martedì 23 novembre 2021

Un sottile legame tra Simone Weil ed Elsa Morante


Un saggio di Elsa Morante può introdurre al tema di questo paragrafo [n.d.r.: di un lavoro incentrato sulla figura di Simone Weil]. Si tratta di un testo redatto per una conferenza, dal tono quasi insolente e ironico, lontano dal sublime immaginario di Menzogna e Sortilegio e L’isola di Arturo. Scritto tra il ’64 e il ’65, Pro e contro la bomba atomica si presenta a prima vista come un J’accuse contro l’irrealtà della vita contemporanea, soggiogata da un’“occulta tentazione” <105 al suicidio atomico e dall’abdicazione di ogni forma di esistenza eccetto quelle del progresso e di una società demente manovrata dai cortigiani del potere. Nel saggio, nato negli anni del pieno trionfo ideologico della classe media italiana, la Morante pone il problema del ruolo dello scrittore nella società, un uomo, al contrario del letterato, “a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura” <106. L’autrice si interroga su quale debba essere il compito dello scrittore in un periodo socialmente convulso, se egli possa o meno intervenire contro l’alienazione delle coscienze, contribuire ad arginare una drammatica perdita di realtà. Con piglio categorico e un’argomentazione dopo l’altra, Elsa Morante apostrofa i suoi contemporanei, deridendone gli imbrogli e la noia esistenziale, arrivando infine a sostenere la necessità di una “poesia onesta” come resistenza alla distruzione.
L’arte è il contrario della disintegrazione”, afferma la scrittrice all’inizio del saggio; anzi la sua funzione è proprio quella di “impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà” <107. Poeta è allora colui che, come gli altri, non sfugge alle contraddizioni dell’esistenza, ai pesi e agli scontri che essa comporta, ma sa trasformarli in un’arte che rende conto della sostanza tragica della vita. Pur ridotto al nudo orrore dalla sventura, se saprà conservare integra la coscienza senza sprofondare nell’irrealtà e trasformare la consapevolezza dell’orrore in una risposta al destino, allora avrà saputo adempiere al suo compito. Poiché, si legge nell’ultima pagina del testo, qui si tratta pro o contro la bomba atomica! Contro la bomba atomica, non c’è che la realtà. E la realtà non ha bisogno di fabbricarsi un linguaggio: parla da sola. Perfino Cristo ha detto: Non preoccupatevi di quel che direte, e di come lo direte. È la realtà che dà vita alle parole, e non il contrario <108.
Nonostante la passione di queste pagine, secondo l’amico e critico Cesare Garboli esse rivelano uno spirito estraneo alla Morante, come se la scrittrice stesse cercando di adeguarsi a un modello di pensiero ed espressione che non apparteneva alla sua natura <109. Nella produzione letteraria di Elsa Morante dopo Pro e contro la bomba atomica Garboli vede agire l’influsso, qui già presente in nuce, di quello che lui chiama ““lavoro in oriente”, oppure ancora al posto di ghetto si parlava di “cambiamento di residenza” (Ivi, p. 93). Del resto, il termine usato dai nazisti per dire “gergo”, Sprachregelung, “significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe ‘menzogna’” (Ibidem).” <110.
A un certo punto della sua vita infatti, la Morante aveva scoperto i Cahiers di Marsiglia e ne era diventata una frequentatrice vorace, come segnalano le note, i richiami e le fitte sottolineature della sua copia, ripercorsa pagina dopo pagina da Gabriella Fiori al fine di tracciare una mappa della lettura morantiana <111. Li divorò, letteralmente, ma non fu un’assimilazione facile. Il fatto è - ha osservato Garboli - che l’esperienza religiosa di Simone Weil era estranea a Elsa Morante: mentre ciò che la prima viveva come sopportazione di un vuoto lasciato libero per essere colmato dalla grazia, per la seconda si sarebbe risolto in pura negazione del suo attaccamento alla vita e dunque in un processo di autodistruzione sostenuto dal senso di colpa. Tuttavia per Giancarlo Gaeta è affrettato concludere che “la piega inaspettata che prese in lei, proprio negli anni del saggio Pro o contro la bomba atomica, il rapporto col proprio io” <112 sia da ricondurre a un “complesso Simone Weil”. Secondo lo studioso, si tratta piuttosto di un incontro “di due anomalie”, su un piano “che poco ha a che fare con la biografia e molto con il riconoscimento” <113.
Al di là delle discordanze critiche, mi pare che in queste considerazioni si senta risuonare chiaro il timbro di Simone Weil nella quale numerose altre scrittrici italiane del Novecento hanno trovato espressi per la prima volta e con limpidezza inaudita molti pensieri che andavano maturando autonomamente: si pensi a Cristina Campo, Anna Maria Ortese o Natalia Ginzburg <114. Ciò che, di fondo, accomuna queste autrici molto diverse è quella che si potrebbe chiamare una poetica dell’attenzione, intesa non in senso tecnico, ma come l’unione di uno sguardo costantemente rivolto al reale e di una lingua capace di renderne sensibili le differenti sfaccettature.
In un contesto come quello della Seconda guerra mondiale, sforzarsi di ridare pienezza e significato alle parole costituiva un atto di onestà intellettuale. Per rappresentare l’immane violenza dell’epoca e indicare alcune vie per la salvezza non bastava denunciarne la deriva immaginaria e la degradazione morale; urgeva guardare in faccia la Storia con le sue incontrollabili miserie e indecenze e allo stesso tempo trovare una modalità di espressione capace di rendere sensibili i problemi per quello che erano realmente. La capacità di Simone Weil di dire le cose come sono rappresenta una forma di resistenza a quel disfacimento, al dominio dell’irrealtà <115 di cui, anni dopo, nell’epoca irridente del post-moderno, sarebbe stata testimone anche Elsa Morante.
[NOTE]
105 E. MORANTE, Pro e contro la bomba atomica, in ID., Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, con una prefazione di C. Garboli, Milano, Adelphi, 1987, p. 99.
106 Ivi, p. 97. Il corsivo è del testo.
107 Ivi, pp. 101-102.
108 Ivi, p. 117.
109 “Il punto debole, in questo saggio, sta proprio nella sua logica: inferiore, inadeguata rispetto alla complessità fantastica del grande amore di Elsa per la realtà (amore vulnerabile, ansioso, timoroso di perdere la fragilità del suo oggetto), e così consequenziale, così binaria da risultare astratta come un prontuario”. C. GARBOLI, Prefazione, ivi, p. XVIII.
110 Ivi, p. XIX.
111 G. FIORI, Elsa Morante, lectrice des Cahiers de Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil”, tome XXXII, n.1, pp. 65-96.
112 C. GARBOLI, Prefazione, cit., p. XIX.
113 G. GAETA, Contro il dominio dell’irrealtà. Elsa Morante e Simone Weil
114 Sull’importanza di Simone Weil nel pensiero di Cristina Campo hanno scritto numerosi critici e amici dell’autrice italiana. Per fare solo qualche esempio si vedano i saggi di Margherita Pieracci Harwell: M. PIERACCI HARWELL, Cristina Campo e i due mondi, in C. CAMPO, Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999, pp. 391-404; ID., Cristina Campo e Simone Weil, in “Humanitas”, Anno LVI, 3, giugno 2001, Morcelliana, Brescia, pp. 381-412; G. FIORI, «Non esiste poesia universale senza una precisa radice». La via religiosa di Cristina Campo, pp. 67-72, in (a cura di M. FARNETTI e G. FOZZER), Per Cristina Campo, Atti delle giornate di studio su Cristina Campo, Milano, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, 1998. Federica Negri ha scelto questo tema per la sua tesi di dottorato: cfr. F. NEGRI, La passione della purezza: Simone Weil e Cristina Campo, Padova, il Poligrafo, 2005. Per l’affinità del concetto di attenzione con Natalia Ginzburg si rimanda al bel contributo di Silvia Piccolotto: S. PICCOLOTTO, Lo splendore della realtà. Poetica dell’attenzione in Mai devi domandarmi e altri scritti di Natalia Ginzburg, in I. ADINOLFI, G. GAETA, A. LAVAGETTO (a cura di), L’anti-Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni, cit., pp. 597-610.
115 Questa facoltà diviene ancora più rilevante se si tiene presente lo svuotamento di significato generale del momento storico descritto nelle pagine precedenti. In un contesto come quello della Seconda guerra mondiale, questo processo doveva degenerare in una deformazione di pensiero e linguaggio di cui danno esempio emblematico le parole d’ordine della guerra. Ne La banalità del male, Hannah Arendt mette in luce l’enorme utilità di un gergo specifico per i “depositari del segreto” dello sterminio al fine di mantenere l’equilibrio e l’ordine nei servizi in cui la collaborazione era essenziale. “I nazisti implicati nella ‘soluzione finale’ si rendevano ben conto di quello che facevano - osserva la filosofa tedesca -, ma la loro attività, ai loro occhi, non coincideva con l’idea tradizionale del ‘delitto’. Ed Eichmann, suggestionabile com’era dalle parole d’ordine e dalle frasi fatte, e insieme incapace di parlare il linguaggio comune, era naturalmente da questo punto di vista l’individuo ideale” (H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 94). In questa sistematica separazione di sé dalla verità della propria azione agì anche l’uso di un linguaggio specifico, per cui invece di “sterminio” o “uccisione” si dovevano usare termini come “soluzione finale” e “trattamento speciale”, invece di “deportazione” bisognava dire “trasferimento” o “lavoro in oriente”, oppure ancora al posto di ghetto si parlava di “cambiamento di residenza” (Ivi, p. 93). Del resto, il termine usato dai nazisti per dire “gergo”, Sprachregelung, “significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe ‘menzogna’” (Ibidem).
Laura Fasani, “Così come l’acqua”. Forza, giustizia e bellezza nell’opera di Simone Weil (con particolare riferimento a Venezia salva), Tesi di Laurea Magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2016/2017