venerdì 23 aprile 2021

Quando mi trasferii a Genova...

Giorgio Caproni a Rovegno, comune della Val di Trebbia in provincia di Genova, in una foto del 1937 - Fonte: Temi di Cultura cit. infra

Qualche tempo addietro ho letto una tua storia a puntate della poesia ligure, nella quale ricordi con tenerezza vibrante certa aria intellettuale che circolava intorno a «Riviera Ligure» e poi a «Circoli». Sembra quasi che tu abbia respirato in quell’atmosfera stimolante, mentre poi consultando le tappe della tua vita uno scopre che sei toscano (di Livorno, per la cronaca) e che le pagine delle due riviste le hai sfogliate in biblioteca. Eppure sei lo stesso dei loro, come mai?
Quando mi trasferii a Genova, nel ’22, avevo dieci anni. Mi sono dunque formato nell’ambiente «ligustico», non in quello «tosco». Studiando musica mi occupavo, necessariamente, anche di letteratura, ed è perciò naturale che io abbia avvicinati per primi i poeti della Riviera Ligure, o per meglio dire i poeti del «gruppo ligure» cui accenna Boine a proposito di Sbarbaro: Ceccardo, gli stessi Boine e Sbarbaro, Mario Novaro ecc., cui si aggiunsero poi, con altri, Montale, Grande, Barile, Bianchi, Descalzo, Laurano, Capasso che per primo s’occupò delle mie cose e le stampò. Nulla di strano dunque che io abbia in qualche modo subito, anche per certe affinità di carattere che andavo scoprendo, l’influsso di quell’ambiente: ambiente allora molto vivo, com’è risaputo.
CAPRONI CONSIDERA LA CRITICA UNA CATTIVA AZIONE di G.A. Cibotto, “La Fiera letteraria”, 1 agosto 1965

[...] Quali segni intercorrono tra la sua fanciullezza e la sua poesia? Esiste qualche episodio particolarmente indicativo?
I segni, forse, li reco più sulla pelle che sui versi. Ero un ragazzaccio, sempre in mezzo alle sassaiole, quando non me ne stavo incantato o imbambolato. Non ero molto allegro: tutto «mi metteva veleno» in partenza: mi noleggiavo per un’ora la barca o la bicicletta e già vedevo quell’ora finita. Ne soffrivo in anticipo la fine. Ho anche sentito il peso della guerra ’15-’18, pur se fantolino, e delle fucilate per la strada. Livorno non era una città tranquilla. Ne ho vista ammazzar gente, sui marciapiede.
C’era già la guerra quando nacqui, nel ’12.
Con le sue strade e vicoli e porte e mare, Genova (la città «cui nulla, nemmeno la morte / - mai - mi ricondurrà») è per lei luogo di mito, come anche Livorno, come la Valtrebbia. Cos’è e cos’è stata, invece, Roma?
È stata il luogo dei fecondi incontri, delle fruttuose amicizie. Roma ha lasciato tracce visibili in Cronistoria.
«Porta» è termine frequente nei suoi versi. Ha un particolare valore simbolico?
Spero di no. Sarebbe troppo ovvio.

Marzo 1984. Il Sindaco di Livorno Alì Nannipieri consegna a Giorgio Caproni la “Livornina d’Oro”, la massima onorificenza cittadina - Fonte: Temi di Cultura cit. infra

[...] Si sente in qualche modo poeta ligure, nella tradizione degli Sbarbaro, se non altro per il senso della disperazione e della tenerezza insieme?
La «linea linguistica» la inventai io, ma ha poco fondamento critico.
Alludevo a certe affinità di cultura, di reazione al paesaggio, di sentire.
«Che affinità di sentire», scrisse a un amico Sbarbaro, parlandogli di me. Ci conoscemmo tardi (ma ci volemmo un bene immenso), quando «Millo» mi ringraziò d’un articolo dicendomi che ero l’unico ad essere entrato nel merito della sua poesia.
Si può dire che mentre ne Il seme del piangere (’59) la figura di Annina, la madre, incarna il mito della giovinezza e il recupero di un mondo passato, Il passaggio d’Enea (’56), di quell’Enea che va alla ricerca di una nuova terra dove fondare la nuova città, rappresenta l’opposizione al presente, alla civiltà delle macchine, al condizionamento generale che ci livella tutti?
Nessun «mito della giovinezza», nella mia poesia, e nessun rimpianto per il passato. La ragazza Annina (non la madre) ho cercato di immaginarla nel suo tempo per renderla più viva. Il Seme è un fiore posto sulla sua tomba: un libro tutto vezzeggiativo, anche se sottilmente polemico – forse – contro la guerra ecc. Il mio Enea è quello del monumentino di Piazza Bandiera, a Genova: la piazza più bombardata. Ho visto in lui l’immagine dell’uomo d’oggi (o meglio degli anni Cinquanta) solo a dover sostenere un passato decrepito e un avvenire ancora incerto sulle proprie gambe.
Oggi la sua poesia è volta a indicare qualche certezza?
La mia poesia ha sempre indicato certezza: stoica certezza. Pochi hanno saputo leggerla in questa direzione. Afferma per negazioni. La dedizione (in senso militare di resa) sulla quale insiste il mio più recente mézigue, ha anch’essa sapore oppositivo, se non proprio aggressivo.
Treno, locomotiva, stazione, viaggiare per ferrovia, che significato hanno per lei? Se si pensa ai versi del Congedo («Di questo sono certo io: / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento. / Scendo. Buon proseguimento»), si può dire che indicano il valore di transito della vita stessa, laddove Le stanze della funicolare, come ha scritto Barberi Squarotti, rappresentano «un viaggio attraverso la vita e attraverso una specie di lucido, meccanico inferno moderno»?
Non saprei. Sono metafore, quelle ferroviarie, venutemi da sé. Forse il treno (che non può fermarsi né deviare quando vuole, come l’automobile) potrebbe darmi il senso quasi dell’agostiniana predestinazione, in luogo del libero arbitrio. E così la funicolare, con quel cavo che la tira.
Ma le Stanze (la funicolare del Righi sbuca da una galleria) potrebbero essere lette anche in chiave freudiana.
Per tornare al Congedo del viaggiatore cerimonioso, ci pare che qui sia possibile rintracciare in modo più scoperto la tematica fondamentale della sua poesia. Qui infatti le piccole cose quotidiane - nello stile dimesso che sappiamo, popolare a tratti (pensiamo a Il fischio, a Prudenza della guida, al Lamento (o boria) del preticello deriso, ecc.), schivo sempre e quasi di smalto - si accendono di una luce di verità, si fondono con i problemi dell’esistenza, con il sentimento della morte, accennano a un «altrove-al di là» che incombe, al «nemico» che «è già dentro». Il libro che ancora lei non ha dato alle stampe si muove nella stessa direzione? Ed è altrettanto potente e suggestiva la sensualità dell’al di qua?
Sì, ma in modo più scarno, più trivellato. Vorrei però chiarire che io non pongo nessun aldilà oltreterreno. In Versi incontrati poi potrà leggere, ripreso da Emily Brönte: «We would not leave our native home/for any world beyond the tomb». Beyond the tomb io non vedo nulla: nemmeno il nulla, che sarebbe già qualcosa per quel determinativo «il». Forse Pascal mi annovererebbe fra i ciechi. Cieco o no, per me il rovello o mistero dell’esistenza è qua, impenetrabile alla vista opponendosi «il muro della terra», per usare un’espressione dantesca che forse adotterò come titolo. C’è un piccolo pazzo del mio libro, che vorrebbe forare quel muro, ma non per vedere cose c’è di là, bensì cosa c’è di qua: qua. Lei usa la parola «sensuale». È una parola equivoca. Ma capisco cosa intende dire. Ho già spiegato di che genere è il mio attaccamento agli oggetti.
MOLTI DOTTORI NESSUN POETA NUOVO. A COLLOQUIO CON GIORGIO CAPRONI a cura di Jolanda Insana, “La Fiera letteraria”, 19 gennaio 1975

Dialogo sulla Letteratura. Giorgio Caproni: le interviste, a cura di Lorenzo Greco, Volume promosso in occasione del centenario della nascita di Giorgio Caproni da Comune di Livorno e Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno, TEMI DI CULTURA n. 3 - Dicembre 2012