mercoledì 21 aprile 2021

Se, per un viaggio in Ungheria...


domenica

Comincia che sono qui, ancora a Roma, e leggo un libro. I fiori blu di Queneau.

Dice: tradotto da Calvino. In verità è rifatto, esplicitamente. Calvino spiega in appendice che era complicato tradurlo, perché Queneau aveva inventato tutto, dai nomi artefatti e allusivi (a volte citano, a volte sono nomi parlanti), alle situazioni (pour cause, viene da dire) surreali. In questo caso tradurre significava reinventare tutto in italiano, anche i nomi... E spiega le cose con l’aria imbarazzata di chi vuole scusarsi per essersi trovato a dover inventare troppo... Come non sapesse che tradurre è sempre riscrivere. E cos’è riscrivere se non reinventare? E cos’è inventare se non trovare (ciò che finora non s’era trovato)?

Lascio andare e continuo a leggere. È che partiremo fra tre giorni e prima voglio finire il libro.

Così mi trovo a leggere di un guardiano che carica una pipa profferendo distrattamente frasi di un certo tipo... Lì per lì non capisco: è un refuso? oppure anche in francese è possibile questo gioco di parole per cui delle frasi possono essere proferite come profferta di un certo tipo di dialogo? o invece è un’invenzione sottile del traduttore per ridare appunto un senso altrimenti costruito dall’autore francese?

Mah!

Desolato, ricordo che ieri, una pagina prima, avendo trovato che il protagonista avrebbe potuto andare a letto, mi sono rifiutato di star lì a perdere tempo con queste minuzie. L’ho chiusa lì, ho interrotto la lettura per pensare a cose pratiche.

Solo che le cose pratiche sono anche taluni preparativi per la partenza e non riesco ad evitare l’accostamento del nostro volo, fra tre giorni, con quello malaugurato dell’aereo tedesco che qualche giorno fa s’è fracassato sulle montagne francesi a causa d’un copilota narciso triste fino alla follia.

C’è un nesso?

Ed è che minuzie trascurate... da un medico, da un manager... da addetti a quel lavoro intellettuale diffuso che oggi è responsabile del buon andamento della società... minuzie hanno influito sul prodursi di una catastrofe di centocinquanta vite?

Non era che da tre o quattro secoli eravamo entrati nel tempo della precisione?

Ora la virtù dell’azione in sé, la felice persuasività dell’atto performativo, ha di nuovo cambiato tutto?

Siamo tornati alla bella schiettezza, all’immediatezza cosmica del medioevo tutto fede e destino (e santi benedetti) (oppure Tanato)?

Nel frattempo mi càpita di leggere che la nioque di Francis Ponge (lì per lì uno dice: la gnocca del ventennio semi beota appena trascorso?) non è altro che una pre-sessantottina proposta di scrittura antipoetica, da Ponge allegorizzata nella scrittura invece fonetica della parola conoscenza (ma un po’ contortamente, essendo prima risalito a un supposto grecizzante gnoque da gnosi).

Lo spirito delle movenze sessantottesche starebbe dunque nell’antipoetico, nel senso di farla finita con le seduzioni e gli infingimenti della poesia-parola per andare diretti alla cosa-cosa. Si tratterebbe dunque (come dice un commentatore) del Partito preso delle cose, volume che Ponge pubblica già nel 1942, trovandosi sul sentiero tracciato da Rimbaud quando aveva detto di aspirare a una «poesia oggettiva».

Mi trovo davanti questo tema per merito di Marco Giovenale, di cui da tempo seguo le mosse, le mosse che vedo, senza capirle. Ed ecco che ora egli scrive con chiarezza: «A partire dalle posizioni testuali e critiche di Jean-Marie Gleize e delle rivista Nioques».

Posizioni che Gleize propone come «una specie di programma aperto per quanti si pongono il compito di ‘uscire’ in maniera permanente e di esplorare un dopo-la-poesia che utilizzi tutti i mezzi della ‘prosa in prosa (in prose)’, oltre ogni pretesa estetica e puntando al contrario ad alcuni effetti di conoscenza del mondo, del ‘mistero ambiente’ come diceva Ponge...»

Dunque a partire dalle posizioni di Gleize e di Nioques, «come del gruppo di Questions Théoriques, ma prima ancora dal lavoro di uno degli autori che potremmo pensare alle origini di un cambio di paradigma, e che può essere considerato un maestro per più generazioni di ‘postpoeti’: Denis Roche», si perviene a una volontà di poesia, precisa Marco Giovenale, come «scrittura littérale, piana, non assertiva», che si trova «in posizione diametralmente opposta rispetto a qualsiasi ritorno a formule di tipo espressionista».

A me sembra tuttavia che il bisogno di reale che ha oggi l’uomo, e dunque di dire il reale  prima di agirlo, se è di questo che si tratta, non possa venir confuso con il rifiuto della poesia verbigerante confusa con l’oratoria manipolativa (e dunque - forzando, ma si fa per dire - con la pubblicità o la canzonetta: che pure posseggono un loro appropriato e legittimo statuto retorico, una loro circoscritta bellezza e verità).

La poesia in realtà oggi, mi pare di capire guardando il mondo, è piuttosto fortemente interrogata dalla incalcolabile e sterminata (e anche indeterminata) rivoluzione del reale umano che stiamo vivendo. Ha dunque davanti a sé una sfida esistenziale cui non dovrebbe poter rispondere lasciando ad altri il compito suo. Infatti: ad altri chi? Che cosa sarebbe ciò che risponde a tale bisogno di verità, di scoperta, di invenzione, se non la poesia che, nella piena coscienza di sé, fa deontologicamente il suo lavoro

lunedì

Quanti problemi per chi si accinge a scrivere oggi!... Mah, credo però che sia sempre stato così, consapevolmente o no.

primo aprile

Sull’aereo più o meno un centinaio di persone che da Roma vanno a Budapest. A occhio (e orecchio) pare che siano tutti italiani. La statistica dirà altro, ma il mio gioco mentale è che Roma voglia fare un pesce d’aprile a Budapest scaricandosi tutta lì, sopra il Danubio, con questa e con altre ondate aeree. 

Comunque nessuno dei miei aerei consorti qui associa questo volo con quello finito male altrove (ammesso che oggi altrove non sia poi qui, proprio in virtù di queste faccende di diciamo comunicazione svelta, insomma smart). Chiacchierano paciosi, osservano le nuvole ad altezza d’uomo, leggono bestsellers (o anche solo qualcosa di seller, da fatturato, ma, va da sé, comunque da viaggio), ricordano cose, rifiutano le offerte poliglotte di stewards and hostess i quali (e le quali) intanto, scorrendo inutili lungo la corsia, s’intrattengono, ragionevoli, fra colleghi su fatti loro.

Io ritengo di dover credere che stewards and hostess vadano così elaborando la frustrazione di quelle ridicolizzanti recite apotropaiche, ripetute prima d’ogni volo, circa punti di fuga e gesti portafortuna in caso le cose, qui, vadano storte. Brutto sarebbe, per loro ma anche per me, se mi abbandonassi a presumere che, in questa come nelle altre sette-otto situazioni che la vita disegna ogni giorno per stewards and hostess come per tutti, essi (ed esse), senza star lì troppo a pensare, recitino soltanto, sordi e atoni (sorde e atone), lungo la stereotipata schizofrenia quotidiana di un monocorde si fa così.

Atterraggio. Grigio. Pioviccica.

Infastidisce la scarpinata umida dalla pista al terminal.

Ti devono per forza far notare che il tuo è un volo low cost.

Il taxi invece procede spedito nel gran traffico serale e tu senti che Budapest, come ogni analogo hub dell’esistenza, a quest’ora è compiaciuta di presentarsi capitale e dunque appunto nodo di vita, motore acceso, un gran luogo, dove si elabora e decide.

Per le strade scorrono e corrono auto, autobus e tram, ma non tutti i fruitori di quei mezzi intendono volgere verso qualche loro serale intimità. C’è ancora da fare, prima che la giornata si esaurisca.

Al centro, però, il traffico ha un intoppo, circa all’altezza dell’Oktogon.

Si chiama così la piazza ottagonale più o meno a metà del nagykörút cioè del grand boulevard che, cambiando continuamente nome, attraversa l’intero centro di Pest, insomma dell’intera città, per terminare infine dove comincia l’Isola Margherita. Come dire che termina con il ponte che fa da confine tra Pest e le colline di Buda.

In onore dei costruttori dell’Ungheria moderna, ovverosia Maria Teresa d’Austria (d’Austria sì, questo il cognome, ma di quel paese lei era solo Arciduchessa, seppure regnante, mentre d’Ungheria era ‘Re Apostolico’, non so se mi spiego, in aggiunta poi era anche Regina regnante di Boemia, Regina regnante di Croazia e Regina regnante di Slavonia, Duchessa regnante di Parma, Duchessa regnante di Piacenza, Duca di Milano, Duca di Mantova, infine Granduchessa consorte di Toscana e Imperatrice, purtroppo consorte, perché il poco illuministico Sacro Romano Impero non ammetteva donne regnanti e bisognava arrangiarsi con le forme giuridiche a disposizione... come dire: fatta la legge, trovato l’inganno...).

Il costruttore seguente dell’Ungheria (moderna) poi è stato suo figlio Giuseppe II. Per cui appunto il grand boulevard budapestino (inventato quando è stata inventata a città, vale a dire nel secondo ottocento, quando Parigi era Parigi) ha nome József körút da un lato, Teréz körút nel tratto più centrale e infine nell’altro lato, in onore dell’originario santo Stefano, primo re ungherese cattolico, viene a chiamarsi Szent István körút. Alla fine del quale, il boulevard poi sfocia, come detto, nel Margit hid, ponte sul Danubio dove, nel fiume naturalmente, inizia a sua volta la Margit sziget, l’isola che nel Duecento ospitò, da monaca, una principessa reale di nome Margherita.

Tale monaca rimase a lungo beata. Poi però Pio XII la santificò, nel 1943 la innalzò alla gloria degli altari. Non so se abbia un significato che nel pieno, anzi – dopo Stalingrado – all’apice di quella guerra e allo snodo di tutto, con i gran pensieri che aveva per la testa, il papa trovasse invece il tempo di dedicarsi a una faccenda in fondo opzionale, dato che il relativo processo canonico di santificazione durava da secoli – leggo, in wikipedia, dal 1271 – e non era bastata ad accelerarlo, il processo, neppure la circostanza che, pare, Margherita d’Ungheria fosse una delle voci occulte di Giovanna d’Arco nel 1425.

Né so d’altronde se abbia un significato, poi, che oggi tale spazio valga, e non solo per le agenzie di viaggio ma di fatto, come l’attuale Woodstock europea, cioè come il luogo autentico di una lunga kermesse agostana, pop, folk, blues e soprattutto rock, per giovani liberati non-stop per un mese in una sorta di annuale island of freedom. Boh!

Dunque grosso modo all’Oktogon un ingorgo.

C’è un ingorgo nel senso che le auto private sono in fila e stop, anche se resta ancora libero un margine stradale per i bus e i taxi.

Il nostro taxi scorre, infatti, ma il tassista ci avverte subito che durerà poco, al massimo fino all’inizio di Szent István körút, cioè – almeno così capisco io – all’altezza della Stazione dell’Ovest (ohé, qui alla Nyugati pályaudvar ci ha messo le mani temporibus illis perfino Eiffel, sì quello, quello di Parigi, quello della torre).

Perché?

Beh, a far imbottigliare il traffico sono i lavori per il rinnovo delle rotaie tranviarie lungo tutto il grand boulevard, addirittura anche oltre il ponte Margherita e, una volta a Buda, fino a piazza Mosca.

Il tassista non sembra convinto della cosa, dei lavori, ma fa un gesto come a dire tant’è. Comunque lui, come tutti i tassisti, con i tempi del destino, naviga nel traffico fino a destinazione.

Insomma tutto il mondo è paese. Mi ritorna il ricordo, con un brivido, di come l’anno scorso, una volta che avevo preso la macchina per fare presto perché ero in ritardo, io sia finito imbottigliato dentro il traffico del centro romano, intorno a piazza Colonna, tanto che, depresso, mi ero convinto di non venirne più fuori, se non con l’aiuto della forza pubblica.

In quell’occasione, per salvarmi l’anima, ho voluto pensare che ciò fosse: una teorica claustrofobia, della vita allegoria e dunque così sia.

Sì: le canzonette, le rime, servono, sono una spinta verso il poetico, che è il reale reale, il multipiano delle cose, il loro essere complesso, che sta lì invisibile o almeno astruso, occultato dietro la banalità piatta e sbrigativa dell’emotivo quotidiano.

Solo che queste strade, qui a me, fanno sempre un certo che. Questi viali budapestini sono il percorso di uno dei cortei, credo quello principale, di quel giorno di fine ottobre 1956 in cui la gente andò al palazzo del parlamento per contestare il governo, dando inizio a quella celebre ribellione popolare contro il potere comunista così com’era... o contro il potere comunista comunque?... o contro il potere cattivo?... o contro il potere in sé?... ma, insomma, per che cosa?

Resta che in fondo ogni potere ha oggi un potentissimo nemico potenziale: la vita quotidiana delle persone... [...]

Alberto Scarponi, Appunti di viaggio Roma - Budapest, Reti Dedalus, Anno X - Luglio 2015