Ho conosciuto Alexandre Alexeïeff al Festival del cinema d’animazione di Abano Terme nella primavera del 1971. Era in piedi davanti alla sala del cinema, solenne e aggraziato allo stesso tempo. Mi presentai e lui mi accolse cordialmente. Fino a quel momento, tra i suoi film avevo visto solo Una notte sul Monte Calvo, e l’avevo assai ammirato. “Be’, non ce ne sono molti altri da guardare...” commentò lui con un sorriso. Mi accompagnò in sala, e sedette accanto a me durante la proiezione. Aveva 70 anni, io 25.
Durante il festival trovai molte occasioni per conversare, sia con lui sia con la moglie e coautrice Claire Parker, nata a Boston ma presto trasferitasi a Parigi. Per loro l’età di una persona non significava nulla; allo stesso modo, io avevo sempre avuto amici più anziani, ed essendo giornalista ero abituato ad affrontare e intervistare persone famose e di vaglia. Quando il festival finì, ci lasciammo calorosamente e ci scambiammo gli indirizzi.
Pensavo che questa fosse una delle solite conoscenze da festival: avremmo cenato insieme al prossimo evento, chissà quanti mesi dopo, e magari ci saremmo scambiati gli auguri per il capodanno. Sorprendentemente, la settimana successiva arrivò una cartolina di auguri da Parigi; qualche tempo dopo, una cartolina dalla località balneare di Armor, dove la coppia si stava rilassando per alcuni giorni.
Il messaggio era chiaro: Alexeïeff mi voleva come amico. Presi carta e penna e gli scrissi la prima delle decine di lettere che sarebbero andate avanti e indietro tra Milano e Parigi per undici anni.
Ho adorato Alosha (il suo soprannome per le persone vicine; per quelle vicinissime, Šura; io fui promosso a persona vicinissima negli ultimi tre anni della nostra frequentazione). Era felice di essere un grande artista, ma decisamente non era altezzoso. (Questo approccio si adattava perfettamente alla mia mentalità. Quando, nel corso degli anni, sono riuscito bene in alcuni dei compiti che il lavoro mi imponeva, mi sono condotto con umiltà - NON con l’ipocrita modestia).
Quando pubblicai il mio primo tentativo di storia generale dell’animazione, nel 1978, non ebbe paura di fare da garante, scrivendo una bellissima introduzione. Era il mio maestro, il mio mentore, mio fratello.
Per motivi di età era il fratello maggiore (non un padre, perché la genitorialità non era un’emozione che gli si addicesse). Era anche mio fratello minore (sua dichiarazione) perché gli davo una sensazione di protezione: ero alto e muscoloso e avevo la lingua tagliente.
Lui e Claire vivevano a Parigi, 36 avenue Jean Moulin. Il numero 36 corrispondeva a un portone anonimo, su una facciata anonima. Dietro tutto questo, si apriva un universo diverso. Un vicolo rettilineo lungo una cinquantina di metri, con degli ateliers d’artiste e il relativo orto/frutteto sui due lati. L’ultimo a destra, ombreggiato da un grande tiglio e preceduto da un piccolo giardino, era stato adattato da Alosha e Claire come bottega e abitazione allo stesso tempo. Ho organizzato due volte una retrospettiva monografica sulla coppia a Milano. Nel 1973 facemmo la prima proiezione italiana di Quadri di un’esposizione e la mostra delle acqueforti di lui. Nel 1980 facemmo la prima - e forse unica - proiezione dell’intera produzione dei film (contenente Tre temi, appena ultimato) alla presenza di entrambi i registi.
In quegli undici anni, più volte ero andato a trovarli a Parigi e loro erano venuti da me a Milano. Inoltre, avevamo i festival come punto d’incontro. Ma nel giugno 1981 lui e Claire si erano staccati dalla folla di Annecy, e avevano preferito abitare in un rifugio di montagna nelle Alpi circostanti, che un amico aveva prestato loro.
[...] Quando nessun film era in produzione, Alosha era impegnato a incidere le sue acqueforti, Claire era impegnata con le minuzie delle pulizie quotidiane, ed entrambi leggevano molto. Lui conosceva russo, francese, tedesco e inglese. Lei conosceva l’inglese e il francese e aveva imparato il russo al punto da leggergli ad alta voce Tolstoj e Puskin prima di dormire. Erano lenti e si divertivano a perdere tempo. La loro conversazione era piena di divagazioni. Aneddoti, ricordi, argomenti filosofici molto interessanti. Ma pur sempre divagazioni. Nell’organizzare le retrospettive di Milano ho lavorato con loro e ho affrontato i loro ghirigori mentali, impazzendo.
Avevano una magia segreta e speciale che nessun altro poteva condividere: erano innamorati. Non erano solo una bella coppia o una buona squadra. Erano innamorati come il giorno del loro primo incontro.
Lei lo amava, punto. Lui l’amava e aveva creato con lei una patria tutta sua. Il vero Paese, a quel tempo, era sovietico, e a un russo “bianco” era proibito. Se fosse stato raggiungibile, il contrasto tra la vera vita quotidiana e i suoi ricordi d’infanzia e di adolescenza sarebbe stato devastante.
Ma era russo. Rispondendo al telefono, non diceva “hallo” o “qui Alexeïeff”, ma “Aleksyéyef”. Quando gli feci visita per la prima volta a Parigi, mi portò in un ristorante russo. Nei suoi ultimi, senili giorni, cercava di parlare russo con me. “Šura, abbiamo sempre comunicato in francese. A volte in inglese. Non so dire una parola in russo”. “Tu sei mio amico. Come puoi essere mio amico e non parlare la mia lingua?”. La sua vita era finita il giorno in cui era partito da Vladivostok. Il resto era stato sopravvivenza.
La mente di Claire era chiara e profonda ed eccelleva sia nella logica sia nell’intuizione. Era schietta, non timida, non sottomessa. Una volta l’ho vista confrontarsi con lui per una scelta artistica sullo schermo di spilli, e averla vinta. Ma il ruolo che aveva scelto per se stessa era di supporto, dato che era meno cre- ativa di lui. La sua relazione con me era un sottoprodotto della relazione Alosha-me.
Quando parlava da donna a uomo, parlava volentieri di lui o di loro, mai della propria vita o delle proprie opinioni. Nonostante le insistenti pressioni del marito, non accettò mai di essere una protagonista. L’unica eccezione che conosco fu la sua partecipazione da solista a una giuria del festival di Annecy. L’architettura delle relazioni di Alosha era peculiare. Da un lato, mi presentò a malincuore sua figlia, Svetlana. Quando i suoi nipoti ed io eravamo contemporaneamente a Parigi, li menzionava e notava che avevamo più o meno la stessa età, ma ci teneva separati. Non ha mai detto una parola su scrittori famosi come André Malraux o Philippe Soupault, che erano suoi amici molto stretti. D’altra parte, volle a tutti i costi che incontrassi la vedova di Berthold Bartosch, l’autore dell’Idée (1931) anche se aveva smantellato l’atelier/appartamento sopra il teatro del Vieux Colombier dove il marito aveva realizzato il film. Mi trascinò anche a incontrare George Dunning, il regista del lungometraggio d’animazione Yellow Submarine (1968). Un trascinamento felice, devo dire. Era piuttosto timido nei confronti dei suoi film, e in pubblico sostenne sempre che li amava tutti, su base uguale. In privato, le classifiche erano le seguenti: primi, a pari merito, Una notte sul Monte Calvo e Quadri di un’esposi- zione; terzo, Il naso; quarto, En passant; quinto, Tre temi; sesto, l’intero gruppo di film pubblicitari.
Una notte sul Monte Calvo fu trasposto in film d’animazione anche da Walt Disney, come parte di Fantasia (1940). Alosha sempre insistette che i due cortometraggi erano troppo diversi per essere confrontati ed elogiò la buona animazione del prodotto hollywoodiano. La Disney aveva copiato o preso ispirazione da lui? Era irremovibile: “Alla Disney non erano nemmeno consapevoli che il mio film fosse esistito”.
Alosha fu sempre altruista nei confronti dei suoi colleghi animatori. Amava particolarmente Norman McLaren e la sua incessante ricerca di innovazioni stilistiche e tecniche. I suoi colleghi preferiti erano i polacchi Jan Lenica e Daniel Szczechura, i francesi Paul Grimault e Jean-François Laguionie, l’americano John Hubley.
Un critico cinematografico è sempre a disagio quando incontra un regista, ancor di più quando è un amico intimo. Ci sono tre opzioni: le emozioni influenzano favorevolmente il critico; le emozioni paralizzano un approccio sano al lavoro; le emozioni verso l’autore vanno a modo loro; le emozioni verso il film hanno un itinerario completamente diverso rispetto a quello della vicinanza umana. Sono stato fortunato ad abbracciare, con lui, la ter- za opzione. Ho amato sia l’autore che - separatamente - i film. Potei scrivere i miei saggi Alexeïeffiani senza alcun imbarazzo.
Una volta Alexeïeff mi mostrò il poster di una retrospettiva cinematografica, più una mostra di incisioni, dedicata a lui.
- Che cosa te ne pare?
- La massa in bianco e nero dell’immagine tratta dal film è troppo pesante per bilanciare la filigrana di colore dell’incisione.
- Almeno sei sincero… - borbottò come risposta, piuttosto contrariato.
Aveva creato lui il suo poster...
Durante il festival trovai molte occasioni per conversare, sia con lui sia con la moglie e coautrice Claire Parker, nata a Boston ma presto trasferitasi a Parigi. Per loro l’età di una persona non significava nulla; allo stesso modo, io avevo sempre avuto amici più anziani, ed essendo giornalista ero abituato ad affrontare e intervistare persone famose e di vaglia. Quando il festival finì, ci lasciammo calorosamente e ci scambiammo gli indirizzi.
Pensavo che questa fosse una delle solite conoscenze da festival: avremmo cenato insieme al prossimo evento, chissà quanti mesi dopo, e magari ci saremmo scambiati gli auguri per il capodanno. Sorprendentemente, la settimana successiva arrivò una cartolina di auguri da Parigi; qualche tempo dopo, una cartolina dalla località balneare di Armor, dove la coppia si stava rilassando per alcuni giorni.
Il messaggio era chiaro: Alexeïeff mi voleva come amico. Presi carta e penna e gli scrissi la prima delle decine di lettere che sarebbero andate avanti e indietro tra Milano e Parigi per undici anni.
Ho adorato Alosha (il suo soprannome per le persone vicine; per quelle vicinissime, Šura; io fui promosso a persona vicinissima negli ultimi tre anni della nostra frequentazione). Era felice di essere un grande artista, ma decisamente non era altezzoso. (Questo approccio si adattava perfettamente alla mia mentalità. Quando, nel corso degli anni, sono riuscito bene in alcuni dei compiti che il lavoro mi imponeva, mi sono condotto con umiltà - NON con l’ipocrita modestia).
Quando pubblicai il mio primo tentativo di storia generale dell’animazione, nel 1978, non ebbe paura di fare da garante, scrivendo una bellissima introduzione. Era il mio maestro, il mio mentore, mio fratello.
Per motivi di età era il fratello maggiore (non un padre, perché la genitorialità non era un’emozione che gli si addicesse). Era anche mio fratello minore (sua dichiarazione) perché gli davo una sensazione di protezione: ero alto e muscoloso e avevo la lingua tagliente.
Lui e Claire vivevano a Parigi, 36 avenue Jean Moulin. Il numero 36 corrispondeva a un portone anonimo, su una facciata anonima. Dietro tutto questo, si apriva un universo diverso. Un vicolo rettilineo lungo una cinquantina di metri, con degli ateliers d’artiste e il relativo orto/frutteto sui due lati. L’ultimo a destra, ombreggiato da un grande tiglio e preceduto da un piccolo giardino, era stato adattato da Alosha e Claire come bottega e abitazione allo stesso tempo. Ho organizzato due volte una retrospettiva monografica sulla coppia a Milano. Nel 1973 facemmo la prima proiezione italiana di Quadri di un’esposizione e la mostra delle acqueforti di lui. Nel 1980 facemmo la prima - e forse unica - proiezione dell’intera produzione dei film (contenente Tre temi, appena ultimato) alla presenza di entrambi i registi.
In quegli undici anni, più volte ero andato a trovarli a Parigi e loro erano venuti da me a Milano. Inoltre, avevamo i festival come punto d’incontro. Ma nel giugno 1981 lui e Claire si erano staccati dalla folla di Annecy, e avevano preferito abitare in un rifugio di montagna nelle Alpi circostanti, che un amico aveva prestato loro.
[...] Quando nessun film era in produzione, Alosha era impegnato a incidere le sue acqueforti, Claire era impegnata con le minuzie delle pulizie quotidiane, ed entrambi leggevano molto. Lui conosceva russo, francese, tedesco e inglese. Lei conosceva l’inglese e il francese e aveva imparato il russo al punto da leggergli ad alta voce Tolstoj e Puskin prima di dormire. Erano lenti e si divertivano a perdere tempo. La loro conversazione era piena di divagazioni. Aneddoti, ricordi, argomenti filosofici molto interessanti. Ma pur sempre divagazioni. Nell’organizzare le retrospettive di Milano ho lavorato con loro e ho affrontato i loro ghirigori mentali, impazzendo.
Avevano una magia segreta e speciale che nessun altro poteva condividere: erano innamorati. Non erano solo una bella coppia o una buona squadra. Erano innamorati come il giorno del loro primo incontro.
Lei lo amava, punto. Lui l’amava e aveva creato con lei una patria tutta sua. Il vero Paese, a quel tempo, era sovietico, e a un russo “bianco” era proibito. Se fosse stato raggiungibile, il contrasto tra la vera vita quotidiana e i suoi ricordi d’infanzia e di adolescenza sarebbe stato devastante.
Ma era russo. Rispondendo al telefono, non diceva “hallo” o “qui Alexeïeff”, ma “Aleksyéyef”. Quando gli feci visita per la prima volta a Parigi, mi portò in un ristorante russo. Nei suoi ultimi, senili giorni, cercava di parlare russo con me. “Šura, abbiamo sempre comunicato in francese. A volte in inglese. Non so dire una parola in russo”. “Tu sei mio amico. Come puoi essere mio amico e non parlare la mia lingua?”. La sua vita era finita il giorno in cui era partito da Vladivostok. Il resto era stato sopravvivenza.
La mente di Claire era chiara e profonda ed eccelleva sia nella logica sia nell’intuizione. Era schietta, non timida, non sottomessa. Una volta l’ho vista confrontarsi con lui per una scelta artistica sullo schermo di spilli, e averla vinta. Ma il ruolo che aveva scelto per se stessa era di supporto, dato che era meno cre- ativa di lui. La sua relazione con me era un sottoprodotto della relazione Alosha-me.
Quando parlava da donna a uomo, parlava volentieri di lui o di loro, mai della propria vita o delle proprie opinioni. Nonostante le insistenti pressioni del marito, non accettò mai di essere una protagonista. L’unica eccezione che conosco fu la sua partecipazione da solista a una giuria del festival di Annecy. L’architettura delle relazioni di Alosha era peculiare. Da un lato, mi presentò a malincuore sua figlia, Svetlana. Quando i suoi nipoti ed io eravamo contemporaneamente a Parigi, li menzionava e notava che avevamo più o meno la stessa età, ma ci teneva separati. Non ha mai detto una parola su scrittori famosi come André Malraux o Philippe Soupault, che erano suoi amici molto stretti. D’altra parte, volle a tutti i costi che incontrassi la vedova di Berthold Bartosch, l’autore dell’Idée (1931) anche se aveva smantellato l’atelier/appartamento sopra il teatro del Vieux Colombier dove il marito aveva realizzato il film. Mi trascinò anche a incontrare George Dunning, il regista del lungometraggio d’animazione Yellow Submarine (1968). Un trascinamento felice, devo dire. Era piuttosto timido nei confronti dei suoi film, e in pubblico sostenne sempre che li amava tutti, su base uguale. In privato, le classifiche erano le seguenti: primi, a pari merito, Una notte sul Monte Calvo e Quadri di un’esposi- zione; terzo, Il naso; quarto, En passant; quinto, Tre temi; sesto, l’intero gruppo di film pubblicitari.
Una notte sul Monte Calvo fu trasposto in film d’animazione anche da Walt Disney, come parte di Fantasia (1940). Alosha sempre insistette che i due cortometraggi erano troppo diversi per essere confrontati ed elogiò la buona animazione del prodotto hollywoodiano. La Disney aveva copiato o preso ispirazione da lui? Era irremovibile: “Alla Disney non erano nemmeno consapevoli che il mio film fosse esistito”.
Alosha fu sempre altruista nei confronti dei suoi colleghi animatori. Amava particolarmente Norman McLaren e la sua incessante ricerca di innovazioni stilistiche e tecniche. I suoi colleghi preferiti erano i polacchi Jan Lenica e Daniel Szczechura, i francesi Paul Grimault e Jean-François Laguionie, l’americano John Hubley.
Un critico cinematografico è sempre a disagio quando incontra un regista, ancor di più quando è un amico intimo. Ci sono tre opzioni: le emozioni influenzano favorevolmente il critico; le emozioni paralizzano un approccio sano al lavoro; le emozioni verso l’autore vanno a modo loro; le emozioni verso il film hanno un itinerario completamente diverso rispetto a quello della vicinanza umana. Sono stato fortunato ad abbracciare, con lui, la ter- za opzione. Ho amato sia l’autore che - separatamente - i film. Potei scrivere i miei saggi Alexeïeffiani senza alcun imbarazzo.
Una volta Alexeïeff mi mostrò il poster di una retrospettiva cinematografica, più una mostra di incisioni, dedicata a lui.
- Che cosa te ne pare?
- La massa in bianco e nero dell’immagine tratta dal film è troppo pesante per bilanciare la filigrana di colore dell’incisione.
- Almeno sei sincero… - borbottò come risposta, piuttosto contrariato.
Aveva creato lui il suo poster...
Alexandre Alexeïeff (1901-1982) lasciò la nativa Russia nel 1919, fuggendo la guerra civile seguita alla Rivoluzione del 1917. Si stabilì a Parigi nel 1921. Appresa la tecnica dell’acquaforte da autodidatta, divenne in breve tempo uno dei più stimati illustratori di libri da collezione. La sua prima moglie, Alexandra Grinevsky, lo rese padre di una bambina, Svetlana, nel 1923; ma il matrimonio non durò a lungo. Definitivo fu invece l’incontro con l’americana di Parigi Claire Parker (1906-1981), che egli conobbe nel 1930 e che da allora in poi fu l’altra metà di lui, sia nella vita sia nell’arte.
Ideato e fabbricato il primo schermo di spilli (una tavola di legno sulla quale erano infisse centinaia di migliaia di spilli retrattili), i due girarono il cortometraggio Una notte sul Monte Calvo (1933), che trasponeva in immagini l’omonimo brano musicale di Modest Musorgskij. Ritraeva un sabba di streghe, con immagini (permesse dallo schermo di spilli) che equivalevano ad acqueforti animate. Per l’arte cinematografica era una novità accecante.
Durante la Seconda guerra mondiale la coppia si trasferì in Nordamerica, dove lavorò per il National Film Board of Canada (En passant, 1942). Di ritorno a Parigi, nel 1963 crearono Il naso, dal racconto di Nikolaj Gogol, nel 1972 Quadri di un’esposizione, nel 1980 Tre temi (questi ultimi due cortometraggi erano di nuovo basati su musica di Musorgskij).
Giannalberto Bendazzi, Alexandre Alexeïeff. Lui e io in Diari di Cineclub
Ideato e fabbricato il primo schermo di spilli (una tavola di legno sulla quale erano infisse centinaia di migliaia di spilli retrattili), i due girarono il cortometraggio Una notte sul Monte Calvo (1933), che trasponeva in immagini l’omonimo brano musicale di Modest Musorgskij. Ritraeva un sabba di streghe, con immagini (permesse dallo schermo di spilli) che equivalevano ad acqueforti animate. Per l’arte cinematografica era una novità accecante.
Durante la Seconda guerra mondiale la coppia si trasferì in Nordamerica, dove lavorò per il National Film Board of Canada (En passant, 1942). Di ritorno a Parigi, nel 1963 crearono Il naso, dal racconto di Nikolaj Gogol, nel 1972 Quadri di un’esposizione, nel 1980 Tre temi (questi ultimi due cortometraggi erano di nuovo basati su musica di Musorgskij).
Giannalberto Bendazzi, Alexandre Alexeïeff. Lui e io in Diari di Cineclub