venerdì 12 novembre 2021

Riflessioni su Benjamin e la città contemporanea

Fig. 1. Passage Choiseul (Paris, 1829) - Fonte: Filippo La Porta, art. cit. infra

Il dispetto peggiore che possono farti gli dei è realizzare i tuoi sogni. A vent’anni leggevo Benjamin quasi rapito, e sognavo che sostituisse il più ascetico Adorno nell’immaginario culturale della mia generazione. Così è successo, se ne è innamorato perfino il decostruzionismo american, ma l’esito non è confortante.
Per un marxista infatti Benjamin è un po’ come Borges per il borghese colto e filisteo: un brivido di esoterismo.
Di lì una bibliografia fittissima, parassitaria: Benjamin e i new media, Benjamin e la Rete, Benjamin e Heidegger (non lo sopportava!), Benjamin e la cultura pop (mai volle andare in America), Benjamin filosofo euforico del postmoderno…. E anche un gergo parafilosofico e una retorica culturale fatta di derive, attraversamenti, residui, nomadismi, etc., ma anche di redenzione, messianismo, escatologia e altri termini teologici anche suggestivi ma che, decontestualizzati, hanno un significato spesso oscuro.
Ora, proviamo a riprendere in mano la sua opera sconfinata e rapsodica sui passages parigini (Benjamin 2002), visti come allegoria del trionfo e poi della rovina della borghesia ottocentesca: “strade sensuali del commercio”, città miniaturizzate che contenevano magazzini di lusso e teatri, ristoranti e negozi di parrucchiere, istituti di bellezza e mestieri via via antiquati, e in cui il declino comincia con l’illuminazione elettrica, che ne sbiadisce lo splendore (ivi, vol. II, 907).
Sperando di evitare quella ‘deriva’, e sfidando la cripticità della lingua (specie in traduzione) vorrei applicare di nuovo le pagine benjaminiane a una riflessione intorno alla città contemporanea.
1. Metodo conoscitivo: la follia e l’“ascia affilata della ragione”
Nel Passagenwerk c’è un capitolo intitolato “Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso” che esordisce sottolineando il carattere “fulmineo” della conoscenza (ivi, vol. I, 510). Il flâneur benjaminiano, “licantropo inquieto che vaga nella selva sociale” (ivi, 467), accoglie i molteplici frammenti della fantasmagoria urbana - immagini, spazi, oggetti, persone - (e questo è il lato passivo della conoscenza) però rimontandoli, riqualificandoli, riattualizzandoli e così liberandone il potenziale utopico-emancipativo (il lato attivo della conoscenza).
Così gli choc, gli urti della vita quotidiana nella metropoli (luci, moda, novità dei prodotti, manifesti pubblicitari, il “sensazionale” dell’informazione) vengono ‘usati’: ci si dischiude un intero universo di occasioni sprecate o perdute, di potenzialità inesplose, di cose apparentemente irrilevanti che diventano rilevanti, di esistenze fallite che rivelano un loro diverso, possibile destino, di tutto un passato irredento che ci mostra la sua promessa di futuro (Franco Moretti, in Segni e stili del moderno, coglie una ambiguità irrisolta di Benjamin, indeciso se la città procuri gli choc o invece ci insegni a pararli, e aggiunge che nella duttile vita di città il cittadino, “animale che si adatta”, trasforma comunque lo choc in chance: Moretti 1987, 148).
Riassumendo il metodo conoscitivo dialettico del flâneur benjaminiano: da una parte restare in ascolto e in attesa, perdersi e vagare senza meta, mantenersi in uno stato sognante, rinunciare al controllo e a ogni intenzione (la memoria involontaria di Proust, cui dedica varie riflessioni: a un certo punto scrive limpidamente che il tempo della verità coincide con la “morte dell’intentio” - Benjamin 2002, vol. I, 517).
Dall’altra tenersi vigili, coltivare sistematicamente la facoltà dell’attenzione.
Nel nostro presente, come tenterò di dimostrare, l’accento dovrebbe cadere di più su questo secondo lato.
Certo, “bonificare territori su cui finora è cresciuta solo la follia”, ma “penetrarvi con l’ascia affilata della ragione” (ibidem). Attraversare il mito e il sogno, però il terreno deve “essere dissodato dalla ragione” (ivi, 511).
2. La Rete, il cyberflâneur
I Passaggi di Parigi sono uno Zibaldone incompiuto formato da una scelta di citazioni (perlopiù non commentate) e da riflessioni dell’autore. Un ipertesto affascinante, che alla fine dovette convincere anche il refrattario Adorno. Benjamin attraversa i passages immergendosi nel passato, descrivendo le figure che li popolano - il flâneur, la prostituta, il collezionista, il giocatore, la ciclista… - e (con l’aiuto di Marx, Baudelaire, Hugo, Balzac e dei surrealisti) mettendo in relazione la tecnica e i nuovi linguaggi sociali e culturali.
Ed è attratto proprio da ciò che in essi è precocemente invecchiato: sorti agli inizi dell’’800 e illuminati dai primi lampioni a gas, questi corridoi sono massicce architetture in marmo, vetro e ferro divenute presto obsolete, come gli edifici delle prime fabbriche, e perciò contengono qualcosa di onirico, di non riscattato e di infantile.
Mi vengono in mente alcuni grandi centri commerciali vicino Roma, ad esempio a Fiano, fino a ieri ripieni di televisori con schermi al plasma (che rappresentavano scene di vita più luminose e colorate di quelle reali), oggi semi-abbandonati a causa della crisi: desolati, malinconici falansteri, rovine di una civiltà postmoderna ormai in agonia.
Rispetto al periodo in cui Benjamin scriveva il Passagenwerk, la novità attuale più rilevante è la Rete. Se, come notò Moretti nel saggio prima citato, la metropoli di Benjamin si caratterizza per il diverso rapporto con il tempo, non con lo spazio (il cittadino ha sempre la sensazione di essersi perso qualcosa, in un “miscuglio agrodolce di ansia e fretta” - Moretti 1987, 150-151) - oggi accade il contrario. Internet è un immenso archivio di tutto ciò che avviene. Non ti perdi mai nessun evento. Niente è irreversibile.
Non sei andato all’Auditorium ad ascoltare la lectio magistralis di Noam Chomsky? Te la senti comodamente a casa una settimana dopo cliccando nel sito dell’Auditorium.
Tutto è simultaneo. Piuttosto: sei desolatamente, irreparabilmente solo davanti a questo immenso contenitore. Devi scegliere, non puoi vedere o seguire tutto. Questo continuo obbligo di scelta ti responsabilizza di più.
Il cyberflâneur, il viaggiatore immateriale, si può perdere fino a un certo punto: ha il dovere di essere consapevole.
Se non dispone di un progetto e di un orientamento la sua rotta viene occultamente decisa da altri. Diventa eterodiretto.
3. Esperienza/riflessione
Avvertenza. Se ‘esperienza’ non coincide con l’immediato vissuto ma indica quanto riusciamo a trattenere del quotidiano, a dargli un significato personale e poi a trasformarlo in una verità comunicabile - San Paolo nella Lettera ai Corinzi dice: “Vagliate tutto e trattenete ciò che vale” - allora significa anzitutto riflessione.
Così come Musil ci aveva mostrato un mondo dove ci sono le qualità senza più l’uomo, oggi abbiamo tantissime esperienze senza più nessuno che le fa (come le centinaia, migliaia di DVD di film e documentari che ognuno di noi colleziona ma sa che non vedrà mai).
O prendiamo anche la TV: ogni sera ci sentiamo come espropriati delle nostre stesse esperienze quando l’esperto di turno al talk show ce le restituisce in parole - probabilmente più precise, adeguate di quelle che useremmo noi stessi (è un esperto!) - analizzando, sistemando, confezionando quel che abbiamo vissuto?
Oggi si ha poi la sensazione (del tutto illusoria) che si possa sempre tornare indietro a piacimento. Niente ti obbliga davvero. Tutto diventa comodamente reversibile. Ci sentiamo eternamente fluidi, extralight, flessibili ad oltranza, liberi di scegliere qualsiasi cosa e di ripensarci. Ma così niente incide più su di noi. Dunque, anche qui: per riappropriarsi dell’esperienza occorre una capacità di riflessione, di pensiero critico, di raccoglimento (trattenere e selezionare nel nostro vissuto quotidiano tutto ciò che per noi ha valore), e dunque pause meditative, interruzioni del continuum dell’esistenza.
Nella pausa si entra in una temporalità diversa (Benjamin dice “Leggere, pensare, attendere…”). E questo non è elogio della lentezza come valore in sé: penso a tutta la stucchevole retorica dello slow food, slow design, perfino slow book…. Eppure come lettori ci è accaduto magari di divorare in una notte i Buddenbrook o Moby Dick e invece di leggere con annoiata lentezza il giallo di moda.
Paolo Jedlowski, acuto interprete di Benjamin, configura il tempo del fare esperienza non tanto come tempo veloce, quanto come tempo “ritmico” (v. almeno Jedlowski 2009). Jedlowski che ritorna sulla distinzione in tedesco tra Erlebnis (esperienza vissuta, il momento di novità, di sorpresa, dunque anche di crisi) ed Erfahrung (l’esperienza come processo e sedimentazione) si sofferma sulla seconda. Osserva che nelle pause ciascuno sprofonda in sé stesso e “finisce per incontrare qualcosa di sé, che prima non incontrava”. Qui il soggetto, la sua capacità di adattarsi a un ritmo delle cose, torna in primo piano, proprio come per l’ultimo Foucault appassionato all’etica e agli esercizi spirituali degli antichi attraverso i libri di Pierre Hadot.
4. Digressione: Smart city
Vi siete mai chiesti se il luogo in cui vivete sia una smart city (città intelligente)?
Elemento decisivo per definirla, secondo il prestigioso Mit, dovrebbe essere l’innovazione tecnologica applicata al design di spazi pubblici. Mi chiedo però se qualcuno abiterà questi spazi pubblici (proprio come le esperienze prive di chi le fa)! Aggirandosi tra smart devices (dispositivi intelligenti), implementazioni, sensoristica, sistemi di rilevazione ambientale, Cabine Telefoniche Intelligenti, acronimi di tagliente eleganza come Ict (Tecnologie dell’informazione e della ielecomunicazione), etc. si è presi dal dubbio che l’uomo sia divenuto ‘antiquato’ - come ipotizzava qualcuno -, e cioè non all’altezza delle sue invenzioni e dei suoi sofisticati dispositivi. E allora potrebbe accadere che il contributo della vecchia Europa nella rilettura dello scintillante modello americano smart city consista in una sua saggia “umanizzazione”.
Così molto opportunamente nella introduzione a un bel libro collettivo - Città intelligenti - Walter Tortorella (2013) sfata il mito del nuovismo (la digitalizzazione delle nostre amministrazioni esiste da un ventennio!) e insiste sulla partecipazione attiva e dal basso dei cittadini, non più solo utenti passivi di servizi ma coinvolti nella loro realizzazione.
La messa in comune di spazi, le forme di scambio di favori, i tanti mercatini biologici urbani e soprattutto asili e nidi d’infanzia autogestiti.
Torniamo a Benjamin. Il suo flâneur, spaesato nella cosmopoli attuale, tendenzialmente espropriato dell’esperienza e ‘colonizzato’ nel proprio quotidiano, vive una drammatica scissione. Da una parte ha il desiderio di abbandonarsi conoscitivamente all’ebbrezza ludica della metropoli, alle sue possibili illuminazioni profane, all’hashish e agli incontri notturni. Dall’altra è chiamato ogni giorno a una cittadinanza attiva, all’impegno di riattualizzare e riqualificare i frammenti dispersi individuando nuovi spazi comuni, autorganizzati, a costituire nuclei di ‘sorveglianza’ democratica sui vari capitoli, a livello locale, di spesa pubblica e fornitura di servizi (penso a Guido Viale, che auspica ad esempio la pubblicizzazione in ogni Ente, da parte di chi vi è impiegato, del modo concreto in cui viene erogata la spesa).
5. Marx cabalistico?
La continua giustapposizione nell’opera di Benjamin del piano teologico e di quello storico-politico, di Marx e della Kabbalah, è a volte spaesante (e sappiamo come gli amici Scholem e Brecht lo tirassero ognuno dalla propria parte). Un conto è infatti credere nella ‘rivoluzione proletaria’, nella insurrezione, nella riattualizzazione della Comune di Parigi - e Benjamin ci credeva - come riscatto di tutto il dolore del passato e delle generazioni che ci hanno preceduto, di tutte le pene degli umiliati e offesi, etc.. Annota perentoriamente: “in definitiva è solo la rivoluzione che crea lo spazio libero delle città” (Benjamin 2002, vol. I, 472). Un altro conto fidare soltanto nel singolo, nella “debole forza messianica” del singolo - una espressione di San Paolo che Giorgio Agamben (2000] ha messo in relazione con Benjamin - il quale scopre in una situazione data, nel qui ed ora, la chance del possibile, quel senso capace di ribaltare la situazione, senza aspettarsi niente dal futuro. E dunque è impegnato a spostare l’angolo visuale affinché riemerga anche nella parte negativa “un lato positivo”, vitale (ivi, vol. I, 513), ad attualizzare il passato e il futuro.
Nel primo caso si avrà una redenzione collettiva, una rottura o discontinuità nel processo unilineare della Storia (e sappiamo quanto oggi il mito della rivoluzione sia improponibile), nel secondo caso invece l’accento è tutto sull’attimo presente, sull’individuo capace di trasformare la chiusura in apertura, di cogliere il possibile, di liberare una occasione di felicità.
 

Fig. 2. Flâneurs a Roma Corviale (elaborazione grafica: Andrea Saladini) - Fonte: Filippo La Porta, art. cit. infra

6. Flâneur e Cavaliere Jedi (o altri passages)
Alla città diffusa o dispersa, allo sprawl urbano senza regole e senza mappa, deve corrispondere un cittadino non più disperso, ma appunto capace di “leggere, pensare, attendere”, di ritrovare un senso al proprio vissuto, di ridefinire regole condivise, di capire come e dove sta. Alla cattiva infinità delle esperienze caoticamente disponibili in Rete, tutte fungibili, dovrà opporre la finitezza di un percorso personale, di un coerente racconto di sé, di una narrazione sufficientemente unitaria e ordinata. Altrimenti come nei romanzi fantascientifici del pionieristico William Gibson si ritroverà in un mondo controllato da potenti multinazionali e da un Grande fratello onnisciente. Per Benjamin l’automa giocatore di scacchi (il materialismo storico) nascondeva al proprio interno un nano gobbo (la teologia).
Così oggi il flâneur, indolente gentiluomo che degusta sensazioni effimere - figura utopica del dilettante di sensazioni, ozioso dandy contemplativo - potrebbe contenere dentro di sé un Cavaliere Jedi - il cittadino attivo - armato della spada laser dell’intelligenza critica, impegnato a trattenere del flusso disordinato di informazioni soltanto ciò che vale, ossia i frammenti in grado di riscattare il passato e le occasioni perdute.
E allora quella ‘rivoluzione’ che secondo Benjamin fonda lo spazio libero della città non coincide con una insurrezione blanquista ma è la creazione molecolare di nuovi spazi condivisi, di cui ci parla Enzo Scandurra (2012) in Vite periferiche: orti urbani dove la gente coltiva ortaggi a San Basilio e Torpignattara, luoghi in cui l’architettura razionalista è ridisegnata dal basso attraverso esperienze di socialità a Corviale e al Laurentino 38.
Insomma accanto agli shopping malls, ai faraonici ipermercati in lenta via di declino (dove si assiste a un livellamento verso il basso per il crollo del potere d’acquisto: secondo gli ultimi dati Istat il consumo è regredito a trent’anni fa), oggi una storiografia ‘materialistica’ di ispirazione benjaminiana dovrebbe indagare più sistematicamente questi altri inediti passages di Roma, spazi non finalizzati al consumo, dove si scopre un “interieur vissuto e ammobiliato dalle masse” (Benjamin 2002, vol. I, 474).
Riferimenti bibliografici
Agamben G. (2000), Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino.
Benjamin W. (2002), I ‘passages’ di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann, 2 voll., Einaudi, Torino.
Jedlowski P. (2009), Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino.
La Porta F. (2004), Autoreverse dell’esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile, Bollati Boringhieri, Torino.
Moretti F. (1987), Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino.
Scandurra E. (2012), Vite periferiche, Ediesse, Roma.
Tortorella W. (2013 - a cura di), Città intelligenti, Maggioli, Rimini.
Filippo La Porta, Nuovi passages. Benjamin e la città contemporanea, Scienze del Territorio, n. 3 Ricostruire la città, Firenze University Press, 2015