sabato 4 dicembre 2021

Nel corso degli anni Cinquanta le discussioni sul fascismo nell’appena nata televisione italiana erano scarse


Per quanto riguarda la seconda guerra mondiale, lo scontro violento avvenuto nel nord Italia tra le truppe alleate e la Resistenza ha dato vita a numerose memorie conflittuali nell’Italia del periodo postbellico, generando divisioni politiche che hanno continuato ad essere operanti fino ai nostri giorni (Mammone 2006, pp. 211-226; cfr. Santomassimo 2004). Allo stesso tempo, gli studiosi hanno messo in luce come le contronarrazioni della violenza bellica sono state taciute durante la prima Repubblica da parte di diverse forze politiche, costringendo all’oblio una parte della memoria pubblica italiana. Il brusco cambiamento di alleanze che portò l’Italia a recidere i rapporti con la Germania nazista per unirsi allo schieramento delle truppe alleate, la successiva occupazione nazista del nord Italia e la nascita del movimento della Resistenza, furono tutti fenomeni che permisero alle élites italiane nel periodo postbellico di far dimenticare molto facilmente al paese la pesante eredità del fascismo, delle leggi razziali e del colonialismo. Ciò che Rosario Romeo ha riassunto in una frase ormai celebre: «la Resistenza, opera di pochi, è stata usata dai tanti per non fare i conti con il proprio passato». <4
Inoltre, Claudio Pavone ha osservato che i governi antifascisti istituiti dopo il 1945 hanno rigettato ogni accusa di responsabilità nelle trattative internazionali, rifiutando di pagare i debiti di guerra e perfino l’idea che gli italiani potessero essere giudicati dagli etiopi o da un popolo dei Balcani, che venivano considerati a un gradino inferiore nella scala della civiltà (Pavone 2004, p. 272).
Per giunta, grazie a una serie di leggi approvate nel 1946, molti criminali di guerra fascisti poterono usufruire dell’amnistia, evitando così di essere giudicati per i crimini perpetrati contro i civili in Italia e all’estero.
Paradossalmente, come ricorda Pavone, il credito acquisito dal governo monarchico per essersi unito agli Alleati, contribuì ad assolvere i fascisti e l’esercito italiano sia sul piano legale che su quello dell’opinione comune, e quindi a lasciarsi il passato alle spalle. <5
Le memorie divise e l’eredità della seconda guerra mondiale vennero rafforzate durante la Guerra fredda.
Come ha notato Guido Crainz, l’opposizione politica fra fascismo e antifascismo fu rapidamente sostituita dall’antagonismo fra comunismo e anticomunismo.
Dopo la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana nel 1948, il governo marginalizzò la memoria della Resistenza, che continuò ad essere mantenuta viva soltanto dal PCI e PSI.
Nel corso degli anni Cinquanta le discussioni sul fascismo nell’appena nata televisione italiana erano scarse, e sia i comunisti che i socialisti vennero esclusi da qualunque programma in occasione del decimo anniversario della Liberazione nel 1955. <6
Solo a partire dagli inizi degli anni Sessanta la Resistenza fu rivalutata da diversi partiti politici dell’arco costituzionale come una fonte di legittimazione politica e il fascismo divenne oggetto del dibattito pubblico sui canali televisivi.
Allo stesso tempo, questa nuova narrazione delle vicende nazionali ha sorvolato, tuttavia, sulla guerra civile divampata fra forze fasciste e antifasciste negli anni del secondo conflitto mondiale, così come sulle complicità del regime nell’Olocausto, ponendo l’accento piuttosto sulla lotta degli italiani contro il nazismo (Crainz 1999, p. 129).
Queste narrazioni - costruite su ciò che è stato definito il mito del ‘buon italiano’ (Bidussa 1994) - hanno contribuito ad evitare ogni discussione sulle imprese imperialiste del fascismo, relegando l’eredità coloniale italiana ai margini della memoria collettiva (Pavone 2004, p. 272).
La perdita delle colonie nel 1945, come risultato della sconfitta militare italiana, evitò in effetti che il Paese passasse attraverso un processo di decolonizzazione, diversamente da ciò che occorse alla Francia negli anni Cinquanta e Sessanta (Labanca 2002, p. 434).
Si formò così piuttosto una nuova narrazione incentrata sul concetto del colonialismo ‘benevolo’, e il dibattito sulla responsabilità politica per i crimini coloniali venne per lo più totalmente messo a tacere.
La lotta per la memoria sulle interpretazioni della seconda guerra mondiale è proseguita dopo il 1968, sotto la spinta dei movimenti di protesta del biennio 1968-1969 e della Nuova Sinistra.
Quest’ultima si oppose alle strategie moderate del PCI e al ‘tradimento’ politico degli ideali della Resistenza perpetrato principalmente con il ‘compromesso storico’ e il sostegno dato al governo Andreotti dopo le elezioni del 1976.
Gli ideali rivoluzionari, inclusa la nozione di ‘Resistenza tradita’, vennero allora fatti propri da una giovane generazione di militanti della sinistra ma alimentò anche i gruppi terroristici sorti agli inizi degli anni Settanta (Cooke 2000, p. 161).
Questo decennio divenne, dunque, come hanno osservato Richard Bosworth e Patrizia Dogliani, un periodo di contestazioni pubbliche sul passato che allora appariva, a molti, la chiave per il presente e il futuro. <7
[...] La fine della Guerra fredda e della prima Repubblica italiana, come si è detto in precedenza, ha favorito un nuovo processo di memorializzazione e una diversa tendenza nella storiografia in Italia, fomentata da chiari intenti politici (Del Boca 2009).
Nonostante la DC abbia controllato fermamente Rai Uno fino al 1989 (Hibberd 2008, p. 76), l’ascesa del revisionismo storico di destra ha sostenuto l’idea dell’egemonia della sinistra sulla cultura italiana negli anni della prima Repubblica, e quindi anche il prevalere di tale egemonia sull’interpretazione del fascismo e della Resistenza (Pavone 2004, p. 271).
Molti di questi studiosi hanno fatto proprie le tesi dello storico Renzo De Felice (1929-1996), l’autore della monumentale biografia di Benito Mussolini e del libro-intervista Rosso e nero, pubblicato nel 1995, nel quale lo studioso introdusse il concetto del fenomeno dell’‘attesismo’, la strategia di salvezza della ‘ampia zona grigia’ della società civile italiana durante il biennio 1943-45 (Gordon 2012, pp. 146-147).
Come ha rilevato Giovanni De Luna, il lavoro di De Felice mirava a scrivere una storia del fascismo e della seconda guerra mondiale dal punto di vista dei ceti medi o della ‘maggioranza silenziosa’, contro la tradizione storica marxista promossa dalle forze antifasciste (De Luna 2011, pp. 56-63).
La posizione di De Felice ha trovato ampio riscontro nell’epoca successiva alla Guerra fredda, nel clima della ‘fine delle ideologie’. Gli storici italiani revisionisti perseguirono una ‘demistificazione’ della presunta tendenziosità in senso antifascista nella storiografia italiana, avendo come obiettivo una rappresentazione ‘non ideologica’ del fascismo come fattore di modernizzazione del paese (Crainz 1999, p. 135). Questa interpretazione faceva una chiara distinzione fra fascismo e nazismo per quanto riguarda le responsabilità dell’Olocausto, rafforzando il mito del ‘buon italiano’ di cui si è parlato in precedenza. Al fine di equiparare la violenza fascista e antifascista, inoltre, si è posta grande enfasi sui crimini compiuti dai partigiani durante la seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo.
Questi periodi storici sono stati riscoperti e resi accessibili al grande pubblico, in modo particolare grazie ai bestsellers di Gianpaolo Pansa sulla storia dei ‘vinti’, cioè i combattenti fascisti. <11
Una simile ‘demistificazione’ non si è verificata per i fatti degli anni Settanta, per la semplice ragione che agli anni di piombo non venne mai riconosciuta una qualsiasi eredità positiva o mito che potesse radicarsi nella sfera pubblica.
Recentemente, comunque, i giornalisti Mario Calabresi e Benedetta Tobagi hanno tentato di riscrivere (rispettivamente nel 2007 e 2009) la storia dei loro padri uccisi da attacchi terroristici di sinistra, dando voce dunque al punto di vista delle vittime del terrorismo e delle loro famiglie.
Ambedue hanno sin da allora collaborato con la Rai, Calabresi come presentatore del programma ‘Hotel Patria’, e Tobagi come membro del Consiglio di amministrazione della Rai. Questi esempi illustrano possibili usi ‘positivi’ del revisionismo, nel senso che aprono nuove prospettive di interpretazione del passato, rilevanti per il presente.
Allo stesso tempo, tuttavia, essi non possono escludere il rischio che il punto di vista delle vittime possa tradursi in una versione acritica del passato, un fenomeno analizzato da De Luna nel suo libro "La Repubblica del dolore".
 


[NOTE]
4 La frase è citata in Pavone 2004, p. 273: «the Resistance, performed by few, served as a cleansing of the conscience for all». Si veda anche Fogu 2006, pp. 147-176.
5 Pavone 2004, p. 273: «[T]he credit acquired by moving into the Allied camp paradoxically helped absolve the fascists and their military apparatus both on the legal front and on that of common conscience, which was confused but eager for clarity, and thus contributed to the urge to move ahead». Sull’amnistia, si veda Franzinelli 2006; sui crimini di guerra e le loro memorie: Focardi, Klinkhammer 2004, pp. 330-348.
6 Crainz 1999, p. 126. Sull’interpretazione della Resistenza nel discorso politico si veda Focardi 2005.
7 Bosworth, Dogliani 1999, p. 7: «a time of public contestation about the past which then seemed, in many eyes, indeed, the key to the present and future».
11 Sul tema: Storchi 2007, pp. 237-250. Una risposta al revisionismo applicato alla Resistenza è venuta dagli scrittori di gialli italiani, come Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini. Sulla riscrittura della storia nel giallo italiano, si veda: Jansen, Khamal (2010).
 
Monica Jansen, Maria Bonaria Urban, Introduzione in Televisionismo. Narrazioni televisive della storia italiana negli anni della seconda Repubblica, Edizioni Ca' Foscari, 2015