domenica 4 febbraio 2024

C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo


Il rinascere della mobilitazione operaia nel triangolo industriale e in particolare a Milano è strettamente connesso con l'andamento generale della guerra e con il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Il fascismo non era mai del tutto riuscito a rompere quella resistenza morale e ideologica che i lavoratori industriali avevano opposto negli anni del regime; questo non necessariamente per identificazione con gli sconfitti degli anni Venti (sebbene la memoria dell'origine antiproletaria del movimento mussoliniano permanesse soprattutto nelle generazioni più vecchie), quanto per quello che il fascismo aveva concretamente significato per le condizioni di lavoro in fabbrica: compressione salariale, negazione della rappresentanza e dell'autonomia dei lavoratori, la 'trappola' del corporativismo interclassista. Uno dei terreni su cui si svolgerà l'interpretazione operaia della lotta antifascista sarà appunto la questione della rappresentanza, come testimoniano le interpretazioni 'consiliariste' di molte organizzazioni operaie e della sinistra classista a Milano relativamente alle commissioni interne istituite dopo l'8 settembre, in parte mantenute anche sotto Salò, e ai CLN aziendali: "La richiesta dei consigli era comparsa nel 1942 in un giornale il cui titolo e sottotitolo erano già tutta una rimembranza: 'L'Ardito del popolo. Organo degli operai, contadini e soldati'. La Federazione comunista libertaria milanese si rivolse al CLN provinciale informando di aver partecipato 'con altri movimenti rivoluzionari alla creazione di un movimento per la costituzione dei consigli di fabbrica, riprendendo l'idea torinese dell'altro dopoguerra', e di avere conseguentemente formato le 'brigate dei consigli', che chiedevano di operare 'in accordo con quelle del CLN'. I bordighisti del Partito comunista internazionalista rivendicarono anch'essi i consigli come organo della rivoluzione. La marginalità di questi gruppi e la posizione minoritaria dei socialisti che facevano capo a Lelio Basso, anch'essi favorevoli ai consigli, suffragano il giudizio espresso di recedente da uno dei più sensibili, fra i protagonisti di quegli eventi, alla tematica consiliare. Vittorio Foa ha infatti escluso che durante la Resistenza sia davvero riemersa 'la linea rivoluzionaria dei consigli di fabbrica' […]: i consigli del periodo resistenziale furono, e non solo in Italia, 'strumenti di collaborazione di classe e di democratizzazione del sistema sociale'. […] Lo spirito consiliare e autonomistico che animava un'ala del Partito d'azione si riversò più che sui consigli, soprattutto sui CLN […]". <259
Tuttavia, come vedremo, questa interpretazione rivoluzionaria della rappresentanza operaia o comunque legata alla necessità operaia di autonomia e controllo, ha un seguito molto superiore ai soli gruppi dell'estrema sinistra, arrivando a contagiare buona parte della base operaia del Partito comunista. Quando i repubblichini e gli occupanti nazisti riconoscono infatti le commissioni interne badogliane, il PCI dà ordine di scioglierle e rifiutarle, ma molti simpatizzanti e militanti non accettano e manifestano critiche, dubbi: "Non si trattava di opposizioni poco qualificate. Le riserve vengono dagli stessi compagni della base, da fabbriche che hanno al loro attivo dure e recenti lotte. Nel novembre il comitato di fabbrica della Breda rivolge alla direzione del partito una lettera contenente ampie riserve sulla sua decisione: le commissioni interne, scrive il comitato comunista di fabbrica, garantiscono la sorveglianza della mensa e della mutua; controllarle può significare impedire il ritorno dei fascisti a posti di rilievo, porre i compagni al riparo da persecuzioni". <260
Su questo punto incontriamo il nodo dell'interpretazione 'istituzionale' critica che una parte della Resistenza esprimerà attraverso quella che Claudio Pavone ha definito 'ideologia consiliare' o 'ideologia dell'autonomismo' <261.
Ed è sul terreno sindacale che si consuma la prima significativa rottura tra il governo Badoglio e operai del nord nell'agosto ‘43: il nodo è quello della libertà di rappresentanza e della rottura con l'apparato fascista, attraverso nuovi organismi. Badoglio aveva infatti disposto il passaggio delle organizzazioni sindacali di regime alle dipendenze dei prefetti, ma il ministro delle corporazioni, Piccardi, aveva avviato contatti con esponenti del vecchio sindacalismo prefascista per nominarli commissari e vicecommissari alle diverse confederazioni: "L'operazione è diretta a blandire ed a rassicurare l'opinione pubblica antifascista, ma non si svolge senza contrasti. Ci sono delle ostilità all'interno del governo in primo luogo, provenienti dall'ala più vicina al re, attestata su una linea che vuole la continuità dell'apparato statale e che si illude di conservare un blocco di sane forze d'ordine attorno alla monarchia senza concessioni all'antifascismo o alle richieste popolari. Questa linea è perdente a tutti gli effetti, ma altri conflitti si annodano attorno alla questione sindacale". <262
Ciò cui fa riferimento Ganapini sono le richieste di libertà politica e sindacale, di cui gli scioperi estivi del '43 in particolare a Milano si fanno portavoce nazionali. I commissari sindacali diventano così, da strumento di legittimazione del nuovo governo, dimostrazione del limite invalicabile tra questo e l'antifascismo.
C'è anche un altro elemento da considerare rispetto al mancato consenso della classe operaia milanese verso il fascismo: la sua composizione e le caratteristiche dell'operaio meneghino e dell'hinterland di fine anni Trenta - inizio Quaranta. Alla vigilia della guerra, nel '40-'41, si verifica infatti un incontro importante che è generazionale e sociale al tempo stesso: i vecchi nuclei di lavoratori urbani, dove più forte è la tradizione operaista e l'identificazione con gli sconfitti degli anni Venti, si contaminano con i giovani operai di origine contadina e recente inurbamento. Sono figli di gruppi sociali poverissimi, provenienti dalla Brianza a nord o dalla vastissima area agricola a sud, che vivono le difficoltà dell'immigrazione e non usufruiscono di provvidenze e dopolavoro; inoltre sono i principali obiettivi di quella rivalità tra operai e contadini che la propaganda fascista ha sempre esaltato, fattore che alimenta il senso di emarginazione ed esclusione nei secondi. Non che la classe operaia fosse immune dal pregiudizio antirurale: a Milano il termine 'paolott', bigotto, si riferisce proprio agli immigrati di origine contadine, descritti come sottomessi e incapaci di ribellione <263.
Tuttavia lo scoppio della guerra, il suo andamento, la crisi economica e alimentare, la militarizzazione dell'industria portano a crepe importanti nell'apparato del regime che, alla fine del '42, aprono uno spazio significativo perché la vecchia e la nuova classe operaia esprimano il loro malcontento che presto sfocia in protesta a carattere sindacale. I bombardamenti angloamericani sulla città e nei dintorni rappresentano l'innesco per le prime ridotte, ma significative mobilitazioni già nel novembre-dicembre 1942: "Le masse operaie, che a differenza degli abitanti del centro non possono permettersi di seguire il sensato consiglio del dittatore [di sfollare fuori città, NDA], reagiscono come possono. Anche se i loro atti di indisciplina sono ancora contenuti e limitati (relazione del 25 novembre 1942) hanno sufficiente energia per manifestazioni di malumore alla Breda, all'Alfa Romeo, alla Magneti Marelli; mentre un ritardo nella corresponsione delle paghe provoca all'Isotta Fraschini una sospensione temporanea del lavoro (relazione del 26 dicembre 1942)". <264
Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro rappresentano un elemento unificante tra le diverse generazioni ed estrazioni di operai che, unitamente alla questione abitativa e dei trasporti (connesse direttamente ai danni dei bombardamenti e della guerra), trovano nella fabbrica e nella vita quotidiana i fronti delle loro vertenze. In particolare il fronte delle necessità quotidiane, esterne al posto di lavoro, come luoghi della battaglia sindacale e politica, diventerà importantissimo nella fisionomia della politica del conflitto a Resistenza avviata e nel dopoguerra.
Fino all'8 settembre possiamo individuare i seguenti episodi di conflitto: le già citate astensioni dal lavoro dell'inverno 1942 centrate, fuori dalla fabbrica sulla questione alimentare, abitativa e sanitaria, dentro la fabbrica sul regime di lavoro; gli scioperi del marzo 1943 in Alta Italia, che a Milano iniziano in ritardo a fine mese e che segnano l'inizio vero e proprio della prima parte del ciclo conflittuale di guerra, che durerà fino allo sciopero generale di un anno dopo: la mobilitazione scatena una dura repressione che renderà impossibile fino al 26 luglio qualunque altra manifestazione operaia <265; manifestazioni e scioperi che dal tardo luglio e per tutto agosto attraversano il paese e in particolare i poli industriali; a Milano in particolare il 2 agosto viene lanciato (sulla base dei contrasti già descritti) un ordine del giorno fortemente antibadogliano centrato su 'pane, pace, libertà'. La ripresa di intensi bombardamenti sui grandi centri del nord, tra l'8 e il 17 agosto scatena mobilitazioni e scioperi ancora più vasti. <266
Questione sindacale, questione politica, questione della pace si intrecciano in questa prima fase di politica del conflitto che si relaziona con due interlocutori governativi diversi (la dittatura fascista e il governo monarchico-militare di Badoglio) e dove cresce d'importanza la parola d'ordine dell'insurrezione antifascista fino al 25 luglio e centrale diventano quelle della pace e della libertà sotto Badoglio. I comitati unitari delle opposizioni che nascono nella prima metà del '43 hanno infatti nell'azione insurrezionale il principale elemento di divergenza; la soluzione legalitaria, il golpe di palazzo di luglio mette al riparo (momentaneamente) il fronte antifascista moderato da una prospettiva scomoda.
Le modalità con cui questi interlocutori interpretano e gestiscono il conflitto sociale che esplode in particolare nell'estate confermano la sostanziale continuità con il fascismo e mostrano la ricomparsa di antiche culture di governo, costitutive della classe dirigente italiana: "Attuali agitazioni assumono qua e là tendenza comunista. Masse operaie intenderebbero secondo notizie fiduciarie prossima notte oppure notti successive occupare mano armata uffici pubblici. Pregasi prendere opportuni accordi con autorità militare per stroncare con qualsiasi mezzo tentativi del genere". <267
E ancora: "Le autorità militari pensano di poter rispondere con la forza. Sui maggiori centri industriali vengono fatti affluire consistenti rinforzi. A Milano, in particolare, viene inviata 'una delle due divisioni dislocate sulle “posizioni d'arresto” della Toscana ed una parte delle divisioni di cavalleria rientrate dalla Russia (reggimento bersaglieri e l'artiglieria)'. Il comportamento cui devono ispirarsi le forze in servizio d'ordine pubblico è fissato dalla nota circolare Roatta: '…qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe […] delitto: […] poco sangue versato risparmia fiumi di sangue in seguito' ". <268
86 morti e 329 feriti è il bilancio della repressione governativa; solo a Milano e provincia i morti sono 26. Era corretto il sospetto che avevano le vecchie e le nuove autorità di una presenza comunista dietro le agitazioni? Sicuramente è dalle pagine de l'Unità clandestina che partono gli appelli e le indicazioni sugli obiettivi delle proteste, ma le manifestazioni di strada e molte proteste di lavoro nascono spontaneamente. Il Partito comunista precedente alla svolta di Salerno <269 dell'agosto 1944 è ancora un partito a prevalente tendenza insurrezionalista e cospirativa, con (ridottissimi) nuclei di militanti clandestini nelle fabbriche, l'unico (assieme alle formazioni 'Giustizia e libertà') a non aver lasciato il paese nei duri anni della dittatura. Quando si presenta l'occasione, poche decine di volantini e le copie illegali de l'Unità servono a fornire un embrione di contenuto politico alle lotte economiche e di sopravvivenza. Ed è qui che comincia a formarsi l'immaginario operaio del 'nemico', dove si sovrappongono le figure del fascista, del padrone e, dopo l'8 settembre, dell'occupante nazista.
[NOTE]
259 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, p. 315, Borlinghieri 2003 (Prima edizione 1991)
260 L. Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), p. 69, Franco Angeli 1988
261 C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, p. 81, Bollati Boringhieri 1995
262 Ibidem, p. 56
263 Ibidem, pp. 43-44
264 Ibidem, p. 37
265 Oltre 350 sarebbero stati, secondo diverse fonti orali e testimonianza, gli arresti e le condanne che seguirono gli scioperi.
266 Il 9 agosto alla Pirelli Bicocca di Milano, all'Elettromeccanica, alla Breda, alla Falck di Sesto San Giovanni oltre 15mila lavoratori entrano in sciopero contro la guerra; il 17 agosto il 20-30% degli addetti all'industria di Milano e provincia, circa 65mila persone, si astiene dal lavoro.
267 Carmine Senise (capo della polizia) nel telegramma ai prefetti del 27 luglio 1943, cit. in L. Ganapini, op. cit., p. 51
268 L. Ganapini, op. cit., pp. 52-53
269 Quando il segretario PCI, Palmiro Togliatti, di rientro in Italia lancia la svolta politico-organizzativa definita del 'partito nuovo'.
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017