scientifiche sui possibili strumenti di tutela collettiva in seno lato, attenzionando due diversi tipi di azione (16): l’azione di classe e l’azione collettiva.
Si noti bene che, seppur in molti casi si senta parlare in maniera indistinta di queste due azioni, queste sono radicalmente e concettualmente diverse, condividendo solo il minimo comune denominatore di essere utili per dare tutela in caso di condotte e violazioni pregiudizievoli per una massa di individui (17).
In sintesi (18), per azioni collettive sovente si intendeva riferirsi ad azioni i cui legittimati a promuoverle fossero associazioni nate e affermatesi come centri di imputazione di interessi collettivi appartenenti non solo agli associati ma ad una collettività più ampia.
L’azione di questi enti esponenziali tenderebbe ad ottenere tutela attraverso un provvedimento che accerta l’illegittimità del comportamento pregiudizievole all’interesse e ne richiederebbe, eventualmente, la cessazione. Con riferimento all’efficacia del giudicato, la dottrina si era orientata verso il riconoscimento dell’efficacia secundum eventum litis, a favore e non contro i singoli che appartengono alla collettività. Il processo sarebbe in ogni caso rimasto disciplinato dalle tradizionali regole del processo di cognizione: l’unica differenza risultava essere il legittimato attivo (l’ente esponenziale ovvero il singolo portatore dell’interesse collettivo) e lo scopo del processo stesso (chieder tutela non per un diritto/interesse proprio, bensì per un interesse collettivo).
Per contro, si era indagata la diversa figura dell’azione di classe, nata dall’esperienza degli Stati Uniti e poi esportata in diversi altri ordinamenti, come accaduto anche in Italia (19). Questa azione risultava proponibile dal singolo individuo (e come si vedrà nel prosieguo anche da enti esponenziali, che comunque agiranno nell’interesse del singolo titolare della posizione giuridica) che agirà nell’interesse suo e anche di una pluralità di soggetti che si trovano in una comune situazione giuridica bisognosa di tutela giurisdizionale. L’azione in tali casi sarebbe stata diretta a dare ristoro alle singole posizioni individuali lese e il provvedimento sarebbe stato solitamente quello di condanna.
Si è così delineata nella dottrina italiana una netta separazione dei due possibili sistemi di tutela collettiva: da un lato, quello che ha ad oggetto la tutela esclusiva dell’interesse sovraindividuale (sia esso collettivo o diffuso), e riconducibile alla figura dell’azione collettiva, dall’altro lato, quello che ha ad oggetto una serie di diritti individuali appartenenti ad una classe di individui e riconducibile alla figura dell’azione di classe (20).
3. L’evoluzione dell’ordinamento italiano sulla scia dell’elaborazione scientifica della distinzione tra azioni collettive e azioni di classe.
Da queste sintetiche ma doverose premesse, ora ci si può muovere per capire come dal dibattito dottrinale si sia arrivati a sviluppare nel nostro ordinamento alcune forme positive di tutela collettiva, sia essa collettiva in senso proprio, sia essa di classe.
Come a più riprese sottolineato, per quanto feconda la dottrina del tempo e per quanto una visione comparatistica evidenziava già (21) come l’esigenza e il sentir comune di nuove forme di tutela non fosse propria solo del nostro ordinamento, il Legislatore ha faticato molto prima di adeguare l’ordinamento a tali sollecitazioni, ed ancora oggi non si coglie un compiuto sistema di queste tutele. Alla spinta intellettuale, invero, è seguita una timida spinta positiva, mai incisiva se non in alcuni specifici settori. Alla stagione convegnistica dei primi anni Settanta dobbiamo ad esempio la spinta per l’introduzione del procedimento di repressione antisindacale previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (22) e per il procedimento per la tutela della parità di genere introdotto dall’art. 15 della l. n. 903 del 1977. Altro settore dove, seppur con qualche anno in ritardo, si è avuto un primo riconoscimento di tutela sovraindividuale è proprio quello dell’ambiente, in cui per la prima volta con l’art. 18 della l. n. 349/1986 è stato disciplinato il risarcimento del bene collettivo ambiente. Negli anni Novanta poi, sotto la spinta questa volta del legislatore europeo, sono state introdotte nel nostro ordinamento le tutele inibitorie consumeristiche: prima l’azione collettiva dell’art. 1469 sexies c.c., volta appunto ad inibire l’utilizzo di condizioni generali di contratto di cui sia accertata l’abusività e, in seguito, l’azione inibitoria generale a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, introdotta dalla l. n. 281/1998. Entrambe poi confluite nel d.lgs. n. 206 del 2005 (cd. Codice del consumo). Conseguentemente, sempre nell’ambito consumeristico, si è avuta la prima introduzione di una azione di classe risarcitoria, sulla falsa riga della disciplina della ben più nota e funzionale class action americana: con la legge finanziaria per l’anno 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244), il legislatore ha introdotto l’art. 140 bis c. cons, dedicato appunto alla prima forma di azione di classe risarcitoria (23). Tale norma però non ha mai visto la luce come diritto vigente a causa di continui rinvii (24) alla data di decorrenza della sua applicabilità. Solo con la l. 99/2009 (pubblicata nel supplemento ordinario n. 136 alla G.U del 31 luglio 2009, n. 176) l’art. 140 bis cod. cons, (riscritto proprio dalla su menzionata legge) ha finalmente trovato la luce (25). Con tale ultima introduzione, modificata con alcuni ritocchi dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, si è smesso, almeno a livello legislativo, di pensare all’introduzione di un diverso strumento generale, che potesse dare ristoro ad una classe di soggetti titolari di un diritto leso da una condotta plurisoggettiva, preferendo dunque la via di azioni tipiche e specifiche in singoli settori. 
La scelta di fondo comunque risultava abbastanza chiara: delineare un’azione di classe modellata (con diverse rilevanti differenze) sul modello nordamericano, mettendo quindi da parte, almeno per la tutela risarcitoria, il modello dell’azione collettiva (26).
Seppur la rivoluzione consumeristica fosse in concreto un deciso passo in avanti verso la “rivoluzione” della tutela sovraindividuale nel nostro Paese, non si è mai smesso di sperare nell’introduzione di uno strumento sovraindividuale slegato da uno specifico settore dell’ordinamento. Il sentimento di inadeguatezza del solo art. 140-bis c.p.c. ha spinto il legislatore a ripensare all’azione di classe e, quasi d’improvviso (27), ad approvare la l. n. 31/2019 recante la nuova disciplina dell’azione di classe risarcitoria.
La riforma così approvata ha pertanto dotato il nostro ordinamento di una tutela di classe risarcitoria generale, slegata da un singolo settore e orientata alla tutela di qualsivoglia diritto individuale leso, che appartenga ad una classe di soggetti. L’azione di classe entra così nel codice di procedura civile e il parallelismo con l’azione nordamericana (28), seppur sussistono ancora molte differenze, diventa sempre più marcato. Successivamente, il legislatore italiano, sotto la spinta del legislatore europeo, ha dovuto adeguarsi anche all’implementazione della direttiva 2020/1828/UE avente ad oggetto la disciplina delle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, introducendo dunque, nella Parte V (“Associazioni dei consumatori e accesso alla giustizia”) del codice del consumo, un nuovo Titolo II.1 (“Azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori”: artt. 140-ter c.p.c. 140-quaterdecies), recante le disposizioni volte a dare per l’appunto attuazione alla direttiva europea.
Ad oggi, pertanto, il nostro ordinamento prevede due forme di tutela risarcitoria di classe, una di carattere generale contenuta nel codice di rito, l’altra prevista per il solo settore consumeristico inserita nel codice del consumo.
Ebbene, l’oggetto della ricerca qui condotta si incentra sull’attuale azione di classe introdotta nel nostro ordinamento con la l. n. 31/2019, azione che, come si avrà modo di vedere, ha ad oggetto dei diritti omogenei cd. seriali. Seppur, in concreto, l’azione di classe sia utile e assolva ad un fondamentale bisogno collettivo, è vero anche che formalmente, oggetto dell’azione non è né un interesse collettivo, né un interesse diffuso, bensì solo la posizione soggettiva individuale, omogenea tra la classe.
Di interesse diffuso e collettivo, si avrà in ogni modo, occasione di parlare durante l’analisi dell’evoluzione della disciplina ambientale e climatica. In modo particolare, proprio i primi dibattiti su questi concetti hanno modificato la stessa nozione di “natura” e, ancora ad oggi, orientano le soluzioni che man mano si prospettano sul piano del diritto positivo più funzionali.
[NOTE]
14 G. COSTANTINO, Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti al giudice civile, in Diritto e Giurisprudenza, 1974, p. 817 e ss.
15 F. CARPI, Note sull’accesso alla giustizia, in Riv. trim. proc. civ., 2016, p. 835, il quale esordisce citando il discorso di Joseph Weiler, tenuto al congresso internazionale di Bologna del settembre 1988, in cui lo stesso ha sottolineato come l’affermazione dei Bill of Rights è cosa ben diversa da giurisdizione effettiva. A livello teorico i diritti fondamentali sono ora riconosciuti in tutte le costituzioni moderne e in trattati e principi sovranazionali, ma a livello concreto non è sempre così.
16 In dottrina, sebbene con differenti accentuazioni, cfr. M. CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, cit., p. 199 ss.; V. DENTI, Relazione introduttiva, cit., p. 15 ss.; G. COSTANTINO, Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti al giudice civile, cit., p. 223; L. ZANUTTIGH, Intervento, cit., p. 310. Cfr. ancora A. CORASANITI, La tutela degli interessi diffusi davanti il giudice ordinario, cit., p. 181; V. VIGORITI, Interessi collettivi e processo, cit., p. 15, ed in particolare, sui limiti delle tradizionali configurazioni della nozione di legittimazione ad agire p. 65 ss.; G. ALPA, Interessi diffusi, cit., p. 611; V. DENTI, La giustizia civile, Bologna, 2004 p. 113, che evidenzia come il nostro ordinamento civile (i codici civile e procedura civile ne sono un esempio) abbia come punto di riferimento i rapporti soggettivi interprivati, bilaterali o plurilaterali, che fanno capo alle situazioni giuridiche tradizionali, quali ad esempio i diritti reali e i diritti di obbligazione. Ciò emerge chiaramente sia dalle norme che disciplinano la instaurazione del contraddittorio (artt. 101 e 102 c.p.c.), sia dalle norme che regolano i limiti soggettivi della cosa giudicata (art. 2909 c.c.). Più di recente, cfr. A. CARRATTA, Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 109; P. RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale della «class action» ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss.; S. MENCHINI, Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive ricostruttive, in www.judicium.it.
17 S. CHIARLONI, Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2007, p. 568.
18 In dottrina per il concetto di azione collettiva si vedano le riflessioni V. DENTI, Interessi diffusi, cit., p. 312, secondo l’Autore l’azione collettiva in senso proprio sarebbe quella idonea a far emergere la dimensione collettiva della controversia, specie al fine di estendere la cognizione del giudice alle reali dimensioni della causa. L’Autore prosegue poi sottolineando che l’uso dell’espressione in esame, invalso nella prassi, si riferisca prevalentemente alle azioni promosse da gruppi o associazioni a tutela degli interessi collettivi in senso proprio, ma il suo utilizzo può essere esteso anche alla tutela degli interessi propriamente diffusi. La scelta lessicale “azione collettiva” dovrebbe, dunque, caratterizzare le azioni promosse da parte degli enti esponenziali relativamente a qualunque tipo di interesse sovraindividuale. Ed in particolare dovrebbe essere preferito a diverse formule viceversa privilegiate all’estero, tra cui, la formula delle “azioni pubbliche” e delle “azioni di classe”, utilizzabili in sistemi, come quello nord-americano. Denti precisa, inoltre, che l’azione a tutela di interessi diffusi è azione collettiva anche quando è fatta valere del singolo portatore dell’interesse, e non soltanto quando è promossa dal gruppo o dall’associazione. Con il termine “azione collettiva” si intende riferirsi non l’aspetto soggettivo, bensì l’aspetto oggettivo della domanda di tutela. Cfr. le osservazioni di M. CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, cit., p. 202. Diversamente da quanto sostenuto da Denti, la dottrina più recente ha sovente inteso riferirsi all’“azione collettiva” come all’azione assegnata di volta in volta dal legislatore alle associazioni legittimate, dando, dunque, l’apparenza di una concezione fondamentalmente soggettiva della stessa (ovvero intenzionata unicamente a rilevare l’attribuzione del potere di azione ad un soggetto collettivo) ma al contrario, nella sostanza, celando una concezione di detta azione tutta fondata sulla distinzione ontologica dell’interesse collettivo rispetto l’interesse individuale. Cfr., ad esempio, B. CAPPONI, Diritto comunitario e azioni di interesse collettivo dei consumatori, in Foro it., 1994, IV, p. 439 ss., spec. p. 449, il quale sottolinea come l’azione collettiva non può certo essere confusa con la class action del diritto nordamericano: in quest’ultimo sistema, il soggetto che il giudice riconosce legittimato ad agire dà impulso ad un procedimento destinato a produrre effetti per l’intera classe, senza che abbia rilevanza concreta la distinzione tra interesse “individuale” e interesse “collettivo”. Il differente sistema dell’azione collettiva nasce invece proprio dalla distinzione tra interesse individuale del singolo (che può coincidere, ma non necessariamente coincide, con quello della collettività) e interesse collettivo (o diffuso, superindividuale, ecc.) del gruppo organizzato».
19 Si badi bene che anche in questo caso la scelta linguistica è voluta. In molti preferiscono l’uso del termine inglese class action anche per definire lo strumento italiano, ritengo però che l’uso non sia corretto in quanto richiama necessariamente l’esperienza americana della Rule 23 del Federal Rules of Civil Procedure, assai distante dalla disciplina nazionale (precedente e moderna) italiana. Di medesimo avviso G. ALPA, L’art. 140-bis del codice del consumo nella prospettiva del diritto privato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, p. 380, in cui l’A. definisce appunto l’uso del termine class action una “mera convenzione linguistica”.
20 Si esprime in termini parzialmente diversi sulla differenza tra questi rimedi R. DONZELLI, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 422, nt. 26, secondo il quale “l’impostazione ora indicata [l’A. fa qui riferimento alla distinzione individuata da Chiarloni e sintetizzata nel testo], infatti, tende nella sostanza a coincidere con la distinzione-contrapposizione tra damages class action statunitense e azione collettiva inibitoria associativa, ovvero con due tipologie di giudizio puntualmente connotate sul piano positivo in riferimento ad uno specifico regime di legittimazione ad agire e di efficacia della sentenza. A parer nostro, invece, occorre valorizzare gli elementi funzionali e strutturali essenziali, che indicano chiaramente la differenza che intercorre tra giudizio collettivo proprio, nel quale la tutela è volta al soddisfacimento di interessi individuali concorrenti mediante l’accertamento di un unico effetto giuridico, e giudizio collettivo improprio, nel quale la tutela è volta al soddisfacimento di interessi individuali esclusivi mediante l’accertamento di più e diversi effetti giuridici sostanziali”. Non è mancato chi invece ha usato il termine “azione collettiva” intendendola come situazione di vantaggio avente ad oggetto un provvedimento sul merito, da parte del giudice di cognizione, di portata superindividuale, sia che il provvedimento abbia ad oggetto situazioni di vantaggio a loro volta di portata superindividuale (interessi collettivi o diffusi), sia che esso abbia ad oggetto una pluralità di situazioni di vantaggio individuali e necessariamente omogenee. Cfr. A. GIUSSANI, Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, Bologna, 2008, p. 16, il quale focalizza l’attenzione del suo lavoro sulla questione fondamentale inerente all’accesso a un’utilità giuridica non escludibile da parte più soggetti.
21 Il fenomeno collettivo nelle altre giurisdizioni ha avuto il suo massimo sviluppo solo dall’inizio degli anni 2000, solo da quegli anni nelle giurisdizioni sia di civil law sia di common law sono proliferate nuovi strumenti processuali che consentono a un gran numero di persone di unirsi per ottenere rimedi ai danni subiti. Solo poche giurisdizioni hanno adottato statuti sull’azione di classe rappresentativa prima degli anni 2000. Ne sono un esempio gli Stati Uniti che hanno adottato la moderna norma sulla class action nel 1966. Anche l’Australia la quale ha introdotto la prima forma di class action a partire dal 1992. E ancora il Québec che ha introdotto la sua forma di azione di classe nel 1978 e l’Ontario e la Colombia britannica che invece si sono dotate di strumenti di tutela collettiva ad inizio anni '90. Per una ricostruzione storica del fenomeno si veda D. R. HENSLER, The Global Expansion of Class Actions: Power, Politics and Procedural Evolution, in The Cambridge Handbook of Class Actions, An International Survey, B. T. Fitzpatrick and R. S. Thomas (edited by), 2021, p. XVIII.
22 L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori prevede infatti una prima forma di strumento collettivo, disciplinando il potere delle associazioni sindacali di agire nei confronti del datore di lavoro reo di aver posto in essere condotte dirette ad impedire o limitare l’esercizio della libera attività sindacale nonché il diritto di sciopero. Si veda sul punto M. TARUFFO, La repressione della condotta antisindacale nel nuovo rito del lavoro, in Giur. it., 1976, p. 9 e ss.; cfr. per ulteriori indicazioni sull’argomento A. PROTO PISANI, Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale, in Foro it., 1973, p. 57 e ss.; E. GARBAGNATI, Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, in Riv. dir. proc., 1973, p. 619 e ss.; T. TREU, Attività antisindacale e interessi collettivi, in Pol. Dir., 1971, p. 565 e ss.; U. ROMAGNOLI, Aspetti processuali dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, p. 1309 e ss. L. LANFRANCHI, Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello statuto dei lavoratori, Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, p. 393 e ss.
23 Prima dell’entrata in vigore del codice del consumo e della susseguente legge finanziaria del 2008, vi furono alcuni progetti di legge durante la XIV legislatura che iniziavano ad abbozzare una prima forma di tutela collettiva risarcitoria (per la precisione le proposte nn. 3838 e 3839 del 27 marzo 2003, confluite in un testo unificato, approvato dalla Camera il 21 luglio 2004, ma bloccato poi al Senato). A seguito di questi primi tentativi.
24 L’iniziale periodo di vacatio, previsto dal comma 447, venne più volte prolungato: prima l’art. 36 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 stabilì che “al fine di individuare e coordinare specifici strumenti di tutela risarcitoria collettiva, anche in forma specifica nei confronti delle pubbliche amministrazioni, all’articolo 2 comma 447, della legge 4 dicembre 2007, n. 244 le parole ‘decorsi centoottanta giorni’ sono sostituiti dalle seguenti: ‘decorso un anno’”. Poi l’art. 19 d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14, estese ulteriormente il termine a diciotto mesi. Infine, l’art. 23, comma 16, d.l. 1 luglio 2009, n. 78 convertito con modificazioni in legge 3 agosto 2009, n. 102, lo ampliò a ventiquattro mesi. Si è passati dunque da luglio 2008, a gennaio 2009, a luglio 2009 e infine a gennaio 2010.
25 L’art. 140 bis c. cons. è entrato in vigore il 1 gennaio 2010, solo da tale data dunque l’ordinamento italiano si è dotato di una forma di azione di classe.
26 A. D. DE SANTIS, La genesi della nuova tutela giurisdizionale collettiva, in Class action ed azione collettiva inibitoria, cit., p. 4 e ss.
27 In realtà il testo normativo della l. 31 del 2019 consegue ad una proposta di legge presentata già nel 2013 alla Camera, approvata dalla stessa nel 2015 e infine arenata in Senato nella XVII legislatura. L’approvazione repentina della legge sia al Senato che alla Camera discende dallo stesso timore che, ancora una volta, l’iter parlamentare potesse bloccare l’iniziativa. Cfr. C. CONSOLO, Sub art. 840-bis c.p.c., in Codice di procedura civile commentario, C. Consolo (diretto da), Milano, 2019, p. 5.
28 La class action nordamericana è strumento processuale di carattere generale, non finalizzato alla tutela di alcuna particolare situazione sostanziale, bensì utilizzabile per la tutela dei diritti più diversi e nei settori più vari del diritto. Cfr. N. TROCKER, La class action negli stati uniti: lo stato dell’arte, in Riv. dir. proc., 2020, p. 755.
Riccardo Aquilini, Il ruolo dell'azione di classe nel sistema di tutela dell'ambiente e del clima, Tesi di dottorato, Università Cattolica del Scaro Cuore - Sede di Milano, Anno Accademico 2023-2024