La misteriosa identità di un nemico lontano nel tempo: la leggenda del "tedesco buono" catturato e ucciso dai partigiani italiani nella primavera del '44. Un racconto indagine fra i dubbi della storia e le inquietudini della coscienza.
[...] Questo racconto è la ricerca di una identità e la ricostruzione di una storia. Il cavaliere solitario, il "tedesco buono", era solito uscire ogni mattina, entrare nei casolari, passare tra la gente e poi rientrare nella sua guarnigione. Un giorno, nel suo andare si è spinto a ridosso del fiume, lì erano in sosta alcuni partigiani. La cattura, poi l'eliminazione. A questa sparizione segue da parte dei tedeschi una ricerca senza rastrellamenti. Il racconto è per Revelli una incessante ricerca, non solo anagrafica del giovane tedesco, ma della sua vita, dei suoi sentimenti. E così le vite di Revelli e di Rudolf Knaut si intrecciano. Entrambi hanno vissuto la campagna di Russia, la guerra e la presenza in territori altrui. Ma allora chi è il nemico?
Redazione, Nuto Revelli. Il disperso di Marburg, Einaudi
[...] Questo racconto è la ricerca di una identità e la ricostruzione di una storia. Il cavaliere solitario, il "tedesco buono", era solito uscire ogni mattina, entrare nei casolari, passare tra la gente e poi rientrare nella sua guarnigione. Un giorno, nel suo andare si è spinto a ridosso del fiume, lì erano in sosta alcuni partigiani. La cattura, poi l'eliminazione. A questa sparizione segue da parte dei tedeschi una ricerca senza rastrellamenti. Il racconto è per Revelli una incessante ricerca, non solo anagrafica del giovane tedesco, ma della sua vita, dei suoi sentimenti. E così le vite di Revelli e di Rudolf Knaut si intrecciano. Entrambi hanno vissuto la campagna di Russia, la guerra e la presenza in territori altrui. Ma allora chi è il nemico?
Redazione, Nuto Revelli. Il disperso di Marburg, Einaudi
Cent’anni fa, il 21 luglio 1919, nasceva Nuto Revelli: alpino, partigiano, scrittore di etica civile.
Il disperso di Marburg, pubblicato da Einaudi nel 1994, segue le fila di un’inchiesta condotta da Nuto Revelli nell’arco di ben otto anni e, come altri suoi libri, ha la struttura di un diario.
Revelli aveva detestato per tanti anni i tedeschi, identificandoli con l’ideologia disumana che li aveva condotti in una guerra terribile. Tenente del battaglione Tirano, aveva conosciuto la durezza e la protervia dell’esercito germanico durante la ritirata di Russia, e poi durante la Resistenza, da comandante partigiano nelle fila di Giustizia e Libertà. Nell’ultima parte della sua vita era venuto a sapere di un tedesco forse gentile d’animo, forse comprensivo, che amava cavalcare da solo, ucciso dai partigiani senza un serio motivo. Questa morte lo colpì; cercò di saperne di più. Nella speranza di scoprire un alter ego, un altro uomo che ha sofferto e che ha poi capito, e che non ha seminato dolore.
“Quando la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra, già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com'ero io dopo l'esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà sembrava prendere il sopravvento, scattava l'allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi aperti”.
Di dispersi Revelli ne aveva visti tanti durante la ritirata di Russia, uomini, o meglio ragazzi, che a un certo punto non ce la facevano più, si accostavano ai margini della pista, sfiniti e congelati, si accasciavano, chiedevano un’ultima volta aiuto e poi finivano di vivere. Nella sola provincia di Cuneo i dispersi furono 6.500, scomparsi nel nulla, e altrettante famiglie, per lo più contadine, si chiesero per anni che fine avesse fatto il loro congiunto, se un giorno fosse tornato. Il disperso è qualcuno che non è vivo e che non è morto, non si sa più nulla di lui. Anche il soldato tedesco è uno di loro, e per Revelli diventa un simbolo, e prova a scoprire chi era. “Non una ma cento volte, nei lunghi giorni e nelle lunghe notti della ritirata di Russia, ho rischiato di diventare un «disperso»”.
Alla fine dell’indagine non troverà un “tedesco buono” ma un uomo con poca voglia di fare il soldato, che ha combattuto come lui in Russia, perdendovi il fratello, dichiarato disperso, e che in Italia muore in modo imprevedibile e assurdo. Non un innocente, certo una vittima, una vita sprecata.
Non a caso Il disperso di Marburg otterrà un grande successo sia in Italia sia in Germania, tra i tedeschi è forte il desiderio di scoprire che non tutti i loro padri e i loro nonni si erano fatti annichilire dal pensiero unico nazista, che c’erano stati spazi di ragione e di umanità anche tra le fila dell’esercito.
Quando comincia la storia di questo libro? Revelli apprende le prime notizie del ‘tedesco buono’ durante il lavoro su Il mondo dei vinti, all’inizio degli anni Settanta. Mentre parla con Marco, un ex partigiano, dei rapporti tra gli uomini della Resistenza e il mondo contadino, quest’ultimo gli racconta di un evento singolare. “Nell’estate del ’44 avvenne un fatto che pochi ricordano e che forse neanche tu conosci. Un ufficiale tedesco tutte le mattine, alla stessa ora, usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco, e seguendo sempre lo stesso itinerario raggiungeva la strada che unisce il santuario della Madonna degli Angeli alla cappella della Crocetta. Nei pressi di Tetto Graglia c'è una stradina che scende lungo la ripa e poi si perde nella striscia di terra compresa tra l'altopiano e il greto del Gesso. Il tedesco imboccava questa stradina, superava il sottopassaggio della ferrovia Cuneo-Borgo, poi si inoltrava nell'aperta campagna. Era un uomo tranquillo, sembrava una brava persona. A volte sostava sull'aia della nostra cascina, dove scambiava qualche parola con i bambini. La gente non lo temeva, si era abituata a vederlo comparire sempre alla stessa ora. Un mattino quel tedesco venne ucciso, non si è mai saputo da chi, poco lontano dalla nostra casa. Il suo cavallo ripercorse il solito itinerario e arrivò, solo, al cancello della caserma. Iniziò allora un rastrellamento che durò l'intera giornata, e meno male che non trovarono il morto, altrimenti sarebbe successo il finimondo. Avrebbero ucciso almeno dieci persone innocenti e bruciato tutte le case dei dintorni”.
Revelli è colpito da questa storia, vuole saperne di più, ma Marco è solo un testimone indiretto, non ha altri dettagli da raccontare. E così Revelli lo saluta, dicendogli che lo avrebbe cercato ancora per chiedergli aiuto nella ricerca di fonti e testimoni. Poi, il lavoro, le ricerche e la scrittura di altre storie, gli fanno dimenticare quella vicenda. Alla fine, in guerra erano morti milioni di uomini, ogni tedesco ucciso, buono o cattivo che fosse, era un nemico in meno, e a quell’immagine del soldato che salutava i bambini sull’aia si sovrapponevano quelle dei bambini ebrei ridotti alla fame visti a Stolbtzj, in Bielorussia, dove la sua tradotta aveva sostato nel luglio del ’42, durante il viaggio verso il fronte russo.
Però quel soldato che cavalcava solitario, quel modo poco ortodosso di fare l’ufficiale, lo intrigavano. Gli ampi spiazzi nei dintorni del torrente Gesso consentivano cavalcate a briglia sciolta, e l’arco delle montagne, ben visibile da quei campi spogli di alberi, aggiungeva bellezza e forse quiete a quel vagare. Tra l’altro, Revelli conosceva bene quella casermetta di San Rocco, vi aveva trascorso alcuni mesi nell’inverno 1941-42, prima della partenza per il fronte russo.
[...] Forse quell’ufficiale era un romantico individualista? Magari insofferente verso l’ideologia degli occupanti?
Revelli vede forse in lui un altro se stesso, che il destino ha portato a combattere con un’altra divisa, con dubbi e passioni individuali che lo rendono diverso dalla terribile macchina da guerra cui apparteneva.
La ricerca riprende tempo dopo: Revelli raccoglie dettagli dai testimoni di allora, uomini e donne che sanno, incerti anche a distanza di tanti anni tra il dire e il non dire, e da incontri fortunati, come quelli con alcuni storici tedeschi in occasione del Convegno Una storia di tutti - Prigionieri, internati, deportati italiani della seconda guerra mondiale (Torino, 2-3-4 novembre 1987). Lì riesce a parlare con Gerhard Schreiber, autore di accurati studi sugli internati militari italiani in Germania, con Karl Heinz Roth, esperto di archivi, e con Cristoph Schminck-Gustavus, particolarmente interessato al tema delle fonti orali, dei testimoni diretti degli eventi storici.
Nuto Revelli segue le tracce del soldato disperso con la cura, la passione e anche la testarda ostinazione di sempre. Cerca di far parlare i testimoni senza fare pressioni, lasciando che le parole escano fuori spinte dalla fiducia, sapendo che chi conosce la verità ha spesso il desiderio di rivelarla. Si tratta di un uomo ucciso, e chi sa, nonostante sia passato tanto tempo, ha ancora paura. A questa si affiancano la consueta diffidenza e la radicata prudenza dei contadini. In quel mondo,“Ficte nen” era un modo di dire diffuso, “non ficcarti”, “non immischiarti”. Le versioni sono diverse, anche su dettagli minimi come il mese, il colore del cavallo, il luogo dell’agguato, la nazionalità dell’ufficiale, probabilmente tedesco ma forse slavo. Non si sa neppure quali battaglioni tedeschi stazionassero nel 1944 in quella zona.
Nella lunga indagine lo accompagnano tre studiosi: gli storici Carlo Gentile, Cristoph Schminck-Gustavus e Michele Calandri, ognuno dando un contributo diverso ma essenziale. Revelli scopre la disponibilità e la cura delle istituzioni tedesche verso la memoria e la documentazione storica, e trova invece difficoltà nel nostro Paese. Ma anche gli archivi germanici hanno grosse lacune, a causa del caos prodotto dagli eventi bellici. Molte le piste avviate e poi finite nel nulla, molti i momenti nei quali pensa di rinunciare: dopo tanto tempo dedicato a ricerche su una pluralità di soggetti - soldati, uomini e donne del mondo contadino - quella ricerca su un singolo, su una storia di breve respiro, gli pare un azzardo, un capriccio. [...]
Giuseppe Mendicino, Nuto Revelli e quel cavaliere di Marburg che non amava la guerra, DOPPIOZERO, 31 Gennaio 2019
Il disperso di Marburg, pubblicato da Einaudi nel 1994, segue le fila di un’inchiesta condotta da Nuto Revelli nell’arco di ben otto anni e, come altri suoi libri, ha la struttura di un diario.
Revelli aveva detestato per tanti anni i tedeschi, identificandoli con l’ideologia disumana che li aveva condotti in una guerra terribile. Tenente del battaglione Tirano, aveva conosciuto la durezza e la protervia dell’esercito germanico durante la ritirata di Russia, e poi durante la Resistenza, da comandante partigiano nelle fila di Giustizia e Libertà. Nell’ultima parte della sua vita era venuto a sapere di un tedesco forse gentile d’animo, forse comprensivo, che amava cavalcare da solo, ucciso dai partigiani senza un serio motivo. Questa morte lo colpì; cercò di saperne di più. Nella speranza di scoprire un alter ego, un altro uomo che ha sofferto e che ha poi capito, e che non ha seminato dolore.
“Quando la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra, già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com'ero io dopo l'esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà sembrava prendere il sopravvento, scattava l'allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi aperti”.
Di dispersi Revelli ne aveva visti tanti durante la ritirata di Russia, uomini, o meglio ragazzi, che a un certo punto non ce la facevano più, si accostavano ai margini della pista, sfiniti e congelati, si accasciavano, chiedevano un’ultima volta aiuto e poi finivano di vivere. Nella sola provincia di Cuneo i dispersi furono 6.500, scomparsi nel nulla, e altrettante famiglie, per lo più contadine, si chiesero per anni che fine avesse fatto il loro congiunto, se un giorno fosse tornato. Il disperso è qualcuno che non è vivo e che non è morto, non si sa più nulla di lui. Anche il soldato tedesco è uno di loro, e per Revelli diventa un simbolo, e prova a scoprire chi era. “Non una ma cento volte, nei lunghi giorni e nelle lunghe notti della ritirata di Russia, ho rischiato di diventare un «disperso»”.
Alla fine dell’indagine non troverà un “tedesco buono” ma un uomo con poca voglia di fare il soldato, che ha combattuto come lui in Russia, perdendovi il fratello, dichiarato disperso, e che in Italia muore in modo imprevedibile e assurdo. Non un innocente, certo una vittima, una vita sprecata.
Non a caso Il disperso di Marburg otterrà un grande successo sia in Italia sia in Germania, tra i tedeschi è forte il desiderio di scoprire che non tutti i loro padri e i loro nonni si erano fatti annichilire dal pensiero unico nazista, che c’erano stati spazi di ragione e di umanità anche tra le fila dell’esercito.
Quando comincia la storia di questo libro? Revelli apprende le prime notizie del ‘tedesco buono’ durante il lavoro su Il mondo dei vinti, all’inizio degli anni Settanta. Mentre parla con Marco, un ex partigiano, dei rapporti tra gli uomini della Resistenza e il mondo contadino, quest’ultimo gli racconta di un evento singolare. “Nell’estate del ’44 avvenne un fatto che pochi ricordano e che forse neanche tu conosci. Un ufficiale tedesco tutte le mattine, alla stessa ora, usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco, e seguendo sempre lo stesso itinerario raggiungeva la strada che unisce il santuario della Madonna degli Angeli alla cappella della Crocetta. Nei pressi di Tetto Graglia c'è una stradina che scende lungo la ripa e poi si perde nella striscia di terra compresa tra l'altopiano e il greto del Gesso. Il tedesco imboccava questa stradina, superava il sottopassaggio della ferrovia Cuneo-Borgo, poi si inoltrava nell'aperta campagna. Era un uomo tranquillo, sembrava una brava persona. A volte sostava sull'aia della nostra cascina, dove scambiava qualche parola con i bambini. La gente non lo temeva, si era abituata a vederlo comparire sempre alla stessa ora. Un mattino quel tedesco venne ucciso, non si è mai saputo da chi, poco lontano dalla nostra casa. Il suo cavallo ripercorse il solito itinerario e arrivò, solo, al cancello della caserma. Iniziò allora un rastrellamento che durò l'intera giornata, e meno male che non trovarono il morto, altrimenti sarebbe successo il finimondo. Avrebbero ucciso almeno dieci persone innocenti e bruciato tutte le case dei dintorni”.
Revelli è colpito da questa storia, vuole saperne di più, ma Marco è solo un testimone indiretto, non ha altri dettagli da raccontare. E così Revelli lo saluta, dicendogli che lo avrebbe cercato ancora per chiedergli aiuto nella ricerca di fonti e testimoni. Poi, il lavoro, le ricerche e la scrittura di altre storie, gli fanno dimenticare quella vicenda. Alla fine, in guerra erano morti milioni di uomini, ogni tedesco ucciso, buono o cattivo che fosse, era un nemico in meno, e a quell’immagine del soldato che salutava i bambini sull’aia si sovrapponevano quelle dei bambini ebrei ridotti alla fame visti a Stolbtzj, in Bielorussia, dove la sua tradotta aveva sostato nel luglio del ’42, durante il viaggio verso il fronte russo.
Però quel soldato che cavalcava solitario, quel modo poco ortodosso di fare l’ufficiale, lo intrigavano. Gli ampi spiazzi nei dintorni del torrente Gesso consentivano cavalcate a briglia sciolta, e l’arco delle montagne, ben visibile da quei campi spogli di alberi, aggiungeva bellezza e forse quiete a quel vagare. Tra l’altro, Revelli conosceva bene quella casermetta di San Rocco, vi aveva trascorso alcuni mesi nell’inverno 1941-42, prima della partenza per il fronte russo.
[...] Forse quell’ufficiale era un romantico individualista? Magari insofferente verso l’ideologia degli occupanti?
Revelli vede forse in lui un altro se stesso, che il destino ha portato a combattere con un’altra divisa, con dubbi e passioni individuali che lo rendono diverso dalla terribile macchina da guerra cui apparteneva.
La ricerca riprende tempo dopo: Revelli raccoglie dettagli dai testimoni di allora, uomini e donne che sanno, incerti anche a distanza di tanti anni tra il dire e il non dire, e da incontri fortunati, come quelli con alcuni storici tedeschi in occasione del Convegno Una storia di tutti - Prigionieri, internati, deportati italiani della seconda guerra mondiale (Torino, 2-3-4 novembre 1987). Lì riesce a parlare con Gerhard Schreiber, autore di accurati studi sugli internati militari italiani in Germania, con Karl Heinz Roth, esperto di archivi, e con Cristoph Schminck-Gustavus, particolarmente interessato al tema delle fonti orali, dei testimoni diretti degli eventi storici.
Nuto Revelli segue le tracce del soldato disperso con la cura, la passione e anche la testarda ostinazione di sempre. Cerca di far parlare i testimoni senza fare pressioni, lasciando che le parole escano fuori spinte dalla fiducia, sapendo che chi conosce la verità ha spesso il desiderio di rivelarla. Si tratta di un uomo ucciso, e chi sa, nonostante sia passato tanto tempo, ha ancora paura. A questa si affiancano la consueta diffidenza e la radicata prudenza dei contadini. In quel mondo,“Ficte nen” era un modo di dire diffuso, “non ficcarti”, “non immischiarti”. Le versioni sono diverse, anche su dettagli minimi come il mese, il colore del cavallo, il luogo dell’agguato, la nazionalità dell’ufficiale, probabilmente tedesco ma forse slavo. Non si sa neppure quali battaglioni tedeschi stazionassero nel 1944 in quella zona.
Nella lunga indagine lo accompagnano tre studiosi: gli storici Carlo Gentile, Cristoph Schminck-Gustavus e Michele Calandri, ognuno dando un contributo diverso ma essenziale. Revelli scopre la disponibilità e la cura delle istituzioni tedesche verso la memoria e la documentazione storica, e trova invece difficoltà nel nostro Paese. Ma anche gli archivi germanici hanno grosse lacune, a causa del caos prodotto dagli eventi bellici. Molte le piste avviate e poi finite nel nulla, molti i momenti nei quali pensa di rinunciare: dopo tanto tempo dedicato a ricerche su una pluralità di soggetti - soldati, uomini e donne del mondo contadino - quella ricerca su un singolo, su una storia di breve respiro, gli pare un azzardo, un capriccio. [...]
Giuseppe Mendicino, Nuto Revelli e quel cavaliere di Marburg che non amava la guerra, DOPPIOZERO, 31 Gennaio 2019
Nella bibliografia di Revelli, Il disperso di Marburg (1994, ma con un periodo di gestazione che si snoda tra il 1986 e il 1993) si situa dopo quest’ultima fase, che ha visto l’autore impegnato in una ricerca di tipo più prettamente socio-antropologico. L’opera (che non mi sento di definire né una cronaca, né un romanzo, come spiegherò) è il racconto della ricerca condotta da Revelli per svelare l’identità di un soldato tedesco ucciso a San Rocco Castagnaretta, vicino a Cuneo, nel 1944, forse dai partigiani, forse da uno sbandato, o forse da una «lingera» cioè, in dialetto piemontese, un poco di buono. È questo un fatto cui Revelli non ha partecipato in prima persona, ma del quale ha sentito spesso parlare dai suoi amici partigiani. L’opera rappresenta dunque un ritorno a temi bellici dopo una lunga pausa, che, è un’ipotesi, potrebbe venire letta come il segno del temporaneo esaurimento, per Revelli, delle capacità espressive della memorialistica. Si tratterebbe di un esaurimento legato alla natura stessa di questo genere letterario, inteso come testimonianza di un evento collettivo e di un’esperienza personale - che presenta cioè quanto è straordinario per l’autore all’interno di eventi importanti per la collettività <1. Il ritorno a tematiche di guerra si farà dunque, se questa ipotesi risulta corretta, con modalità che non rispondono ai criteri espressivi della cronaca di guerra documentaria <2. Revelli incomincia la ricerca per Il disperso di Marburg nel 1986: oltre quarant’anni dopo i fatti, i tempi sono cambiati, il clima letterario e anche quello politico non sono più gli stessi del periodo immediatamente successivo alla guerra. La memorialistica sarà ancora in grado di parlare a un pubblico profondamente diverso da quello del dopoguerra, un pubblico che conta al suo interno sempre meno attori degli eventi storici al centro della narrazione? Come deve reagire il memorialista di fronte a questi cambiamenti: le sue armi espressive sono ancora valide, o si trova obbligato a esplorare altri percorsi?
[...] L’autore illustra passo dopo passo le varie tappe della sua indagine, il ruolo giocato da lui e dai vari testimoni incontrati lungo il percorso. Per i motivi esposti fino ad ora, Il disperso di Marburg può essere allora considerato una «meta-testimonianza». La precisione e l’accuratezza non riguardano più la presentazione degli eventi storici, che si riducono a inserti brevi, quanto piuttosto la descrizione del percorso seguito per definire i contorni storici dell’episodio al centro dell’opera.
[...] Si assiste, ne Il disperso di Marburg, a una moltiplicazione dei livelli della testimonianza. Questa non è più presentata come una vicenda distesa che si sviluppa assecondando e dettando i tempi dell’opera; a parte la trascrizione delle fonti orali riguardanti la vicenda di San Rocco, essa si limita piuttosto alla presentazione sintetica di episodi brevi, come quello della mamma di un disperso di Russia che racconta i presentimenti della morte del figlio (p. 32), o come quello dei partigiani che catturano due tedeschi per poi liberarli immediatamente e conservarne le cavalcature (p. 37). L’opera assume poco alla volta un carattere eterogeneo, il quale nasce da una commistione tematica che sembra voler conferire dignità al processo di raccolta di testimonianze orali e scritte. Quest’ultimo diventa di fatto parte integrante della narrazione, inserito in un progetto narrativo più ampio e complesso. Il moltiplicarsi delle testimonianze contribuisce alla composizione di un’opera corale che illustra una vicenda collettiva: la differenza con la memorialistica tradizionale, incentrata sulle vicende di una sola persona, appare allora in tutta la sua
evidenza.
[...] Tuttavia, l’immedesimazione risulta inevitabile. Revelli non si identifica tanto con il tedesco morto nell’imboscata, quanto soprattutto con un altro tedesco, lo storico Christoph Schminck-Gustavus, che si rivela un aiuto fondamentale per la ricostruzione della vicenda del tedesco ucciso in Italia nel 1944. Christoph, nato nel 1942, due anni prima dell’imboscata costata la vita al soldato tedesco sconosciuto, è più di un aiutante per Revelli. All’interno dell’opera, così come il tedesco ucciso a San Rocco, egli assume valore di simbolo. Tuttavia, al contrario del tedesco del 1944, che ributta violentemente Revelli verso un passato doloroso, Christoph rappresenta un’apertura verso il futuro, una presenza lenitiva per le ferite profonde e difficilmente rimarginabili che la guerra ha lasciato all’ex-comandante partigiano. In effetti, quando viene per la prima volta a conoscenza della storia del cavaliere solitario ucciso a Cuneo, un mitico «tedesco buono», Revelli pensa innanzitutto agli spietati soldati tedeschi conosciuti in Russia e vede «immagini infinitamente più tristi, più cupe. Altro che il “tedesco buono” !» (p. 7.)
Christoph rappresenta invece l’incarnazione di questo mito evanescente, il rovesciamento del nemico di un tempo: «In questo ambiente spettrale, la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio “tedesco buono” l’ho trovato.» (p. 49.)
La ricerca storica al centro dell’opera viene temporaneamente accantonata, e l’autore sottolinea il raggiungimento di un risultato fondamentale nel suo percorso personale: «Christoph, in fatto di testardaggine, è proprio un “tedesco di Germania”. Io sono il suo fratello gemello.» (p. 63.) Si manifesta qui la forza morale e civica di questa memorialistica di un nuovo tipo, in quanto l’identificazione non riguarda solo la testardaggine del metodo di lavoro, ma indica un legame di fraternità profondo, un risultato straordinario possibile, in questo caso, quarant’anni dopo i fatti.
[...] Per finire, un accenno alla figura al centro dell’opera, il giovane disperso di Marburg, il sottotenente Rudolf Knaut, nato a Marburg nel 1920, a cui la ricerca al centro dell’opera riesce a restituire un’identità.
Nel tentativo operato da Revelli di dare una nuova forma alla memorialistica, e di illustrare le tappe dell’indagine storica, il lettore assiste alla ricostruzione di un destino umano, quello del soldato disperso in Italia nel 1944. La ricerca storica si apre in direzione della dimensione esistenziale. Chi è il personaggio che si costruisce davanti ai nostri occhi? Il soldato, la cui scheda biografica si trova presso gli archivi militari tedeschi, è solo il sottotenente morto in un’imboscata in un territorio dove agivano bande armate clandestine? Alla luce di quanto detto, si potrebbe concludere che ci si trova piuttosto di fronte a un uomo che oltrepassa il dato storico per ergersi a personaggio emblematico, a simbolo, come indica Revelli. Rudolf Knaut rappresenta ciò che ha reso possibile il contatto tra il passato della guerra e il presente della pace, il legame tra generazioni diverse.
Pongo allora un’ultima domanda, che esula dall’analisi dell’opera e che fa riflettere sull’insieme della produzione letteraria di Revelli.
Si potrebbe vedere la ricostruzione della figura di Rudolf Knaut come il lavoro preparatorio per un’opera che ripercorra la vicenda di questo «cavaliere solitario», un’opera che Revelli non ha scritto ma che, come egli stesso dice, potrebbe essere «né vera e né falsa», ambientata chissà dove? Potrebbe cioè Il disperso di Marburg essere considerato, nel percorso di Revelli, come il punto più vicino al romanzo, modalità espressiva che l’autore non ha mai sperimentato? In altre parole, si sarebbe raggiunto un punto in cui la separazione, come detto problematica, tra la cronaca e l’opera letteraria risulta ancora più fluida?
[NOTE]
1. È questa una caratteristica della memorialistica, sia della prima, sia della seconda guerra mondiale, come ricorda Giovanni Falaschi: «Va da sé che, all’interno della memoria collettiva di eventi traumatici, il memorialista ricorda quanto è stato straordinario per lui.» Il critico cita gli esempi di Emilio Lussu e di Pietro Chiodi, che rispettivamente in Un anno sull’altipiano e Banditi, affermano di voler raccontare solamente ciò che li riguarda in prima persona. Vedi G. Falaschi, “Autobiografie e memorie”, in F. Brioschi e C. di Girolamo (a cura di), Manuale di Letteratura Italiana. Storia per generi e problemi, IV. Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 734.
2. Le caratteristiche di questa produzione sono state studiate in dettaglio da Giovanni Falaschi (La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino, 1976) e da Bruno Falcetto (Storia della narrativa neorealista, Mursia, Milano, 1992). Possiamo qui ricordarne le principali in modo sintetico. Nelle cronache di guerra, gli autori presentano unicamente i fatti vissuti in prima persona, per produrre quello che Falcetto chiama, citando V. Nabokov, un racconto «lineare»: l’esperienza personale è considerata la principale garanzia del valore dell’opera, un’opera destinata, si ricorda, a lettori che sono stati spesso attori degli stessi eventi vissuti e narrati dall’autore. Dal punto di vista stilistico, le cronache di guerra si caratterizzano per annotazioni fatte in uno stile breve e secco, dove i fatti, spesso ordinati sotto la data, restano centrali. Poco spazio viene accordato all’introspezione, mentre in primo piano si trovano le sensazioni fisiche del protagonista (fame, sete, freddo, paura, eccitazione, angoscia).
Alessandro Martini, “Con la guerra nel cervello”: la memorialistica alla prova degli anni Ottanta. Il disperso di Marburg di Nuto Revelli, Cahiers d’études italiennes, Novecento... e dintorni, n. 14, 2012
[...] L’autore illustra passo dopo passo le varie tappe della sua indagine, il ruolo giocato da lui e dai vari testimoni incontrati lungo il percorso. Per i motivi esposti fino ad ora, Il disperso di Marburg può essere allora considerato una «meta-testimonianza». La precisione e l’accuratezza non riguardano più la presentazione degli eventi storici, che si riducono a inserti brevi, quanto piuttosto la descrizione del percorso seguito per definire i contorni storici dell’episodio al centro dell’opera.
[...] Si assiste, ne Il disperso di Marburg, a una moltiplicazione dei livelli della testimonianza. Questa non è più presentata come una vicenda distesa che si sviluppa assecondando e dettando i tempi dell’opera; a parte la trascrizione delle fonti orali riguardanti la vicenda di San Rocco, essa si limita piuttosto alla presentazione sintetica di episodi brevi, come quello della mamma di un disperso di Russia che racconta i presentimenti della morte del figlio (p. 32), o come quello dei partigiani che catturano due tedeschi per poi liberarli immediatamente e conservarne le cavalcature (p. 37). L’opera assume poco alla volta un carattere eterogeneo, il quale nasce da una commistione tematica che sembra voler conferire dignità al processo di raccolta di testimonianze orali e scritte. Quest’ultimo diventa di fatto parte integrante della narrazione, inserito in un progetto narrativo più ampio e complesso. Il moltiplicarsi delle testimonianze contribuisce alla composizione di un’opera corale che illustra una vicenda collettiva: la differenza con la memorialistica tradizionale, incentrata sulle vicende di una sola persona, appare allora in tutta la sua
evidenza.
[...] Tuttavia, l’immedesimazione risulta inevitabile. Revelli non si identifica tanto con il tedesco morto nell’imboscata, quanto soprattutto con un altro tedesco, lo storico Christoph Schminck-Gustavus, che si rivela un aiuto fondamentale per la ricostruzione della vicenda del tedesco ucciso in Italia nel 1944. Christoph, nato nel 1942, due anni prima dell’imboscata costata la vita al soldato tedesco sconosciuto, è più di un aiutante per Revelli. All’interno dell’opera, così come il tedesco ucciso a San Rocco, egli assume valore di simbolo. Tuttavia, al contrario del tedesco del 1944, che ributta violentemente Revelli verso un passato doloroso, Christoph rappresenta un’apertura verso il futuro, una presenza lenitiva per le ferite profonde e difficilmente rimarginabili che la guerra ha lasciato all’ex-comandante partigiano. In effetti, quando viene per la prima volta a conoscenza della storia del cavaliere solitario ucciso a Cuneo, un mitico «tedesco buono», Revelli pensa innanzitutto agli spietati soldati tedeschi conosciuti in Russia e vede «immagini infinitamente più tristi, più cupe. Altro che il “tedesco buono” !» (p. 7.)
Christoph rappresenta invece l’incarnazione di questo mito evanescente, il rovesciamento del nemico di un tempo: «In questo ambiente spettrale, la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio “tedesco buono” l’ho trovato.» (p. 49.)
La ricerca storica al centro dell’opera viene temporaneamente accantonata, e l’autore sottolinea il raggiungimento di un risultato fondamentale nel suo percorso personale: «Christoph, in fatto di testardaggine, è proprio un “tedesco di Germania”. Io sono il suo fratello gemello.» (p. 63.) Si manifesta qui la forza morale e civica di questa memorialistica di un nuovo tipo, in quanto l’identificazione non riguarda solo la testardaggine del metodo di lavoro, ma indica un legame di fraternità profondo, un risultato straordinario possibile, in questo caso, quarant’anni dopo i fatti.
[...] Per finire, un accenno alla figura al centro dell’opera, il giovane disperso di Marburg, il sottotenente Rudolf Knaut, nato a Marburg nel 1920, a cui la ricerca al centro dell’opera riesce a restituire un’identità.
Nel tentativo operato da Revelli di dare una nuova forma alla memorialistica, e di illustrare le tappe dell’indagine storica, il lettore assiste alla ricostruzione di un destino umano, quello del soldato disperso in Italia nel 1944. La ricerca storica si apre in direzione della dimensione esistenziale. Chi è il personaggio che si costruisce davanti ai nostri occhi? Il soldato, la cui scheda biografica si trova presso gli archivi militari tedeschi, è solo il sottotenente morto in un’imboscata in un territorio dove agivano bande armate clandestine? Alla luce di quanto detto, si potrebbe concludere che ci si trova piuttosto di fronte a un uomo che oltrepassa il dato storico per ergersi a personaggio emblematico, a simbolo, come indica Revelli. Rudolf Knaut rappresenta ciò che ha reso possibile il contatto tra il passato della guerra e il presente della pace, il legame tra generazioni diverse.
Pongo allora un’ultima domanda, che esula dall’analisi dell’opera e che fa riflettere sull’insieme della produzione letteraria di Revelli.
Si potrebbe vedere la ricostruzione della figura di Rudolf Knaut come il lavoro preparatorio per un’opera che ripercorra la vicenda di questo «cavaliere solitario», un’opera che Revelli non ha scritto ma che, come egli stesso dice, potrebbe essere «né vera e né falsa», ambientata chissà dove? Potrebbe cioè Il disperso di Marburg essere considerato, nel percorso di Revelli, come il punto più vicino al romanzo, modalità espressiva che l’autore non ha mai sperimentato? In altre parole, si sarebbe raggiunto un punto in cui la separazione, come detto problematica, tra la cronaca e l’opera letteraria risulta ancora più fluida?
[NOTE]
1. È questa una caratteristica della memorialistica, sia della prima, sia della seconda guerra mondiale, come ricorda Giovanni Falaschi: «Va da sé che, all’interno della memoria collettiva di eventi traumatici, il memorialista ricorda quanto è stato straordinario per lui.» Il critico cita gli esempi di Emilio Lussu e di Pietro Chiodi, che rispettivamente in Un anno sull’altipiano e Banditi, affermano di voler raccontare solamente ciò che li riguarda in prima persona. Vedi G. Falaschi, “Autobiografie e memorie”, in F. Brioschi e C. di Girolamo (a cura di), Manuale di Letteratura Italiana. Storia per generi e problemi, IV. Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 734.
2. Le caratteristiche di questa produzione sono state studiate in dettaglio da Giovanni Falaschi (La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino, 1976) e da Bruno Falcetto (Storia della narrativa neorealista, Mursia, Milano, 1992). Possiamo qui ricordarne le principali in modo sintetico. Nelle cronache di guerra, gli autori presentano unicamente i fatti vissuti in prima persona, per produrre quello che Falcetto chiama, citando V. Nabokov, un racconto «lineare»: l’esperienza personale è considerata la principale garanzia del valore dell’opera, un’opera destinata, si ricorda, a lettori che sono stati spesso attori degli stessi eventi vissuti e narrati dall’autore. Dal punto di vista stilistico, le cronache di guerra si caratterizzano per annotazioni fatte in uno stile breve e secco, dove i fatti, spesso ordinati sotto la data, restano centrali. Poco spazio viene accordato all’introspezione, mentre in primo piano si trovano le sensazioni fisiche del protagonista (fame, sete, freddo, paura, eccitazione, angoscia).
Alessandro Martini, “Con la guerra nel cervello”: la memorialistica alla prova degli anni Ottanta. Il disperso di Marburg di Nuto Revelli, Cahiers d’études italiennes, Novecento... e dintorni, n. 14, 2012