domenica 17 novembre 2024

La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse


Gianni Cervetti riporta le riflessioni raccolte tra gli operai registrando problemi di orientamento rispetto al rapporto con la violenza e con le forze dell’ordine: "A Bologna, parlando con i compagni e con molte persone presenti alla manifestazione promossa in risposta agli scontri dell’11 marzo, erano evidenti incertezze e dubbi tra gli operai e nelle organizzazioni sindacali. L’atteggiamento poi da assumere nei confronti della polizia e del suo operato era quasi una cartina di tornasole: ci si chiedeva se la polizia deve essere considerata un organo e uno strumento dello Stato democratico o addirittura un nemico da battere, magari non con la violenza, ma con la denuncia della sua estraneità allo Stato democratico" <926. Queste riflessioni ancora presenti all’interno della classe operaia danno in qualche modo la stura delle difficoltà del Pci e della Cgil nel far digerire alla propria base la nuova strategia politica di collaborazione inaugurata dopo le elezioni del 1976. Gli interrogativi espressi sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle forze dell’ordine sono indicative anche della concezione e del retaggio culturale della classe operaia.
L’intervento conclusivo è tenuto da Giorgio Napolitano che esprime le posizioni della segreteria: "La nostra Repubblica va difesa contro chiunque l’attacca e la insidia ed in questa difesa non ci devono essere esitazioni, anche quando la minaccia viene da movimenti e gruppi che si autodefiniscono proletari, rivoluzionari, di ultrasinistra e che però, in sostanza, mirano a colpire ed a travolgere le istituzioni democratiche e che ormai proclamano d’altronde apertamente come loro nemico fondamentale lo schieramento operaio e il Pci" <927.
La risposta del Pci al partito armato passa quindi attraverso l’organizzazione delle masse e l’individuazione precisa dei gruppi violenti isolandoli e contrastandoli. L’obiettivo diventa quello di dividere le diverse formazioni estremiste, aprendo al loro interno delle contraddizioni e provando a recuperarne una parte. Per rispondere alla strategia degli attacchi autonomi contro il Pci nelle scuole e nelle università, il partito decide di costruire un movimento giovanile unitario basato su grandi temi politici come il rifiuto della violenza e dell’intolleranza, l’alleanza tra giovani e movimento operaio.
PCI e CGIL di fronte alla violenza diffusa
In queste concitate settimane Torino è al centro dell’opinione pubblica. La città si prepara al primo processo contro i capi storici delle Br che rifiutano di difendersi. I brigatisti minacciano apertamente gli avvocati che accetteranno il mandato d’ufficio accusandoli di collaborazionismo. Il 4 aprile intanto il tribunale di Bologna respinge le istanze presentate dall’Ordine degli avvocati torinesi, in quanto le minacce subite dai difensori non vengono ritenute gravi, né credibili e quindi non perseguibili. Ma non si tratta di semplici minacce verbali. Nel giro di una settimana si susseguono infatti episodi delittuosi. Il 20 aprile un commando composto da 3 persone spara numerosi colpi di pistola contro Dante Notaristefano, ex segretario della Dc torinese, ma la mira è sbagliata e il dirigente democristiano è illeso <928. Il 22 aprile Antonio Munari, capo officina della Fiat viene invece colpito alle gambe a poche centinaia di metri dalla Fiat Mirafiori. Entrambi gli attentati vengono rivendicati dalle Brigate rosse <929. Ma non è finita. Il 28 aprile, un altro truce e simbolico delitto scuote la città di Torino. Le Br uccidono, nell’androne del suo studio, il presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi Fulvio Croce. Cinque colpi pistola alla testa e al torace spezzano la vita di un uomo la cui colpa è quella di aver designato i difensori d’ufficio dei brigatisti al processo fissato per il 3 maggio <930. La notizia del delitto sconvolge l’intera città e irrompe durante la seduta del Consiglio regionale. Il Presidente Dino Sanlorenzo interrompe i lavori esprimendo durissime parole di condanna: "Esprimiamo la più forte condanna nei confronti di questo nuovo episodio di terrorismo politico nella lunga serie di attentati che hanno colpito Torino. Dall’uccisione del brigadiere Ciotta fino agli attentati contro le sedi di partiti e associazioni, all’aggressione al capo-officina della Fiat e all’esponente democristiano Notaristefano, ben trenta sono gli episodi criminosi avvenuti solo nell’ultimo mese a Torino e in Piemonte. Tutto ciò indica che Torino sta diventando il nuovo epicentro di una forma di terrorismo estremamente pericoloso e preoccupante per la particolare odiosità e vigliaccheria che la contraddistinguono. Essa si rivolge contro i cittadini che altra colpa non hanno se non quella di rivestire cariche pubbliche o di svolgere determinate funzioni" <931. Le forze politiche si appellano alla cittadinanza affinché non si lasci intimorire e chiedono a chi venga chiamato di assolvere con senso civico alle funzione di giudice popolare. Ma la paura di una rappresaglia da parte delle Br è altissima e nei giorni successivi sulla scrivania di Guido Barbaro, presidente della Corte d’Assise, si accumulano pile di certificati medici che chiedono l’esonero per sindrome depressiva. Per il giudice istruttore Gian Carlo Caselli è “la traduzione in termini clinici della paura” <932. A causa dell’impossibilità di comporre il collegio la Corte è costretta a rinviare a tempo indeterminato il processo, mentre la magistratura tenta di dare una risposta compatta al delitto. Il Consiglio superiore della magistratura chiede esplicitamente al governo l’assunzione di un decreto legge sospensivo della custodia cautelare in casi di terrorismo in cui si legge: "I termini massimi della custodia preventiva sono sospesi in caso di impossibilità di regolare svolgimento del giudizio e, nei procedimenti avanti la Corte d’assise, anche in caso di impossibilità di formazione del collegio, sempre che tali impossibilità derivino da fatti di eccezionale gravità ovvero da comportamento dell’imputato o del difensore tendente ad impedire lo svolgimento del giudizio" <933.
La questione relativa all’accettazione o meno delle funzioni di giudice popolare è al centro di un’aspra polemica tra alcuni importanti intellettuali e il Pci. Eugenio Montale, ad esempio, intervistato da «Il Corriere della Sera» risponde: "Se fosse stato estratto il mio nome non credo avrei accettato. Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose, ma non metafisica, né sostanziale" <934.
Alessandro Galante Garrone, magistrato ed ex comandante partigiano, risponde all’intervista di Montale scrivendo di non essere convinto dal catastrofismo del poeta: “la Repubblica non è in agonia e non è irrimediabilmente sconfitta perché attorno ad essa si stringe la grandissima maggioranza degli italiani” <935. Al fianco di Galante Garrone si schiera Italo Calvino sostenendo che “lo Stato consiste soprattutto di cittadini democratici che non si arrendono” <936.
Norberto Bobbio dal canto suo scrive che la ragione lo spinge a ritenere impossibile che la fine della Repubblica possa essere evitata: "Le Br sono riuscite a impedire lo svolgimento del processo di Torino perché si sono dimostrate, rispetto al potere deterrente, che è o dovrebbe essere l’estrema risorsa dello Stato, più credibile dello Stato stesso" <937. Il filosofo prende le distanze dai «fanatici» che vogliono la catastrofe e dai «fatui» che pensano che alla fine tutto si sarebbe accomodato. Ma il pessimismo, è secondo Bobbio un dovere civile perché solo il pessimismo radicale della ragione avrebbe potuto ridestare «qualche fremito» in coloro che non si stavano accorgendo di quanto stava avvenendo. Giorgio Amendola risponde accusando Bobbio di avere una concezione aristocratica della lotta politica. Scrive il dirigente comunista: "Nel paese si manifestano ben più che i fremiti evocati da Bobbio e ogni giorno contro il terrorismo emerge il coraggio politico di chi vuole salvaguardare le conquiste della Resistenza. Preannunciare una sconfitta sicura quando la battaglia è ancora in corso significa, a mio parere, non essere pessimisti, ma semplicemente disfattisti. […] non è il momento di fuggire o di capitolare di fronte al terrorismo. È il momento della più ferma intransigenza per respingere con coraggio il ricatto della violenza. Purtroppo il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana" <938. Anche il giudizio di Giorgio Bocca è molto duro: "A Torino le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura" <939.
Il governo dal canto suo reagisce inasprendo le misure di polizia <940 nel momento stesso in cui risponde negativamente alla richiesta degli agenti di costituire un sindacato all’interno delle tre Confederazioni dopo che migliaia di assemblee hanno deciso le tappe per la nascita dell’organizzazione <941. Netta la presa di posizione in questo senso del commissario Ennio Di Francesco del Coordinamento per il sindacato di polizia che ribadisce la necessità democratica della costituzione di un sindacato libero per gli agenti: "Sindacato di polizia, breve parola che è sintesi sociale di anni di lotte. Come tutti i movimenti di pensiero in termini di riscatto della dignità umana e di democrazia anche questo è passato attraverso inevitabili tappe di dura repressioni, di sottili lusinghe.[…] Ma tutto questo non sarebbe valso a nulla o peggio, in cilena disciplina, non potremmo neppure parlarne oggi se non si fosse realizzata quella sensibilizzazione di voi tutti lavoratori accanto al problema del sindacato di polizia. Così sia pure attraverso momenti di iniziale diffidenza ci siamo incontrati, lavoratori tra i lavoratori, nelle fabbriche, nei quartieri. […] in questo quadro di crescita democratica i poliziotti intendono dire no alla loro utilizzazione quale braccio secolare del potere, da utilizzare nei conflitti sociali, dalla cui comprensione è stato sinora tenuto gelosamente lontano nella gabbia del corpo separato, dà il senso più profondo del perché del sindacato di polizia" <942.
Il sangue è oramai una costante nelle piazze italiane e a Roma conosce in quei mesi di aprile e maggio una nuova fiammata. Il 21 aprile la polizia interviene all’università occupata da alcuni giorni. Gruppi di autonomi sparano e uccidono l’agente Settimio Passamonti <943. Nella notte, accanto alla chiazza di sangue viene lasciato un truce e orrendo messaggio: «qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è «vendicato». È una spirale di odio ormai irreversibile.
[...] Il 20 maggio è Massimo D’Alema a intervenire su «Rinascita» per spingere i gruppi extraparlamentari a prendere le distanze dagli autonomi: "Non è più possibile sostenere che, stando a fianco a chi è armato con una P38, non è facile rendersi conto se si tratta di un autonomo o di un agente provocatore. Finalmente si comincia a sgomberare il campo da stupidaggini irresponsabili tipo compagni che sbagliano o da fumose giustificazioni sociologiche della violenza. […] la posizione diffusa in molti gruppi e militanti della sinistra di non sentire la democrazia, questa democrazia italiana, come cosa propria, ha radici profonde nel rifiuto di ogni democrazia organizzata. […] gli autonomi sono una banda squadristica dai torbidi collegamenti e vanno combattuti e isolati" <950.
Nel stesso tempo le Br allargano il campo dello scontro contro lo Stato lanciando una campagna di azioni contro la stampa e colpendo quei giornalisti che a loro giudizio hanno contribuito a dare una visione fuorviante e mistificatoria del brigatismo. Il primo giornalista a essere colpito in tale ottica è il vicedirettore de «Il Secolo XIX» di Genova, Vittorio Bruno, ferito alle gambe il 1° giugno 1977. Il giorno dopo è la volta del direttore de «Il Giornale» Indro Montanelli, mentre il 3 giugno a Roma viene colpito Emilio Rossi, direttore del telegiornale del primo canale. Nel volantino di rivendicazione di quest’ultima azione le Br spiegano come nell’ambito di quella campagna ancora non hanno sparato per uccidere ma ciò non significa non essere pronte a farlo. Con l’attentato a Rossi si conclude la prima parte della campagna contro la stampa che riprenderà in autunno.
[...] La replica di Berlinguer arriva il giorno dopo con una lunga lettera su «La Stampa» in cui il segretario del Pci spiega di aver parlato di «nuovo squadrismo» e di «nuovi fascisti» riferendosi solo ai gruppi autonomi armati, in relazione alle violenze di questi ultimi: "Coloro che con l’etichetta dell’autonomia scatenano le aggressioni, le violenze, le devastazioni più cieche e gratuite usando armi proprie e improprie; coloro che dichiarano di voler agire come partito armato contro ogni istituzione della nostra società civile; coloro che programmaticamente scelgono come bersaglio dei loro attacchi teppistici e delle loro azioni criminali il movimento operaio organizzato e quindi anche il Pci, i suoi dirigenti, i suoi militanti, i suoi giornalisti; coloro che non esitano a imporre la loro prevaricazione persino a chi da essi dissente nell’area dell’estremismo; ebbene, costoro non possono rappresentare una corrente con cui, fosse pure da distanze abissali, sia possibile tentare di stabilire un dialogo. Con tutti gli altri sì" <959.
A Bologna, durante la tre giorni organizzata dalla sinistra extraparlamentare, va in scena un duro confronto fra i leader dell’Autonomia, intenzionati a rovesciare la logica legalitarie di alcune componenti studentesche per trasformare il convegno in un momento di lotta contro le istituzioni democratiche, e i militanti di Lotta continua che invece sono intenzionati a denunciare la repressione dello Stato restando quindi nella logica tematica del convegno. È questo l’ultimo confronto pubblico e di massa, prima delle definitive derive e disgregazioni <960. Uno degli effetti del convegno è infatti la dimostrazione che le distanze fra le due parti sono ormai divenute insanabili.
[NOTE]
926 I comunisti e la questione giovanile, Atti della sessione del Comitato centrale del Pci, Roma, 14-16 marzo 1977, cit., Intervento di Cervetti, p. 332.
927 Ivi, Intervento di Napolitano, p. 361.
928 Due giovani e una donna sparano otto colpi di rivoltella contro l’ex segretario della Dc, in «La Stampa», 21 aprile 1977.
929 Le Br feriscono un capofficina Fiat con otto colpi di pistola alle gambe, in «La Stampa», 23 aprile 1977.
930 Assassinato il presidente degli avvocati di Torino: sono state le Brigate rosse?, in «La Stampa», 29 aprile 1977.
931 Il discorso del Presidente del Consiglio regionale del Piemonte Dino Sanlorenzo del 28 aprile 1977 è in Una Regione contro il terrorismo, cit., p. 60.
932 G. Caselli, D. Valentini, Anni spietati. Torino racconta violenza e terrorismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 81.
933 Il testo del decreto legge proposto dal Consiglio superiore della magistratura è riportato in E. R. Papa, Il processo alle Brigate rosse: Brigate rosse e difesa d’ufficio: documenti (Torino, 17 maggio 1976 -23 giugno 1978), Torino,
Giappichelli Editori, 1979, p. 43.
934 Intervista ad Eugenio Montale, in «Il Corriere della Sera», 3 maggio 1977.
935 A. Galante Garrone, Il coraggio di essere giusti, in «La Stampa», 8 maggio 1977.
936 I. Calvino, Al di là della paura, in «Il Corriere della Sera», 11 maggio 1977.
937 N. Bobbio, Il dovere di essere pessimisti, in La Stampa, 15 maggio 1977.
938 Intervista a Giorgio Amendola in «L’Espresso», 5 giugno 1977.
939 G. Bocca, A Torino vince la paura. Mancano i giudici: rinviato il processo delle Br, in «la Repubblica», 4 maggio 1977.
940 Proteste dei partiti e precisazioni del governo. La polizia sparerà solo per legittima difesa, in «la Repubblica», 24 aprile 1977; Misure di polizia. Intercettazioni telefoniche, fermo preventivo e carceri più severe, in «la Repubblica», 5 maggio 1977.
941 L’intervento di Fedeli al Consiglio sindacale, in «la Repubblica», 9 gennaio 1977; Il progetto Dc nega agli agenti il sindacato libero, in «la Repubblica», 6 aprile 1977; «Ordine pubblico», ottobre 1977.
942 As Cgil nazionale, Problemi pubblica sicurezza. Sindacato polizia. Realizzare il sindacato di polizia nell’interesse del paese. Intervento di Ennio Di Francesco al Congresso confederale della Cgil, 16 giugno 1977, fascicolo 19, b. 29.
943 Un agente assassinato, in «la Repubblica», 22 aprile 1977.
950 M. D’Alema, Liberare il movimento dall’infezione della violenza, in «Rinascita», 20 maggio 1977.
959 E. Berlinguer, Chi sono i nuovi fascisti, in «La Stampa», 23 settembre 1977; Cfr., anche E. Berlinguer, Con chi non è possibile dialogare, in «l’Unità», 23 settembre 1977.
960 G. Bocca, Un fatto inedito nella vita politica del paese, in «la Repubblica», 27 settembre 1977.
Francescopaolo Palaia, La Cgil e il Pci fra violenza terroristica e radicalità sociale (1969-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi "Sapienza" - Roma, Anno Accademico 2016-2017

giovedì 7 novembre 2024

La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale Emilia si realizzò il 20 aprile

Mirandola (MO), Piazza della Costituente. Foto: Boardvital111. Fonte: Wikipedia

Nella mattinata del 22 aprile 1945 le avanguardie della Brigata «Remo» entrarono in azione contro le retroguardie tedesche in ritirata. Mirandola fu così liberata definitivamente domenica 22 aprile come risulta dalla relazione del Comando Piazza di Mirandola che riproduciamo integralmente, anche se ci pare lecito avanzare in nota alcune riserve: «Il 1° Battaglione patrioti operante nella zona di Mirandola, il 22 aprile 1945, all'approssimarsi delle truppe alleate, sotto la guida della nota missione inglese, serrava le file e prima dello scadere della mezzanotte raggiungeva a piccoli gruppi questa città, deciso di strapparla al nemico per evitarne la distruzione. Durante la marcia di avvicinamento a Mirandola uno di tali gruppi catturava 3 agenti della Questura repubblicana fascista che furono prontamente eliminati. Alla periferia della città le nostre avanguardie si scontravano con reparti fascisti in ritirata che venivano subito agganciati in combattimenti; ma, data la preponderanza numerica del nemico, le nostre pattuglie, dopo breve sparatoria, si sganciavano dall'avversario ripiegando in posizione più favorevole e attendendo il grosso del Battaglione. «Poco dopo l'intero Battaglione entrò in città stessa costituendo posti di blocco nei punti periferici di maggior traffico. Il nemico, impegnato ripetutamente in duri combattimenti, veniva scacciato prima dalla città e poscia ostacolato nella sua ritirata; i nostri reparti, costituendo i posti di blocco, infatti, attaccavano coraggiosamente le colonne in ritirata falciandole e disperdendole. Numerosi attacchi nemici furono respinti e la città venne tenuta fino all'arrivo degli Alleati sebbene bersaglio di un bombardamento durato molte ore» (11). La relazione prosegue elencando le azioni di rastrellamento compiuto nella notte fra il 22 e il 23 e nella giornata del lunedì, nel corso delle quali caddero i partigiani «Hans» (un soldato tedesco passato alla Resistenza) ed Erminio Ori di Mirandola.
Se questa relazione compresa nel "Diario storico della Brigata «Remo»" suscita alcune perplessità, altre e ben più serie ne propone la versione dei fatti (piuttosto discordante dalla prima) quale ci viene fornita da una relazione stesa in data imprecisata da alcuni componenti del nucleo mirandolese del Partito d'Azione: a meno che essa - pagando un debito evidente a quel patriottismo di partito al quale abbiamo accennato - non intenda riferire, amplificandone all'estremo il significato, uno dei tanti episodi attraverso i quali si operò la liberazione di Mirandola (12).
Anche nel Finalese si accese in quei giorni intensa la lotta armata, - e non solo nella zona di Massa, in cui la Resistenza sia pure con alterne vicende era stata tuttavia abbastanza costantemente presente come abbiamo ricordato fin dall'autunno-inverno del '43-44, bensì anche da parte delle forze che anche dopo l'esodo verso la montagna di parecchi giovani militanti (a proposito del quale già s'è detto avanti) continuarono a mantenere una sia pur debole e scarsamente attiva struttura organizzata della Resistenza nel centro urbano di Finale Emilia e che dovettero pagare col sacrificio più duro da esse tributato alla lotta di liberazione - cioè con la morte dei partigiani Edoardo Banzi e Giustino Veronesi - questo estremo e pure anch'esso importante sussulto di ribellione contro fascisti e tedeschi (13). La mobilitazione in massa delle forze partigiane del distaccamento di Finale si realizzò il 20 aprile, allorchè di fronte all'evidente precipitare degli avvenimenti le varie squadre armate furono comandate di prendere posizione nei loro posti di combattimento, già in precedenza indicati tenendo conto di quelle che potevano essere le località da tenere sotto controllo. Comandati da Albino Superbi e da Luigi Battaglioli, una trentina circa di partigiani armati del Battaglione «Omero» si dislocarono pertanto nelle zone che fronteggiavano il Panaro, soprattutto nelle vicinanze immediate del centro urbano, avendo due obiettivi: anzitutto ostacolare per quanto fosse possibile la ritirata dei tedeschi e, seminando fra questi il panico con attacchi improvvisi e imboscate micidiali, trasformare una ritirata più o meno ordinata in una vera e propria fuga; in secondo luogo impedire o almeno ridurre al minimo la devastazione di Finale e la perdita di vite umane fra i civili. A tal fine nella notte sul 22 fu dato fuoco al ponte di legno che i tedeschi avevano gettato sul fiume, impedendo in tal modo che colonne nemiche potessero affluire a rinforzo dei reparti che già stanziavano nella città (14).
Per tutta la giornata del 22 aprile, mentre le armate alleate incalzavano le truppe tedesche dalla pianura bolognese fino verso la sponda meridionale del Panaro, fra l'altro sparando numerosi colpi di artiglieria nella zona a nord del fiume (ciò che rendeva ancor più pericolose le operazioni partigiane, sottoposte ad una duplice insidia) la Resistenza armata continuò nel Finalese la sua azione di disturbo contro le preponderanti forze tedesche, nel corso della quale cadde in località Mulino di Massa il partigiano Giustino Veronesi; infine la mattina del 23, alle ore 11, dopo che il grosso dei tedeschi si era ormai ritirato e mentre le forze partigiane tentavano di stabilire un contatto con gli alleati (15), fu data la disposizione di issare ovunque bandiera bianca onde evitare che il paese fosse fatto segno di ulteriori attacchi da parte delle artiglierie e dell'aviazione americana. Alcuni gruppi isolati di retroguardia della Wehrmacht tentarono di reagire a questo colpo di mano e cercarono di strappare i drappi bianchi issati sulle case, ma in generale il nemico percepì anche da questo gesto di una intera popolazione, un gesto ad un tempo di difesa e di sfida, che la partita anche a Finale era perduta, e si mise in rotta opponendo tuttavia ancora qua e là una sporadica resistenza che costrinse i partigiani ad assaltare un carro armato e a snidare alcune postazioni di mitragliatrici (16).
All'imbrunire del 23 aprile finalmente le truppe americane varcavano il Panaro e anche Finale Emilia poteva cominciare a vivere le sue prime ore di libertà.
[NOTE]
(11) Abbiamo tenuto ovviamente presente - per l'implicita autorevolezza che deriva dalla sua ufficialità - questa relazione del Comando Piazza di Mirandola: essa ci appare tuttavia assai lacunosa, approssimativa e in certi punti addirittura scarsamente attendibile: ad esempio, non si riesce da essa a capire se lo «scadere della mezzanotte» si riferisca alla notte fra il 21 e il 22 aprile, come altre fonti sostengono, oppure alla notte fra il 22 e il 23 aprile come parrebbe di dover dedurre a prima lettura del testo; e ancor più problematica diventa l'attendibilità del documento allorchè si afferma addirittura che il battaglione «Pecorari» procedette all'occupazione di Mirandola «sotto la guida della nota (sic!) missione inglese»: è infatti ben accertato e documentato da centinaia di testimonianze che i rapporti fra le forze partigiane e le missioni alleate furono sì di collaborazione assai stretta, anche se talvolta increspata da reciproche «diffidenze» politiche, ma non certo di subordinazione o di rinuncia alla loro autonomia da parte delle formazioni patriottiche che invece seguirono sempre la corretta linea gerarchica di dipendenza dai comandi militari della Resistenza.
(12) Riproduciamo qui intanto il testo della relazione (conservata con numero di protocollo 369 presso l'Archivio I.S.R.M. deposito Borsari, cart. C/2), al quale ci pare comunque necessario far seguire una nota critica circa la sua attendibilità. «Il 22 aprile 1945 al Comando Piazza alle ore 13,45 Cocchi Giuseppe, capo della squadra del Partito d'Azione si assunse l'incarico di raccogliere quanti più uomini possibili per prendere alle ore 18 possesso della caserma GNR perchè, secondo i patti di resa, a quell'ora i militi avrebbero dovuto consegnare le armi e allontanarsi in borghese. Alle 14 Cocchi e Pozzetti Bruno in perlustrazione davanti alla caserma suddetta, constatando che solo pochi militi erano ancora presenti, decisero di prenderne immediatamente possesso e invitarono la popolazione ad armarsi con le armi ex repubblichine. Venne sull'istante costituito un nucleo di armati che man mano ingrossò le file al numero di una quarantina. La caserma venne tenuta pur sotto le minacce di un cannoncino e di due autoblinde tedesche. Senonchè per ragioni di sicurezza viene dato ordine a Castellini di trasferirsi con parte di armi ed armati in un cortile del centro cittadino. Alle ore 18,30 Mirandola si può dire praticamente nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione. Alle 22,30 il Comando Piazza prese il comando diretto del gruppo che venne organizzato in tre squadre e una pattuglia di collegamento. Capo pattuglia fu uno del Partito d'Azione, Castellini, che guidò il gruppo fino all'indomani, giorno dell'arrivo delle truppe alleate». Anche per spiegare le ragioni dei nostri interrogativi sull'attendibilità del documento, vogliamo soffermarci solo su due evidentissime inesattezze: in primo luogo si parla di una «squadra del Partito d'Azione» comandata da Giuseppe Cocchi, mentre è del tutto accertato che tranne che nei primissimi tempi della lotta di liberazione nella Bassa modenese non esistevano affatto formazioni «di partito» (nè del P.d'A, nè del P.C.I., nè di alcun altro partito antifascista) ma tutte le forze partigiane erano organizzate in una formazione unitaria: nella fattispecie, le forze militari della Resistenza operanti nella Bassa erano tutte inquadrate nella Brigata «Remo». In secondo luogo, il documento afferma testualmente: «Mirandola si può dire praticamente è nelle mani della popolazione insorta sotto la guida del Partito d'Azione»! A parte il fatto che - per motivi richiamati altrove - il nucleo mirandolese del P.d'A. aveva perduto la più gran parte della sua consistenza già nella primavera-estate del 1944, vien da chiedersi: dove erano allora e cosa facevano in quelle ore cruciali il C.L.N., il Comando di Piazza, il Comando del battaglione «Pecorari», e infine il Comando della Brigata?
(13) Dobbiamo a questo punto «fare i conti» e ancora una volta criticamente con un documento già altrove ricordato, una relazione sull'attività svolta dal distaccamento del battaglione «Omero» dislocato a Finale Emilia, stesa il 21 maggio dal capitano Gaetano Salvi che firma come «comandante del distaccamento». Il documento è nell'Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5). Questo scritto rappresenta in qualche modo una testimonianza da cui non si può prescindere, stante la grave povertà di altre fonti dirette, e tuttavia non può essere preso in considerazione se non con grande cautela tenendo conto della qua e là trasparente e al limite persino ingenua finalità di autoincensamento da parte dell'autore, inteso sì a ricostruire i fatti ma soprattutto ad esaltare oltre misura il ruolo ch'egli effettivamente svolse in quelle vicende. Ad assumere questa posizione in parte dubitativa ci induce anche il rapporto fra le cose scritte dal Salvi e le testimonianze orali che si son potute raccogliere nell'autunno del 1973 da uomini - quali Albino Superbi «Allegro» (commissario del distaccamento) e Luigi Battaglioli - che furono indubitabilmente reali protagonisti della Resistenza nel centro di Finale fin dal settembre '43.
(14) «Relazione del movimento partigiano di Finale Emilia». (Archivio I.S.R.M., deposito Borsari, cartella C/5).
(15) Secondo la relazione Salvi citata, fu lo stesso Salvi a stabilire questo collegamento: «Alle ore 14 dello stesso giorno, il Comandante dei Partigiani Cap. Salvi, sotto il fuoco rabbioso degli ultimi centri tedeschi riuscì a mettersi in contatto con gli Americani»; i già ricordati Albino Superbi e Luigi Battaglioli hanno da parte loro dichiarato di essere riusciti essi stessi a raggiungere le truppe alleate avanzate e ad informare queste del fatto che il centro di Finale era ormai stato evacuato dal nemico, ciò che risparmiò una prevedibile azione distruggitrice da parte degli alleati.
(16) Si veda la citata «relazione Salvi». Fu nel corso di queste operazioni che cadde il partigiano Edoardo Banzi e furono feriti i partigiani Ermes Caselli (al quale dovette esser amputata una gamba) e Ferruccio Pignatti.
F. Canova - O. Gelmini - A.Mattioli, Lotta di liberazione nella Bassa Modenese, a cura dell'A.N.P.I di Modena, 1974

giovedì 31 ottobre 2024

Le giornate di Genova furono uno shock per il Msi



La tensione raggiunse il culmine il 18 aprile 1970 a Genova, durante un comizio di Almirante, qualche giorno prima che il Movimento Sociale inaugurasse ufficialmente la propria campagna elettorale. Una radiotrasmittente pirata si intromise nelle trasmissioni della Rai, invitando la popolazione a bloccare la manifestazione del Msi: erano i Gap, i Gruppi di Azione Partigiana, una delle prime formazioni clandestine di estrema sinistra, nate dopo gli attentati del 12 dicembre 1969 per contrastare l’eventualità di un golpe. Le elezioni regionali del giugno 1970 furono le prime elezioni degli anni Settanta a vedere la partecipazione attiva di formazioni terroristiche di destra e di sinistra impegnate in una serie di attentati volti a influire sul voto elettorale. Accanto all’attività dei Gap, infatti, fece la sua comparsa, con una serie di attentati dinamitardi contro i tralicci dell’alta tensione in Lombardia, il MAR (Movimento di Azione Rivoluzionaria), un gruppo terrorista neofascista in contatto con i servizi segreti e alcuni ex-partigiani anticomunisti <535.
Nei giorni precedenti il Partito comunista, l’Anpi e i sindacati avevano invitato i genovesi a manifestare contro il comizio del Msi. Il 18 aprile giunsero in piazza centinaia di antifascisti che si scontrarono con i servizi d’ordine del Movimento Sociale. Nei tafferugli venne ferito gravemente alla testa Ugo Venturini, un militante del Msi, che morì qualche giorno dopo <536. Le giornate di Genova furono uno shock per il Movimento Sociale, quasi che quella città, dal luglio 1960, fosse divenuta la riprova dell’eterna ghettizzazione e marginalizzazione del partito. Secondo Nino Tripodi, infatti, si era scatenata «la medesima rabbia che un decennio addietro [aveva colpito] con gli uncini acuminati degli scaricatori del porto, carabinieri e agenti» <537. Ugo Venturini divenne un martire, il «caduto per l’Idea» <538. La prima vittima della violenza politica dopo la strage di piazza Fontana fu osannata dai neofascisti e passata sotto silenzio dalla maggior parte delle forze politiche, ad eccezione di un duro intervento sull’«Avanti!» di Gaetano Arfè volto a stigmatizzare le violenze che si stavano registrando durante la campagna elettorale. <539 Una circostanza denunciata con forza dalla stampa di destra <540. Persino la sinistra extraparlamentare rimase quasi indifferente all’accaduto, nonostante avesse partecipato attivamente agli scontri di Genova, e fece riferimento alla morte di Venturini, come vedremo nel prossimo capitolo, solamente nel novembre del 1970, qualche mese dopo che era stata lanciata da Lotta continua e dagli altri gruppi extraparlamentari la campagna dell’antifascismo militante <541.
Per l’estrema destra il discorso fu completamente diverso. Alla liturgia commemorativa della Repubblica Sociale, del fascismo-movimento e dell’epopea del Piave, si andava ad aggiungere, adesso, il culto dei martiri, vittime della violenza rossa <542. A Roma un corteo funebre si diresse al monumento del Vittoriano, con l’intento di deporre una corona di fiori, sulla falsariga delle celebrazioni dei caduti per la rivoluzione fascista svolte nel Ventennio <543.
I funerali si tennero il 6 maggio a Genova e furono un momento celebrativo fondante, destinato a ripetersi per tutto il corso degli anni Settanta. La sala mortuaria fu allestita nella sede della federazione provinciale del Msi; la salma fu trasportata in corteo fino al tempio della Consolazione, una delle chiese più importanti della città ligure. All’interno la bara fu deposta di fronte all’altare maggiore, con ai lati una selva di bandiere tricolori e di ceri. Il rito funebre, a cui parteciparono tutti i più importanti esponenti del partito, fu celebrato da un ex-cappellano militare della Rsi. Terminata l’omelia la bara fu trasportata dai militanti del Movimento Sociale più giovani <544.
Queste liturgie accreditarono la lotta politica come una lotta fratricida: la violenza invadeva uno spazio simbolico prima appannaggio del dolore personale; i funerali divennero un momento di militanza attiva, quasi a ricordare il carattere assoluto dello scontro in atto. Non a caso Almirante si affrettò a chiamare la campagna elettorale una «guerra civile» <545; mentre Nino Tripodi parlò, addirittura, di una guerra «italo-italiana» che si era combattuta nei giorni precedenti <546.
Il lutto non fermò la campagna elettorale del Msi. A Livorno Almirante rischiò un vero e proprio linciaggio, quando la sua macchina venne bloccata in una via laterale ed attaccata da alcuni manifestanti <547. A Roma, a ridosso di un comizio elettorale di Pino Romualdi, i missini assalirono la sede della direzione del Partito Socialista, ma furono respinti dal servizio di vigilanza e dai giovani della Fgsi <548. Tutti i comizi che il Movimento Sociale tenne nel mese di maggio furono occasione di scontri con gli antifascisti. Si registrarono gravi incidenti a Firenze, Mestre, Milano, Bolzano, Reggio Calabria, Catania, Roma e Torino <549. I servizi d’ordine che presero parte agli scontri furono ribattezzati, significativamente, con il nome di Venturini <550. In prossimità del voto, inoltre, il Partito comunista invitò alla vigilanza di massa e chiamò i propri militanti a presidiare le sezioni dopo che si era sparsa la voce per l’imminenza di un colpo di Stato per bloccare il risultato delle elezioni <551.
Nonostante le aspettative negative, le elezioni regionali videro il Movimento Sociale invertire la tendenza al declino che si era manifestata nelle politiche del 1968. Il Msi, infatti, conquistò, complessivamente, il 5,2% dei voti. La fiducia nel positivo risultato elettorale portò il partito di Almirante a proporsi come il polo di un’alleanza politica trasversale a tutte le forze anticomuniste <552.
Il 12 settembre 1970 il 4° corso di aggiornamento per i giovani del Msi, che si tenne a Cascia, in provincia di Perugia, sanzionò definitivamente il riconoscimento dell’impiego della violenza come risorsa strategica della mobilitazione del partito <553. A novembre il IX congresso nazionale del Movimento Sociale propose la costituzione di un “Fronte Anticomunista Articolato” sul quale costruire l’impalcatura di una maggioranza alternativa al centro-sinistra <554. Per fare ciò era necessario «preparare i giovani allo scontro frontale» <555. Nelle parole di Almirante l’«estremismo di destra sarebbe diventato un centro di equilibrio» <556: il bilanciamento con la sinistra passava, infatti, anche attraverso un pari dispiegamento di forze.
[NOTE]
535 Ibio Paolucci, Arrestato un gruppo di dinamitardi fascisti: preparava una «settimana di fuoco» nel Nord, «l’Unità», 24 aprile 1970; vedi anche Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali - Sezione Terza -, Roma, 20 aprile 1970; Ministero dell’Interno, Gabinetto, Ufficio del Telegrafo e della Cifra, telegramma, da Milano, 18 aprile 1970, 25682; in Ministero dell’Interno, Gabinetto, 195/P/98, sottofasc. 4., Movimento Autonomo Rivoluzionario, MAR, ACS, MI, GAB, 1967-1970, b. 19.
536 Solo rafforzando il Msi si stronca la sovversione, «Il Secolo d’Italia», 9 aprile 1970; Emittente «fantasma» si rifà viva a Genova, «l’Unità», 20 aprile 1970. Sulla storia dei Gap si veda Progetto Memoria, La mappa perduta, Sensibili alle Foglie, Roma 1994, pp. 33-40; Una puntuale descrizione degli eventi che portarono alla morte di U. Venturini è contenuta nell’inchiesta giornalistica di L. Telese, Cuori Neri, Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, 21 delitti dimenticati degli anni di piombo, Sperling&Kupfer, Milano 2006, pp. 2-25.
537 N. Tripodi, Cinismo contro martirio, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
538 Caduto per l’Idea, «Il Secolo d’Italia», 3 maggio 1970.
539 Pochissimi gli articoli in quei giorni sulla stampa nazionale e tutti di poche righe. Si veda, ad esempio, Morto il missino ferito durante il raduno fascista, «l’Unità», 3 maggio 1970; È morto il missino colpito da una bottiglia, «Il Corriere della Sera», 3 maggio 1970. Per la posizione del Psi G. A., Contro tutte le provocazioni, «l’Avanti», 21 aprile 1970.
540 Licenza di uccidere, «Il Candido», n. 20, 14 maggio 1970.
541 Genova: comizio di Almirante durante le elezioni regionali. Il Pci dice di vigilare. I proletari invece attaccano. Giustiziato il fascista Venturini, «Lotta continua», a. II, n. 20, 12 novembre 1970.
542 Mobilitati i giovani del Msi per respingere le aggressioni rosse, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
543 All’altare della Patria per onorare il sacrifico di Venturini, «Il Secolo d’Italia», 5 maggio 1970.
544 Nel nome dell’operaio Venturini per la libertà e la Nazione col Msi, «Il Secolo d’Italia», 6 maggio 1970.
545 G. Almirante, Campagna elettorale o guerra civile?, «Il Secolo d’Italia», 23 aprile 1970. Cfr. anche l’omonimo opuscolo in AFUS F. Cassiano, b. 16.
546 N. Tripodi, La guerra italo-italiana, «Il Secolo d’Italia», 30 giugno 1970.
547 Gravi incidenti a Livorno durante il comizio di Almirante, «Il Secolo d’Italia», 19 maggio 1970.
548 Rintuzzato un tentativo fascista di assalire la direzione del partito, «l’Avanti», 8 maggio 1970.
549 Violenti scontri a Firenze nel corso del comizio di Tripodi, «Il Secolo d’Italia», 20 maggio 1970; Campagna elettorale all’insegna della violenza, «Il Secolo d’Italia», 3 giugno 1970. Tafferugli a Mestre per un comizio del Msi, «Il Corriere della Sera», 4 maggio 1970; Tafferugli a Roma tra polizia e missini, «Il Corriere della Sera», 8 maggio 1970; Tafferugli a un comizio di Almirante a Livorno, «Il Corriere della Sera», Violenti scontri a Milano tra neofascisti e polizia, «Il Corriere della Sera», 25 maggio 1970; Tafferugli ai comizi del Msi, «Il Corriere della Sera», 2 giugno 1970.
550 I Volontari Nazionali nel nome di Ugo Venturini, «Il Secolo d’Italia», 3 maggio 1970.
551 Armando Cossutta, La nostra responsabilità, «l’Unità», 26 maggio 1970; Continuare nell’impegno e nella vigilanza, «l’Unità», 8 giugno 1970. La stessa notizia fu riportata dall’«Astrolabio». Cfr. Arturo Gismondi, 6 luglio l’ultima carta del partito della paura, «L’Astrolabio», a. VIII, n. 23, 7 giugno 1970.
552 Il Msi realizzerà il fronte anticomunista, «Il Secolo d’Italia», 27 luglio 1970.
553 Nell’impegno dei giovani la vera forza del Msi, «Il Secolo d’Italia», 13 settembre 1970. Il ruolo attribuito alla violenza è segnalato anche nell’informativa della Prefettura di Perugia, Prot. N. 10/913, Div. Ps, Riservata, Oggetto: “Cascia (Perugia) - Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori del MSI - IV Corso di aggiornamento”, in ACS, MI, GAB, 1971-1975, b. 19.
554 All’insegna della coerenza e dell’unità il IX Congresso Nazionale del Msi, «Il Secolo d’Italia», 20 novembre 1970.
555 Dall’unità del Msi all’unione degli italiani, «Il Secolo d’Italia», 21 novembre 1970.
556 Almirante confermato all’unanimità segretario nazionale del Msi, «Il Secolo d’Italia», 24 novembre 1970.
Guido Panvini, Le strategie del conflitto. Lo scontro tra neofascismo e sinistra extraparlamentare nella crisi del centro-sinistra (1968-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia - Viterbo, Anno Accademico 2007-2008

lunedì 21 ottobre 2024

Il governo italiano diede il suo generale assenso alla proposta americana di schierare sul territorio missili “Irbm” (raggio intermedio) a testata nucleare


Il processo di integrazione europea - anche grazie al “Piano Marshall” - stava dando i suoi frutti. Dopo la creazione della CECA si era percepita la volontà degli stati europei occidentali di realizzare, dietro il largo consenso americano, un mercato unico. Come già visto, nel 1955 vi era stata la conferenza di Messina, che aveva delineato i principali obiettivi futuri per l’integrazione nel vecchio continente.
Il 25 marzo 1957, con i Trattati di Roma, venne istituita la “Comunità Economica Europea” (CEE), insieme al “Mercato Europeo Comune” e l’EURATOM <1.
L’amministrazione Eisenhower era soddisfatta del livello raggiunto dai paesi europei, soprattutto dal punto di vista dell’economia e la liberalizzazione dei mercati. Tuttavia, ciò non bastava a difendere fisicamente l’Occidente. La preoccupazione per i successi sovietici nel campo della missilistica atomica portò gli Stati Uniti a proporre forme di “nuclear sharing” agli alleati europei. Tra il 1957 e il 1958 vi furono diverse consultazioni tra Francia, Germania e Italia per accordarsi sulla possibile produzione di armi nucleari europee <2. Anche se poi questa opzione venne scartata, il governo italiano diede il suo generale assenso alla proposta americana di schierare sul territorio missili “Irbm” (raggio intermedio) a testata nucleare, che sarebbero diventati, come spiega la definizione ufficiale nell’aprile 1958, “la spada che doveva integrare lo scudo costituito dalle forze convenzionali <”3.
Nonostante ciò, la “soglia di Gorizia” rimaneva un punto cruciale per l’Alleanza Atlantica, richiedendo uno schieramento ed organizzazione più profondi ed estesi. Infatti, le elezioni politiche italiane del 1958 assunsero un significato decisivo, sia per la politica interna del paese che per quella estera. La Democrazia Cristiana riuscì a guadagnare il 42% dei voti (273 seggi), mentre i comunisti si attestarono al 23% (140 seggi) e i socialisti al 14% (84 seggi) <4.
L’intervento dell’intelligence americana si era fatto sempre più presente nella penisola. Come rivelò nelle sue memorie il già citato funzionario CIA William Colby: "Il mio lavoro consisteva nell’impedire che i comunisti vincessero le elezioni del 1958 […] Ora, non si può negare che interferenze come quelle della CIA in Italia siano illegali […]; tuttavia, il sostegno a gruppi democratici italiani, per metterli nella condizione di tenere testa a una campagna sovversiva sostenuta dai sovietici, può sicuramente essere accettato come un atto morale" <5.
Gli USA di Eisenhower, dopo i successi del 1953, nel rovesciamento del Governo Mossadeq in Iran e del Governo Arbenz in Guatemala, poterono confermare la riuscita delle operazioni clandestine anche in Italia. Nonostante nel 1959 Colby venne trasferito alla base CIA in Vietnam, lasciò l’italiana nelle mani del SIFAR del Generale De Lorenzo, che continuò con costanza la sua battaglia contro le sinistre <6.
Tornando alla questione degli arsenali nucleari, fu portato avanti il negoziato tra Italia e USA per il dispiegamento di 45 missili “Irbm”, meglio conosciuti con il nome “Jupiter”. Malgrado il fatto che il leader del PCI Togliatti presentasse un disegno di legge per vietare l’istallazione di armi nucleari in Italia, questo fu bocciato <7. Si presero inoltre accordi per missili contraerei che avrebbero garantito una prima linea di difesa in caso di attacco. Nel frattempo, aveva ormai preso avvio la cosiddetta “corsa allo spazio”, che non era altro se non un’ennesima Guerra Fredda dal punto di vista dell’ingegneria aerospaziale delle due superpotenze.
Nel 1957 l’URSS lanciò in orbita il primo satellite artificiale, lo “Sputnik” <8, arrivando poi nel 1961 a portare il primo uomo nello spazio, Yuri Gagarin. Gli USA risposero fondando nel 1958 la “National Aeronautics and Space Administration”, la NASA, e cominciando anche loro a lanciare astronauti in orbita, fino a quando supereranno gli stessi sovietici, con lo sbarco sulla Luna della missione “Apollo 11”, nel 1969.
Le preoccupazioni statunitensi, tuttavia, si intensificheranno quando nel 1959, a Cuba <9, una rivoluzione aveva rovesciato il regime autoritario di Fulgencio Batista, vicino agli USA. Il nuovo leader, Fidel Castro, anche se non prettamente filosovietico, compì mosse dirette ad urtare gli interessi americani: espropriazione delle piantagioni possedute dall’azienda “United Fruit” e nazionalizzazione delle raffinerie petrolifere. Il nuovo presidente americano, il democratico John Fitzgerald Kennedy, per far fronte alla crisi cubana, autorizzò, nell’aprile del 1961, uno sbarco armato di esuli cubani “anticastristi”, alla Baia dei Porci <10. Ma l’operazione si rivelò un fallimento e il piano di rivolta popolare pianificato dalla CIA non trovò attuazione. Anzi, lo sbarco americano non fece che intensificare l’avvicinamento di Castro all’URSS di Chruščëv.
La tensione salì quando l’amicizia cubano-sovietica si concretizzò nel progetto di costruire una base missilistica sull’isola, con armi e mezzi forniti direttamente dall’URSS. Nell’ottobre 1962 Kennedy chiese l’immediato smantellamento della base, minacciando un attacco militare a Cuba <11. Dopo l’assenso dei sovietici, si avviarono delle trattative per impedire test nucleari nei mari e nell’atmosfera, che troveranno l’accordo nell’estate del 1963.
Sistemata la crisi cubana, l’attenzione si spostava sulla “situazione calda” del Vietnam. Nel 1954 erano stati siglati gli accordi di Ginevra, dopo che una lunga guerra tra francesi e vietnamiti (iniziata nel 1946) aveva visto i primi venir sconfitti e costretti a ritirarsi. Come per la questione della Guerra di Corea, il Vietnam venne diviso in due stati: una repubblica comunista nel Nord e uno Stato filoccidentale nel Sud <12. Tuttavia, nel 1963 truppe del Vietnam del Nord avviarono una serie di azioni di guerriglia contro lo stato meridionale, portando gli Stati Uniti ad intensificare i finanziamenti all’esercito del Sud. Il Presidente Kennedy stava considerando l’idea di un intervento militare americano in Vietnam, ma il 22 novembre 1963 <13, durante una visita ufficiale a Dallas, in Texas, verrà assassinato da un cecchino (ancora oggi in circostanze non del tutto chiare). Il suo vicepresidente, Lyndon Johnson, continuò la politica del defunto Capo di Stato, in particolare la questione del Vietnam. Dopo uno scontro navale tra forze americane e vietnamite, nel 1964, nel Golfo del Tonchino, il Congresso USA autorizzava l’intervento diretto di truppe statunitensi nella guerra in corso in Vietnam <14. Nel 1965 vi sarà l’invio di 185.000 soldati, che diverranno 540.000 due anni più tardi. Una delle principali strategie adottate dagli americani era quella di bombardare pesantemente il Vietnam del Nord, per distruggere ogni forma di resistenza dei “Viet Cong” (truppe non regolari dell’esercito del Nord). Tuttavia, per calcoli errati diversi ordigni colpiranno anche la Cambogia e il Laos, estranei al conflitto. Inoltre, l’azione americana non riuscì nell’intento di indebolire le forze settentrionali, che passarono invece al contrattacco nel 1968, con l’imponente “Offensiva del Tet” (dal nome del capodanno vietnamita) <15. La risposta statunitense risultò confusa e vi furono addirittura delle rappresaglie contro civili innocenti, ritenuti sostenitori dei guerriglieri del Nord. La nascita del grande movimento pacifista negli Stati Uniti e il generale malumore dell’opinione pubblica, fomentato dai servizi giornalistici e televisivi che trattavano dei massacri americani in Vietnam, indussero il Presidente Johnson a non ricandidarsi alle elezioni del novembre 1968, che vedranno trionfare il repubblicano Richard Nixon <16.
[NOTE]
1 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
2 Idem, p. 251-252.
3 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p.
62.
4 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 86.
5 Ganser Daniele et al., Gli eserciti segreti della Nato: operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2005, p. 86.
6 Idem, p. 87.
7 Ilari Virgilio, Storia militare della prima repubblica, 1943-1993, Ancona, Nuove ricerche, 1994, p. 62.
8 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 308.
9 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 309.
10 Idem, p. 309.
11 Idem, p. 309.
12 Idem, p. 284.
13 Idem, p. 311.
14 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 311.
15 Idem, p. 311.
16 Idem, p. 312.
Daniele Pistolato, "Operazione Gladio". L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

giovedì 10 ottobre 2024

Continuava a Roma l'allestimento della rete spionistica Gehlen


Il gesto apparentemente generoso, da parte di de Planitz, di aiutare Johannes Gehlen, tuttavia, non sarebbe rimasto fino a se stesso: già nell’inverno del ’47 l’avvocato avrebbe chiesto all’ex fisico di ricambiare il favore, fungendo da traduttore per il suo cliente Wagener durante il processo, circostanza di cui Johannes si sarebbe lamentato più di una volta nei report spediti al fratello. Il legame con de Planitz sarebbe però presto andato al di là del processo Wagener. Sembrerebbe infatti che, già a partire dal ’47, von Planitz sia diventato un informatore abituale di Johannes, aiutandolo non poco con nuovi contatti e collegamenti durante il processo di costituzione dell’ODEUM Roma <139.
2.1.2. “Una mano lava l’altra”: l’ODEUM Roma, Ferdinand von Thun-Hohenstein e il progetto della “rappresentanza SMOM” in Germania
Per quanto riguarda l’attività di Johannes all’interno dello SMOM menzionata nella succitata lettera, può sorprendere, nonostante la stretta amicizia col conte, che egli da protestante abbia potuto avere accesso agli affari interni dell’Ordine così precocemente. Già verso la fine del ’46 von Thun-Hohenstein, una volta rincontrato il suo vecchio amico e informato della nuova attività di quest’ultimo nel campo d’intelligence, aveva assunto Johannes come suo segretario personale presso la Segreteria degli Affari Esteri dell’Ordine, posizione che avrebbe permesso all’ex fisico nucleare di entrare nella sede dello SMOM in via Condotti e di avere accesso agli svariati collegamenti nazionali ed internazionali di cui un’istituzione simile poteva vantarsi <140. Una volta compiuto tale primo ingresso “ufficiale” nel mondo dell’Ordine, von Thun-Hohenstein, come dimostrano i documenti, si sarebbe affrettato ad allargare lo spazio di manovra del suo amico ancora di più, assegnandogli compiti burocratici all’interno di varie commissioni degli enti caritatevoli dello SMOM. Tali incarichi sarebbero tuttavia stati - ed è importante ripeterlo in vista di quanto sarà detto più avanti - privi di ricompensa, in quanto ufficialmente classificati come “volontariato”.
È a questo punto giustificato porsi la domanda circa la motivazione del conte von Thun-Hohenstein nel collaborare con Johannes e, in senso più vasto, con l’Organisation Gehlen e l’intelligence statunitense. La ragione per ciò sta nella stessa natura degli interessi che il neonato organo spionistico tedesco e i suoi supervisori avevano circa l’Ordine. Come emerge dalle carte del BND, il principale obiettivo dell’”infiltrazione” di Johannes nello SMOM era quello di preparare il terreno per la costituzione di una rappresentanza o “missione” dell’ufficio di von Thun-Hohenstein a Francoforte, allora sotto occupazione statunitense <141. Essendo lo SMOM un organo sovrano ed extra-territoriale, vale a dire un’entità “parastatale” per certi versi <142, la creazione di una simile rappresentanza estera dell’Ordine - controllata da una persona fidata come von Thun-Hohenstein e facilmente influenzabile da parte dell’Organisation Gehlen e del G-2 USFET in Germania - avrebbe costituito una win-win-situation per tutte le parti coinvolte. Infatti l’Operation Rusty, da parte sua, avrebbe potuto profittare della rappresentanza non solo come fonte di contatti ed informazioni, ma avrebbe anche potuto sfruttarla come diretto collegamento con Roma: una simile istituzione, di fatto, avrebbe avuto il potere di fornire documenti di viaggio e passaporti diplomatici dell’Ordine, un vantaggio prezioso e non da sottovalutare nell’immediato dopoguerra. Tutto ciò sembra infatti essere confermato dalle stesse parole di Johannes, scritte a Reinhard nel gennaio del ’47:
"Durch eine Bemerkung aus Deinen Kreisen her angeregt habe ich nun vor einigen Tagen Dir berichten lassen, dass mein Freund sich sehr positiv zu dem Projekt stellt, dass sein Verein bei dem dortigen eine Vertretung einrichtet. Er wird in der weitgehendsten Weise, im Falle dies geht, auf unsere Wünsche über das Personal eingehen. Dadurch wäre mit einem Schlag eine direkte Verbindung zwischen Dir und mir hergestellt, die absolut hieb- und stichfest ist" <143.
Se dunque per i fratelli e per l’intelligence statunitense il carattere internazionale ed extra-territoriale degli uffici dello SMOM sembra essere stata la motivazione principale per impegnarsi affinché una rappresentanza della Segreteria di von Thun-Hohenstein fosse istituita su territorio tedesco-occidentale, per il conte ciò avrebbe significato non solo ampliare il suo potere personale <144, ma anche sistemare alcune faccende interne all’Ordine. Infatti i documenti lasciano intuire che nei tardi anni Quaranta si stesse combattendo una sorta di “guerra fredda” all’interno della sede di via Condotti, causata dal formarsi di vari schieramenti in lotta per il predominio sugli affari esteri dello SMOM. Questo aspetto sarà approfondito in dettaglio più avanti, ma si può qui specificare come von Thun-Hohenstein, che parallelamente al suo incarico di capo della Segreteria estera svolgeva anche la prestigiosa funzione di Segretario generale per il Gran Maestro dello SMOM, avesse palesemente degli interessi da difendere, interessi che probabilmente vedeva sempre più minati dalle lotte intestine dell’Ordine.
2.1.3. Il “nuovo inizio” a Roma tra difficoltà e speranza
Sulla base della documentazione presa in esame qui è dunque lecito affermare che il collegamento con lo SMOM abbia costituito senz’altro il perno delle attività di Johannes a Roma durante il periodo 1946-1949. Sempre grazie ai contatti che egli sarebbe riuscito a tessere durante il proprio lavoro come segretario del conte, iniziarono a nascere anche i contatti con i futuri più stretti collaboratori dell’ex fisico nucleare. I primi passi in tale direzione avrebbero portato Johannes già nel ’47 presso il Collegium Germanicum et Hungaricum di Roma. Oltre alle conoscenze con esponenti del clero che Johannes presso il cosiddetto “Germanicum” gesuita, lì l’ex fisico nucleare avrebbe anche incontrato due uomini fondamentali per trasformare la sua “battaglia solitaria” a Roma in lavoro di gruppo: Willy Friede e Jean Henry Guignot. Friede e Guignot sarebbero diventati presto due elementi cruciali per l’attività dell’ODEUM Roma, essendo attivi, per conto di Johannes, in svariati ambienti della capitale italiana e contribuendo così a soddisfare le richieste di Reinhard e dei suoi supervisori statunitensi. Mentre le figure di Friede e di Guignot saranno al centro del seguente paragrafo, l’attività specifica del nascente ODEUM Roma - vale a dire del gruppo costituitosi attorno a Johannes tra il ’47 e il ’48 - sarà oggetto di analisi del terzo capitolo.
Una volta iniziato il lavoro dell’ex fisico nucleare per conto dell’Organisation Gehlen nello SMOM, grazie anche a von Thun-Hohenstein, tutto sembrava dunque andare nel verso giusto per i due fratelli: Reinhard era riuscito a vincere la sua battaglia personale contro Hermann Baun ponendosi a capo dell’Operation Rusty, trasformandola in Organisation Gehlen a tutti gli effetti, mentre a Roma Johannes gettava le basi per il suo nuovo lavoro d’intelligence. Tuttavia nella tarda primavera del ’47, come già detto prima, una serie di preoccupazioni attanagliavano ancora il maggiore dei fratelli Gehlen. l suoi problemi principali risultavano essere la situazione economica, da una parte, e la perdurante assenza della famiglia, dall’altra, fattori aggravati dalle scarse possibilità di contatto con Reinhard e il resto del personale dell’Operation Rusty in Germania. In una lettera scritta al fratello il 1° maggio del ’47, poco dopo l’attesa visita di un membro dell’Operation Rusty a Roma, Johannes scrive:
"Ich bin sehr erfreut über den Besuch Deiner Freunde, der mich aus einem Zustand der Spannung erlöst hat, der mich sehr belastete. […] Trotzdem ich mich gänzlich verlassen fühlte, so verlassen, dass ich an eine definitive Auswanderung denken musste, habe ich in absolutem Glauben an unsere Sache weiter gewartet […]. Ich weiss nun, dass ich nicht vergessen worden bin und habe Deinem Freund alle meine Sorgen ausgeschüttet. […] Ich habe unserem Freund auch etwas von meinen Persönlichen Bedürfnissen und Agdas Verhältnissen erzählt und bitte Dich, besonders an Agda denken zu wollen […]. Mein eigener Wunsch ist, wenn ich einen persönlichen Wunsch ausdrücken darf, sobald wie möglich ein geregeltes Familienleben […] aufzunehmen. Wenn es im Rahmen der Aktion geht, umso besser, somit werde ich weiter Geduld haben" <145.
Il passaggio appena citato non solo rivela le difficoltà di Johannes legati al denaro e alla famiglia, ma anche quelle relative alle dinamiche comunicative, o, in altre parole, alle catene di comando. Come si vedrà nel quarto paragrafo di questo capitolo, la questione del controllo e della supervisione di Johannes e del suo lavoro nell’Organisation Gehlen non sarebbe mai stata davvero chiarita e avrebbe, non di rado, comportato serie frizioni interne.
In generale si può dunque dire che l’inizio dell’attività d’intelligence di Johannes a Roma tra il ’46 e il ’47 fu segnato da apparenti successi, ma anche da difficoltà pratiche, legate tanto a questioni logistiche quanto all’effettiva inesperienza dell’ex fisico nucleare nel mondo dei servizi segreti. Tali aspetti contrastanti, per certi versi, sarebbero poi stati accentuati dall’affacciarsi di tre personaggi: i già menzionati Willy Friede e Jean Henry Guignot e Alix von Fransecky. Sarebbero stati infatti loro tre a costituire, sotto guida di Johannes Gehlen, l’ODEUM Roma, la prima cellula spionistica dell’Organisation Gehlen attiva sul territorio italiano.
[NOTE]
139 Besprechung mit S-1933 am 9. September 1948, 14 settembre 1948, BND-Archiv, 220814_OT, doc. 000411.
140 R.D. Müller, Reinhard Gehlen, cit., p. 451.
141 Un riferimento concreto al tentativo di istituire la rappresentanza della Segreteria estera sotto guida di von Thun-Hohenstein si trova, fra gli altri, anche in un documento del 24 aprile 1948, scritto da Johannes Gehlen: «Questo è un passo decisivo nella giusta direzione. Se la questione della rappresentanza si risolverà a nostro favore, allora potrei dire che il primo […] dei due compiti assegnatimi è stato portato a termine», Bericht N° 16, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 26 aprile 1948, BND-Archiv, 220815, doc. 099-101, qui 101; inoltre cfr. Bericht N°1, 16 novembre 1947, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, BND-Archiv, 228015, doc. 182.
142 Per la storia del Sovrano Militare Ordine di Malta e la sua evoluzione cfr. R. Stark, God’s Battalions: The Case for the Crusades, HarperCollins, New York 2009; R. Prantner, Malteserorden und Völkergemeinschaft, Duncker und Humboldt, Berlin 1974.
143 Lettera di Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 26 gennaio 1947, BND-Archiv, 220814_OT, doc. 000047.
Dietro indicazione sollecitata dai tuoi ambienti, ti ho fatto sapere alcuni giorni fa che il mio amico [von Thun-Hohenstein] vede pienamente di buon occhio il progetto di istituire lì una rappresentanza locale della sua associazione. Egli cercherà nel modo più ampio, nel limite del possibile, di tenere conto delle nostre preferenze riguardo al personale. In questo modo si costituirebbe in un colpo solo un legame diretto, solido e sicuro tra me e te.
144 Secondo quanto scritto esattamente un anno più tardi da Johannes al fratello, la collaborazione con von Thun-Hohenstein sarebbe dovuta essere un classico caso di “una mano lava l’altra”: «Attraverso il nostro aiuto possiamo […] portare F.[erdinand von Thun-Hohenstein] in cima a tutto, e così anche noi avremmo tutto l’Ordine in mano». Bericht N° 6, Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 1° gennaio 1948, BND-Archiv, 220815, doc. 150.
145 Lettera di Johannes Gehlen a Reinhard Gehlen, 1° maggio 1947, BND-Archiv, 220814_OT, 000051.
La visita dei tuoi amici mi ha fatto davvero molto piacere, in quanto mi ha liberato da uno stato di tensione che mi opprimeva molto. […] Anche se mi ero sentito completamente abbandonato, tanto da dover pensare a lasciare definitivamente il paese, ho comunque continuato nell’attesa, […] con fiducia assoluta nei nostri propositi. Ora so di non essere stato dimenticato e ho confidato al tuo amico tutte le mie preoccupazioni. […] Ho raccontato al nostro amico anche le mie esigenze personali e le circostanze riguardanti Agda e ti prego di voler pensare soprattutto a lei […].È mio desiderio, se posso esprimerne uno, di condurre quanto prima possibile una regolata vita familiare […]. Se ciò fosse conciliabile anche con il progetto, ancora meglio, allora continuerò ad avere pazienza.
Sarah Anna-Maria Lias Ceide, ODEUM Roma. L'Organisation Gehlen in Italia agli inizi della guerra fredda (1946-1956), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Napoli "Federico II", 2022

giovedì 3 ottobre 2024

I partigiani di Tagliacozzo

Tagliacozzo (AQ). Foto: Marica Massaro. Fonte: Wikipedia

La banda [partigiana] Gaetano Di Salvatore <1703 fu attiva nel comune di Tagliacozzo <1704 e aree limitrofe <1705 tra il primo di ottobre 1943 ed il 10 giugno 1944, compiendovi attività di propaganda antinazista ed antifascista, di assistenza nei confronti delle popolazioni e degli ex prigionieri alleati, ed azioni armate e di sabotaggio. Per stessa affermazione del capobanda, Dante Salsiccia, dalla sua costituzione e fino all'aprile 1944 la formazione tagliacozzana agì seguendo le direttive degli «organi centrali del Fronte Clandestino di Resistenza» <1706 a cui era collegata tramite l'avvocato Antonio Paoluzi, mentre dal maggio a seguito dell'interruzione di detti contatti «agimmo solo di nostra iniziativa» <1707. Intessuti dalla banda anche rapporti con viciniori gruppi partigiani con cui operarono assalti armati soprattutto nell'ultima fase della loro esperienza partigiana <1708.
La Commissione Regionale Abruzzese in data 3 febbraio 1947, così si espresse nei confronti della formazione: «esaminata la relazione e documentazione in atti, sentita la relazione del membro Di Gianfilippo Eleuterio incaricato dell'inchiesta delibera: 1° - di riconoscere la Banda quale formazione Partigiana al comando del S. Ten. Salsiccia Dante operante in località Tagliacozzo e dintorni […]; 2° - di riconoscere la qualifica di Partigiano Combattente esclusivamente a coloro per i quali è stata accertata dai sopraluoghi e dalle indaggini [sic!] effettuate l'effettiva partecipazione alla lotta armata e clandestina e precisamente: DI SALVATORE Gaetano <1709 (caduto); SALSICCIA Dante <1710 (Comandante); DE SANTIS Emilio <1711; MARINI Vincenzo <1712; FERRARI Amleto <1713; IACOMINI Benedetto <1714; PROSPERI Corrado <1715; SACERDOTE Lucidi Giulio <1716; MAIOLINI Luigi <1717; MARINI Raffaele <1718» <1719.
Il successivo iter di riconoscimento dell'elenco aggiuntivo - di 37 partigiani e 20 patrioti - presentato dal Salsiccia alla Commissione e da questa accettato nella seduta del 14 agosto 1947 <1720, scatenò però una bufera di reclami e polemiche <1721 che si trascinò fino al 1950 terminando con provvedimenti di revoca di buona parte delle qualifiche aggiuntive rilasciate <1722. Tale complesso percorso rende quindi difficile quantificare con esattezza il numero di partigiani e patrioti effettivamente riconosciuti nella Gaetano di Salvatore, altresì però permette di valutare, con buona approssimazione, la forza della banda come al di sotto della stima del Salsiccia che parlò 10 elementi tra fine settembre e seconda quindicina di ottobre, saliti a 35 nel periodo tra la fine di ottobre '43 e i primi di maggio '44, ed infine a 55 nell'ultimo mese di attività <1723.
Alla fine del settembre '43, dopo che il 12 erano giunte in Tagliacozzo le truppe tedesche d'occupazione, presso la casa del Paoluzi si tennero le prime riunioni dei partigiani tagliacozzani «nelle quali si concepì il bisogno di organizzare una banda armata» <1724. Nonostante questa condivisa decisione di massima, l'elaborazione di una strategia richiese diversi incontri non tutti di esito favorevole, almeno prestando fede al Vincenzo Marini secondo cui nella riunione del 22 settembre, «quando tutto sembrava risolto più che la diffidenza verso qualcuno poco desiderato, fu la paura di alcuni che mandarono, secondo il mio modesto modo di vedere, tutto a monte» <1725. Il progetto comune fu infine realizzato il primo di ottobre con la nascita di un primo gruppo partigiano con a capo Vincenzo Marini e formato da nove partigiani tra cui Dante Salsiccia, Amleto Ferrari, Enea Liberati <1726, Antonio Paoluzi, e Benedetto Attili <1727. Due i primi colpi di mano attuati dalla piccola banda, entrambi ai danni della locale stazione dei Carabinieri «allora comandata dal maresciallo Pecora Rosario» <1728 da cui furono asportati prima «due fucili mitragliatori “Breda 30”, cinque moschetti, quattro pistole, cinquanta bombe a mano, due casse di munizioni per mitragliatori e relativi accessori ed una cassa di munizioni per moschetti» <1729 e poi «le armi civili che erano state consegnate dalla popolazione in considerazione del bando tedesco emanato in proposito» <1730. Forte delle armi sottratte e di un accresciutosi numero di elementi <1731, la banda diede quindi il via alle azioni di sabotaggio con taglio sistematico di cavi telefonici ed interruzioni stradali <1732 operate nell'area tra Tagliacozzo, Magliano dei Marsi, San Donato di Tagliacozzo, Poggiofilippo di Tagliacozzo, Villa San Sebastiano, Carsoli e Valle del Liri <1733. Dette azioni continuarono per i mesi successivi, fino a che i tedeschi per porvi un freno istituirono turni di guardia ai fili, adibendo al servizio gli abitanti del paese <1734. Nell'intento di tutelare l'incolumità della popolazione, i sabotaggi furono quindi interrotti ma ormai i partigiani erano stati in buona parte individuati <1735 e così alla fine del mese di novembre <1736 i tedeschi arrestarono Luigi Maiolini, Raffaele Marini e Corrado Prosperi, mentre il Ferrari <1737 e il Paoluzi <1738 riuscirono fortunosamente ad evitare la cattura.
Tra il mese di ottobre e quello di novembre si segnala anche un trasferimento del comando della banda dalle mani di Vincenzo Marini a quelle del Salsiccia che lo tenne fino al giugno '44. La ricostruzione dell'esatto momento in cui ciò avvenne e delle modalità con cui si determinò sono però quanto mai rese complesse dalla discordanza delle fonti documentali presenti nel carteggio della banda. Il Salsiccia riferì che nell'ottobre '43 l'allora capobanda Marini scomparve senza dare più notizia di sé a seguito di un paventato arresto avvenuto per mano tedesca - arresto fissato però nelle note agli elenchi presentati dalla Commissione Regionale Abruzzese, al 28 novembre. Dal canto suo il Marini <1739 affermò di essersi allontanato volontariamente perché assorbito dalle sue molteplici attività resistenziali - lo ritroveremo nel giugno '44 a capo di un altro gruppo partigiano - ma solo dopo aver passato le consegna della banda al Salsiccia <1740.
Successivamente alla ridda di arresti del novembre e dopo un primo momento di comprensibile disorientamento - benché si legga nella relazione che «la perdita di questi elementi attivi non errestò [sic!] né impaurì gli altri componenti» <1741 - le attività della banda ripresero orientandosi stavolta verso due precisi obiettivi perseguiti per tutto il lungo inverno e fino all'avanzata primavera. In primo luogo prestare assistenza ai numerosi ex prigionieri «fuggiaschi sui monti» <1742 a cui vennero procurati alloggi e guide <1743 e che furono riforniti di viveri e vestiario grazie alle elargizioni in denaro ma non solo, di Paoluzi, Ottorino Gubitosi e del sacerdote don Giulio Lucidi <1744. Il Salsiccia stimò di circa una «centinaia», il numero di ex P.O.W.s che si avvalsero della loro opera umanitaria. Al contempo fu attivata un'intensa campagna di propaganda antinazista ed antifascista, concretizzatasi con la diffusione di manifestini sia volanti che murali, e con la divulgazione del giornale “Italia Libera” di matrice P.d.A. « col cui centro clandestino eravamo in comunicazione per mezzo del sergente Attili Benedetto» <1745.
[NOTE]
1703 Il nome fu scelto per onorare il partigiano omonimo, caduto per la lotta di liberazione tra le fila della formazione. Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Gaetano Di Salvatore, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1704 Tagliacozzo: comune della Marsica in provincia de L'Aquila situato su uno sprone della catena di Monte Bove, non distante dal confine regionale con il Lazio; durante l'occupazione nazista di rilevante interesse strategico per la vicinanza alla strada statale Tiburtina-Valeria e alla ferrovia Roma-Avezzano, e per la presenza a circa 12 km. del Comando della X Armata tedesca con a capo il generale Heinrich von Vietingoff-Scheel, stanziatosi dall'ottobre 1943. Durante il periodo di occupazione fu sede di un carcere tedesco.
1705 «S. Donato di Tagliacozzo, Stazione ferroviaria Villa S. Sebastiano, Poggio Filippo di Tagliacozzo, S. Stefano, Carsoli, Monte Autore, Valle del Liri», ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1706 Non è chiaro a quale organizzazione patriottica con sede a Roma il Salsiccia faccia riferimento con questa dicitura. Si presuppone trattarsi di un centro clandestino di area P.d.A. con cui la banda costituì certamente una collaborazione secondo le testimonianze di seguito nel testo.
1707 «DIRETTIVE RICEVUTE DAGLI ORGANI CENTRALI DEL FRONTE CLANDESTINO DI RESISTENZA: Dall'inizio fin verso aprile furono limitate solo ad atti di sabotaggio. Dopo questo periodo non avemmo più direttive da organi superiori », ibidem.
1708 Cfr. ibidem.
1709 Nato a Pescorocchiano (RI) il 26 gennaio 1914, ha svolto attività partigiana nella banda, dal 01/10/43 al 07/06/44, giorno della sua morte per mano tedesca. Riconosciuto partigiano combattente caduto per la lotta di Liberazione. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1710 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 5 settembre 1919, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani. «Maestro fuori ruolo», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, lettera del Provveditorato agli Studi di Aquila del 3 marzo 1947.
1711 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 04 marzo 1893, soldato, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Il 6 giugno 1944 fu ferito in combattimento da soldati tedeschi. Riconosciuto partigiano combattente invalido per la lotta di Liberazione. Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario caduti e feriti.
1712 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 16 novembre 1915, tenente, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani. Riferì nella sua relazione che dopo essersi «apertamente opposto fino al 17/9/43 ai Tedeschi in quel di Cogoleto (Genova)», dove svolgeva il servizio militare, raggiunse Tagliacozzo «miracolosamente il giorno 20 settembre 1943, dopo che il 18 s.m. fuggii alla cattura tedesca a Massa Apuiana», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Marini Vincenzo.
1713 Nato a Roma il 26 novembre 1917, sergente, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
1714 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 25 luglio 1921, allievo ufficiale, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1715 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 21 novembre 1925, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Ferito il 23 gennaio 1944 a Roccaraso durante un bombardamento. Riconosciuto partigiano combattente invalido per la lotta di Liberazione. Cfr. ibidem.
1716 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 1° maggio 1914, sacerdote, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1717 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 6 settembre 1890, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/43 al 10/06/44. Cfr. ibidem.
1718 Nato a Tagliacozzo (AQ) il 2 luglio 1889, ha svolto attività partigiana nella banda dal 01/10/1943 al 10/06/1944. Cfr. ibidem.
1719 Ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, Commissione Regionale Abruzzese per il riconoscimento della qualifica di partigiano, presso la Prefettura, L'Aquila, del 3 febbraio 1947, prot. n. 3466, pratica n. 1648: «3° - di richiedere al comandante della Banda (perché si possa procedere al riconoscimento della rispettive qualifiche di “PARTIGIANO CADUTO PER LA LOTTA DI LIBERAZIONE” ed “INVALIDO PER LA LOTTA DI LIBERAZIONE”) gli estratti di morte per i Caduti ed il referto medico per i feriti 4° - di richiedere al comandante della Banda le generalità complete dei Partigiani riconosciuti onde poter procedere alle registrazioni e alle segnalazioni prescritte».
1720 Ivi, Commissione Regionale Abruzzese per il riconoscimento della qualifica di partigiano, presso la Prefettura, L'Aquila, del 15 ottobre 1947, prot. n. 3367, pratica n. 080.
1721 Presenti nel carteggio della banda almeno tre testimonianze dell'avversione suscitata dall'esposizione degli elenchi aggiuntivi presso l'albo del comune di Tagliacozzo. Il Marini Vincenzo in una lettera inviata al comando A.N.P.I. le definì quali «oggetto di scherno da parte di tutti i lettori» dato che il «50% di quella gente o ha servito e collaborato col tedesco invasore o pavida fino alla nausea non ha fatto nulla, oppure all'inizio voleva operare solo dirigendo da lontano», e ne richiese l'immediato annullamento «altrimenti sarò costretto a pubblicare sui giornali i miei risentimenti per difendere il nome mio […], il vostro e quello di tutti coloro che hanno veramente combattuto», ivi. Il maggiore di complemento Frattodì Angelo, vedendo il proprio nome inserito in detto elencò, inviò comunicazione alla Commissione in data 14 novembre 1947, affinché se ne disponesse la cancellazione, motivando la sua scelta con ragioni di competenza ma soprattutto «perché nel suddetto elenco figurano, per la quasi totalità, nomi di persone che notoriamente non hanno fatto nulla per ottenere tale qualifica ed anche, alcuni di essi, hanno collaborato con i tedeschi», ivi. Casali Pierino e altri paesani di Tagliacozzo inviarono alla Commissione in data 7 novembre 1947 una vibrante protesta, adombrando velenose insinuazioni circa l'integrità dei membri commissari accusati di aver proceduto al riconoscimento «per far numero che aumentino i Partigiani falsi della Marsica», o in cambio di qualche «regaluccio». Chiamato dalla Commissione con la missiva del 12 novembre 1947 a rispondere delle sue infamanti affermazioni, il Casali Pierino rispose in tono molto più conciliante il 24 aprile 1948 presentando una lista di partigiani meritevoli a suo giudizio di riconoscimento, e ancora il 22 gennaio 1950 ritirando quanto affermato nella precedente lettera, «scritta in un momento di rabbia», ivi.
1722 Cfr. ivi, schedario partigiani e schedario patrioti.
1723 Cfr. ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante. Si segnala che per le fonti del Costantino Felice, vennero regolarmente riconosciuti nella formazione 47 partigiani e 20 patrioti e che nel mese di maggio la banda arrivò a contare 150 componenti soprattutto «per l'aggregarsi di un gruppo di montenegrini», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi, Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 233-234. Anche l'allora capobanda Salsiccia Dante accennò dell'apporto di elementi montenegrini, limitandone però la presenza a soli quindici elementi, aggiuntisi per tramite del Ferrari. Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante.
1724 Ibidem.
1725 Ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1726 Il Liberati Enea fu tra i più attivi collaboratori del Corbi Bruno della Patrioti Marsicani, e da questi ritenuto il responsabile per il PCI della zona di Tagliacozzo. Cfr. Bruno Corbi, Scusateci tanto, cit., p. 64. «Faceva il motorista, tutti lo conoscevano e lui sapeva tutto di tutti», ibidem. Per i contatti tra il Liberati ed il Corbi cfr. ivi, Patrioti Marsicani. Al giugno 1946 era Segretario della Sezione di Tagliacozzo del Partito Comunista Italiano, e come tale firmò una dichiarazione relativa all'attività della banda Gaetano di Vincenzo, che è tra le fonti di questa ricostruzione. Si segnala che il suo nome figura tra i partigiani con qualifica revocata e cambiata in quella di patriota. Cfr. ivi, schedario patrioti.
1727 Definito dall'avvocato Paoluzi un «valoroso patriota del Partito d'Azione», ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione Paoluzi del 25 luglio 1946.
1728 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1729 Ibidem. Il Marini riferì nella sua relazione che una sera, uscendo da casa del Paoluzi con il Salsiccia e un altro patriota, già in animo di costituire una banda armata, ebbe un incontro con il maresciallo maggiore Pecora Rosario, a capo della stazione dei CC., a cui chiese le armi e da cui si sentì rispondere: «Io non glie le [sic!] posso dare, perché le ha in consegna il sig. Tenente, però lei è una persona intelligente e se vuole si può arrangiare». La notte stessa, all'alba, aiutati dal carabiniere Giannoni, i patrioti penetrarono nella caserma per sottrarvi armi e munizioni che poi furono ricoverate presso la Chiesa di Sant'Egidio. Ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1730 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1731 Tra cui De Sanctis Emilio, Di Salvatore Gaetano e Prosperi Corrado. Cfr. ibidem.
1732 Cfr. ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano, Sezione di Tagliacozzo, del 1° marzo 1946 ed a firma del Segretario della Sezione G. Giua.
1733 Cfr. ibidem e relazione di Salsiccia Dante.
1734 Cfr. ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1735 «Durante tutto il tempo in cui la banda operò nella regione marsicana numerosi furono gli arresti e gli interrogatori della polizia fascista contro gli appartenenti ed i loro parenti», ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano del 1° marzo 1946. Il tristemente noto accanimento vessatorio tedesco sui familiari dei partigiani, trovò un suo esempio anche Tagliacozzo, dove il successivo 4 febbraio 1944, le «S.S. tedesche si recarono nell'abitazione dello Zangari Emilio di Angelo, per arrestare costui, in seguito a segnalazione che lo Zangari espletava opera di partigiano […] non trovando il suddetto, arrestarono la moglie Moretti Maria Elena di Panfilo che […] rimase detenuta per cinque o sei giorni.» ivi, atto notorio.
1736 Secondo le note agli elenchi presentati dalla Commissione Regionale Abruzzese il Prosperi Corrado venne arrestato il 26 novembre 1943 mentre Maiolini Luigi e Marini Raffaele il 29 novembre 1943. Cfr. ivi.
1737 «[…] riuscì ad evitare l'arresto per una intuita riuscita omonimia e fuggì con la propria famiglia nel paese di Borgocollefegato», ivi relazione di Salsiccia Dante.
1738 «[…] fuggito a Roma», ibidem. «A Roma stabilii contatti con il Fronte della resistenza a tramite del dottor Alberto Vecchietti, mentre rimasi in relazione con la banda a mezzo di Attili Benedetto», ivi dichiarazione di Paoluzi Antonio del 25 luglio 1946.
1739 Il Marini Vincenzo fu un personaggio a suo modo controverso: messo a capo della formazione di Tagliacozzo, nella sua relazione riferì di aver compiuto diverse attività personali e stretto numerosi contatti sia prima che dopo la costituzione della banda che non trovano riscontro né nel carteggio della Gaetano Di Salvatore e né nella documentazione relativa alle altre formazioni marsicane esaminate. Per altro contro di lui furono avanzati diversi sospetti di collaborazionismo. Anche nella dichiarazione di Paoluzi del 10 agosto 1947 si evidenziano dei sospetti: «rimane da acclarare la posizione di Marini Vincenzo, al quale si addebita di aver indossato persino la divisa tedesca e di aver partecipato ad un doppio gioco», ivi, dichiarazione di Paoluzi Antonio. Anche il Di Gianfilippo Eleuterio della Patrioti Marsicani e poi membro della Commissione Regionale Abruzzese, ne parlò: «[…] il Marini nell'ottobre 43 arrestato dai tedeschi per liberarsi dal carcere (di Avezzano) si mise al servizio dei tedeschi stessi arrivando a vestire la divisa teutonica», ivi, relazione di Di Gianfilippo Eleuterio alla Commissione del 13 luglio 1947.
1740 Cfr. ivi, relazione di Marini Vincenzo.
1741 Ivi, relazione di Salsiccia Dante.
1742 Ibidem.
1743 «In detta opera ha partecipato come guida, per i rifornimenti viveri e per il cambiamento dei successivi nascondigli il socialista Nuccilli (o Luccilli) Giovanni fu Antonio di Tagliacozzo, affiliato alla suddetta banda», ivi, dichiarazione del Partito Socialista Italiano del 1° marzo 1946 e schedario partigiani.
1744 Cfr. ivi, Banda Gaetano Di Salvatore, relazione di Salsiccia Dante.
1745 Ibidem. La circostanza trova conferma, seppure in una diversa collocazione temporale, nella relazione del Marini Vincenzo per cui: «Il 14/10/43 Benedetto ATTILI va a Roma, dove, grazie all'Avv. Antonio Paoluzi, riesce ad avere dei giornali clandestini, fra cui l'Italia Libera, il giornale che tutte le settimane arrivò nella marsica per opera di questo valoroso giovane che tutto sfidando lo andava a prendere usando una bicicletta tutta sgangherata. Io poi m'incaricavo di distribuirlo nella zona. Dimenticavo di dire che l'Attili lo distribuiva da Tivoli ad Arsoli», ivi relazione di Marini Vincenzo.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

giovedì 26 settembre 2024

Amato aveva consegnato a De Matteo un rapporto sul terrorismo di destra


Poco dopo, a luglio [1980], si tengono le elezioni amministrative, che non segnalano grandi cambiamenti nel consenso verso i due principali partiti italiani: la Dc perde meno di un punto (rispetto alle politiche del 1979), il Pci mantiene i propri voti; ma un risultato notevole è quello del Psi, che guadagna oltre tre punti percentuali, che consentono al segretario di sbandierare una vittoria, dopo tante delusioni e spaccature interne. Dopo la tregua con la sinistra in occasione del Comitato Centrale di gennaio, Craxi persegue con determinazione il suo obiettivo di estendere il proprio controllo sul partito, dimostrando particolare attenzione al mondo dell’informazione: ad esempio fa sostituire alcuni giornalisti di Rai Due in quanto ritenuti ostili (o non particolarmente pronti nel sostituire la fedeltà a de Martino, che li aveva proposti per quell’incarico, con quella al nuovo segretario) <154. Ad ottobre Craxi si dimette dalla carica di segretario in modo da poter rinnovare completamente la direzione; la conseguenza è che Signorile perde la carica di vicesegretario e la sinistra interna si riduce ad una piccola minoranza. Prosegue in questo modo il processo di controllo del partito che potrà dirsi completato pienamente in occasione del congresso di Palermo <155.
I comunisti, rispetto all’epoca della solidarietà nazionale, non sono più disposti a prestarsi in maniera gratuita ad appoggiare le politiche di moderazione salariale, né a chiedere ai sindacati di fare altrettanto. La cosa diviene di grande evidenza soprattutto in occasione della vertenza della Fiat a settembre, quando l’azienda di Torino decide di licenziare 14mila operai, per poi rivedere i piani e chiedere la cassa integrazione, ma questa volta per 23mila lavoratori. Ciò provoca scioperi e grandi tensioni nelle fabbriche del capoluogo piemontese. Il partito comunista, dopo le definizione degli equilibri nella Dc e nel Psi che hanno portato ad una riedizione del centrosinistra che relega il Pci all’opposizione e senza una visione strategica utile (è ormai evidente a tutti che continuare a marciare sulla via del compromesso storico è semplicemente velleitario), appare sulla difensiva; ma pensa di poter far leva sulla propria forza per dimostrare che «senza il Pci non si governa» ed è quindi indotto ad appoggiare, quasi senza riserve, le richieste degli scioperanti di Torino: diviene famosa la risposta di Berlinguer ad alcuni operai che gli avevano chiesto se i comunisti avrebbero appoggiato lo sciopero anche in caso di occupazione della Fiat; la risposta, poco cauta, del segretario era stata un «sì», sebbene sia stato poi accompagnato da diverse precisazioni <156. I comunisti si ritrovano però ancor più spiazzati ad ottobre, quando alcune decine di migliaia <157 di quadri ed impiegati manifestano a favore del diritto di lavorare e di far funzionare uffici e fabbriche, un evento, anche simbolico, che segna un ribaltamento del potere negoziale tra imprese e sindacati che caratterizzerà il decennio.
Nello stesso mese di ottobre il governo Cossiga, indebolito su vari fronti, giunge al termine ed è chiamato a succedergli Arnaldo Forlani. Secondo Giorgio Galli l’avvicendamento al governo costituisce un successo socialista in quanto Cossiga apparteneva a quella parte della Dc che, con Zaccagnini ed Andreotti guardava ancora alla collaborazione col Pci, mentre Forlani era uno dei firmatari del preambolo di Donat Cattin <158.
Nei mesi precedenti si erano verificati due episodi che avevano riportato alla ribalta il terrorismo di marca neofascista. Il primo e più terribile, nel mese di agosto, costituisce anche il più micidiale attentato nella storia dell’Italia repubblicana: la strage alla stazione di Bologna. L’evento contribuisce a irrigidire la posizione del Pci, il quale riserva giudizi molto duri sulla classe politica in questa fase <159. Il secondo è costituito dall’assassinio del magistrato di Roma Mario Amato, il 23 giugno del 1980, che segna probabilmente il massimo livello di allarme avvertito da tutta l’ordine giudiziario circa i rischi connessi alle inchieste sul terrorismo. Negli ultimi anni numerosi erano stati i giudici vittime di assalti da parte di gruppi eversivi di destra e di sinistra; dopo Coco e Occorsio assassinati nel 1976, vi erano stati i casi di Palma, Tartaglione e Calvosa nel 1978, di Alessandrini nel 1979, ma è nel 1980 che si intensificano gli agguati: il vicepresidente del Csm Bachelet a febbraio, Giacumbi, Minervini e Galli a marzo. Ad accrescere l’esasperazione tra i giudici non è solo la lunga serie di esecuzioni, ma anche la solitudine e la mancanza di tutele e protezione in cui Amato era stato lasciato nelle sue efficaci inchieste sui gruppi eversivi neofascisti.
La reazione immediata da parte dei magistrati romani è quella di proclamare uno sciopero di protesta nei confronti del governo per la mancata protezione del giudice ucciso. Alla Camera il ministro dell’interno Rognoni afferma che Amato aveva rifiutato la scorta, ma i colleghi del magistrato lo smentiscono <160 e annunciano una nuova astensione dal lavoro, che si estende anche ad alcuni uffici giudiziari di Milano. Pochi giorni dopo il governo prospetta aumenti salariali, ne segue una divisione tra le correnti dell’Anm: Md è contraria e determinata nel chiedere le misure di protezione e quindi confermare ulteriori scioperi, le altre correnti, in particolare Mi, si dimostrano molto più elastiche.
Tutte le principali forze politiche affermano la propria disponibilità nel sostenere le richieste dei magistrati. Il Pci, dopo l’incontro di una sua delegazione con i vertici dell’Anm si impegna ad un’azione «incalzante» nei confronti del governo per la sicurezza <161, ma lancia un allarme quando subentrano gli aumenti salariali: "… in pratica qualcuno ha tentato di barattare le sacrosante richieste dei sostituti procuratori di Roma e della grande maggioranza dei magistrati (sicurezza personale) con una manciata di aumenti salariali […] Md lamenta che il confronto tra il ministro e l’associazione magistrati sia stato dedicato quasi esclusivamente al problema economico…" <162, e, ancora: «la parte più progressista dei giudici denuncia il tentativo di svendere la vertenza attraverso le misure retributive» <163, mentre nell’ambito della maggioranza parlamentare, gli aumenti suscitano le proteste di Giorgio la Malfa <164.
Anche la Dc organizza un incontro tra l’associazione dei magistrati e l’ufficio problemi dello Stato del partito, guidato da Bosco; ma circa gli aumenti salariali l’organo del partito osserva un rigoroso silenzio in questa fase <165. Per quanto riguarda il Psi, anch’esso organizza un incontro con l’Anm all’inizio di luglio, mentre già nei giorni precedenti il partito aveva assicurato tutto l’appoggio ai giudici; in particolare Cicchitto aveva dichiarato che, sebbene non fosse facile proteggere adeguatamente tutti i magistrati, è «aberrante» che non siano state prese le misure del caso per Amato, data la natura delle sue indagini e le minacce ricevute <166. Per quanto riguarda l’aspetto dei riconoscimenti economici che si mescolano alle misure di sicurezza richieste dai giudici, il Psi all’inizio si limita a registrare la contrarietà di Md <167, ma in seguito si mostra molto più sensibile ai settori della magistratura che accolgono con favore gli aumenti di retribuzione; Gaetano Scamarcio, membro della commissione giustizia del Senato, dopo aver denunciato l’«assenteistico comportamento» del ministro della Giustizia, spiega che le richieste di sicurezza, ma anche quelle economiche sembrano ragionevoli e possono essere studiate, non ignorate <168.
L’omicidio di Amato costituisce anche un ulteriore duro colpo per De Matteo, dopo che all’inizio di giugno il Csm aveva iniziato la sua inchiesta sul procuratore di Roma per la gestione del caso Caltagirone. Il procuratore è indotto a dimettersi, gli succederà un altro magistrato che in passato non è apparso insensibile alle sollecitazioni del potere politico, l’ex capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci; Bruti Liberati individua negli sviluppi del caso Amato «una tappa importante del processo di “liberazione” della procura di Roma dai condizionamenti interni ed esterni». E aggiunge: «La preoccupazione che, sull’onda della cacciata di De Matteo, la procura di Roma cominci ad esercitare in modo davvero indipendente il suo ruolo istituzionale determina pressioni politiche fortissime sul Csm chiamato a nominare il nuovo procuratore; a stretta maggioranza viene scelto Achille Gallucci; che per il suo passato come capo dell’ufficio istruzione non appare certo l’emblema di un risanamento, come sarà reso manifesto dalle iniziative sconcertanti e clamorose degli anni successivi» <169. Ma i problemi di De Matteo non si esauriscono con le sue dimissioni, il Csm infatti chiede che venga aperta un’inchiesta penale nei confronti dei «vertici giudiziari» che avevano il dovere di proteggere Amato <170; il riferimento è piuttosto chiaro, si tratta del procuratore della Repubblica. L’inchiesta penale viene effettivamente aperta per omissione d’atti d’ufficio e omicidio colposo e sarà gestita da Perugia, sede indicata dalla Cassazione. Attraverso lo sviluppo dell’inchiesta emergono diversi dettagli: ad esempio che la polizia aveva inviato al ministero un rapporto circa i rischi corsi da Amato; oppure che poco prima dell’omicidio il presidente dell’Anm, Beria d’Argentine, aveva sollecitato una scorta per il giudice <171 e che a giugno Amato aveva denunciato al Csm il disinteresse di De Matteo per i suoi processi <172 (alla fine di settembre appaiono sull’Europeo le dichiarazioni in proposito, e virgolettate, di Amato <173). Ma i guai maggiori cominciano quando emergono i dettagli di un rapporto sul terrorismo di destra che Amato aveva consegnato a De Matteo, al quale era allegata la deposizione di un detenuto fascista, Massimi; questi affermava che «Mario Amato è uno degli obiettivi del terrorismo di destra». De Matteo, in un memoriale inviato a Perugia, afferma di non aver letto tale deposizione, ma in precedenza, al Csm aveva spiegato di aver rivelato all’avvocato difensore di Massimi il contenuto della deposizione del terrorista pentito <174. Intanto anche il procuratore aggiunto di Roma, Raffaele Vessichelli, rimane coinvolto nel caso in quanto lo si sospetta di aver informato Semerari (un perito del tribunale di simpatie neonaziste, e sospettato di omicidio e di complicità nella strage di Bologna) del rapporto inviato da Amato al procuratore (cosa che provoca un’interrogazione da parte del Psi) <175. Ma a metà novembre De Matteo viene convocato dal tribunale di Bologna dai giudici che indagano sulla morte di Amato (inchiesta finita nel capoluogo emiliano in quanto connessa con la strage di Bologna) in veste di imputato (per i reati di omissione e rivelazione d’atti d’ufficio; anche Vessichelli viene inquisito, ma solo per il secondo reato); cosa che spinge il ministro Morlino a chiedere la sospensione di De Matteo e Vessichelli, sancita pochi giorni dopo dal Csm. Nei giorni seguenti la vedova di Amato consegna un documento redatto dal marito (rivelato dall’Espresso) ai giudici bolognesi: in esso si racconta delle interferenze e delle minacce da parte del giudice Alibrandi (il cui figlio, Alessandro, è un elemento delle organizzazioni terroristiche di destra e sospettato di complicità per la strage di Bologna) sulle indagini di Amato circa l’eversione nera nel 1977. Alla fine di novembre i giudici di Bologna aggiungono un reato a quelli contestati a de Matteo, quello di calunnia, per aver incolpato il suo vice, Vessichelli, di rivelazione d’atti d’ufficio.
Non mancano le differenze di tono tra i giornali di partito nel trattare l’affaire: l’Unità è quella che dà maggior spazio all’argomento e che, con maggior vigore, sostiene l’accusa a De Matteo per le sue negligenze circa la protezione di Amato; l’Avanti narra tutti i fatti ma, in particolare rispetto all’aggressività dimostrata in passato nei casi di eversione nera o di giudici considerati conservatori, appare molto più cauto. Il Popolo dedica poco spazio alle vicende e le tratta con distacco.
[NOTE]
154 S. Colarizi e M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Cit. Pag. 94. Secondo gli autori in questa maniera Craxi dimostrerebbe una certa «Discrasia tra visione strategica e pratica quotidiana»; ma si potrebbe obiettare che dal punto di vista del controllo del partito e della cura circa la stampa, l’azione di Craxi sia stata coerente durante tutta la sua segreteria.
155 In occasione del quale iniziano anche a manifestarsi, da parte di Craxi, i «primi segnali di un culto della personalità, destinato a dilagare negli anni successivi», come afferma S. Colarizi, “La trasformazione della leadership. Il Psi di Craxi”, in AA.VV. Gli anni Ottanta come storia, Rubettino, Cosenza, 2004. Pag. 63.
156 Emanuele Macaluso spiega che, mentre in passato i comunisti desideravano mostrare che non si poteva governare contro il Pci, ora intendevano sottolineare che non si poteva governare senza il Pci; da questo proposito derivava una certa «radicalità» politica. Vedi l’intervento di E. Macaluso in G. Acquaviva e M. Gervasoni (a cura di). Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia, 2011. Pag. 104.
157 L’episodio viene ricordato come la «marcia dei quarantamila». Sulla marcia e sulla politica del Pci dopo le elezioni del 1979 vedere, ad esempio, G. Crainz, Il Paese reale, Donzelli, Roma, 2012. Pag. 34s.
158 G. Galli, Storia del socialismo italiano. Cit. Pag. 444
159 A. Giovagnoli, Il partito italiano. Cit. Pag. 205
160 “Udienze bloccate a Roma e Milano per le proteste dei magistrati”, La Stampa del 1 luglio 1980; oppure “Insufficienti per i magistrati le misure prese dal governo”, Unità del 1 luglio 1980
161 “Berlinguer: piena solidarietà del PCI con la magistratura”, Unità del 3 luglio 80. La valutazione del Pci circa la scarsa l’efficacia con cui il governo provvede alla sicurezza dei magistrati è anche espressa in un documento interno della Sezione problemi dello Stato datato giugno 1980. Fondazione Gramsci, Archivio del Pci, Busta 467, Pagina 1044.
162 “Giudici: verso lo sciopero nazionale?”, Unità del 5 luglio 80
163 “Contrasti tra magistrati di fronte alla mossa del governo per gli aumenti”, Unità del 7 luglio 80 164 Ibid.
165 “Magistratura, la Dc mette a punto le sue proposte”, Il Popolo del 3 luglio 80
166 “Appoggio del PSI alle richieste dei magistrati”, Avanti del 28 giugno 80
167 “Incontro PSI-Anm sui problemi della giustizia”, Avanti del 5 luglio 80
168 “Dove i giudici hanno ragione”, Avanti del 16 luglio 80
169 E. Bruti Liberati, “La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni Novanta”. Cit. Pag. 205.
170 “Caso Amato: il CSM chiede misure penali”, Unità del 4 luglio 80
171 “Pagherà i conti con la giustizia chi non protesse il giudice Amato?”, Unità del 19 settembre 80
172 “E De Matteo ascoltò Amato infastidito”, Unità del 27 settembre 80
173 “Ma il procuratore De Matteo sarà solo un teste?”, l’Unità del 30 settembre 1980
174 “Caso Amato: De Matteo si contraddice”, Unità del 7 ottobre 80
175 “Inchiesta del CSM sul caso Vessichelli”, Avanti del 29 ottobre 80
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza - Università di Roma, 2013