sabato 19 febbraio 2022

Era la prima volta che i lavoratori del porto industriale occupavano il cuore di Venezia


Il primo innesto di Porto Marghera nelle priorità della Cgil veneziana avvenne nel 1950, all’apice di una crisi di commesse della Breda, che aveva reagito con sospensioni e licenziamenti. Durante un volantinaggio all’ingresso del cantiere la polizia aprì il fuoco: i panni insanguinati dei tre feriti gravi furono fatti sventolare dall’Ala napoleonica di piazza San Marco, mentre il sindaco e il segretario della Camera del lavoro tenevano un infuocato comizio ai piedi del campanile. Era la prima volta che i lavoratori del porto industriale occupavano il cuore della città, mostrando il volto di cittadini che si sacrificavano per le sorti del bene collettivo: nonostante la sconfitta (in 1.200 furono espulsi), la lotta della Breda fu esibita come una prova di responsabilità operaia, perché il cantiere era stato salvato <39.
Nel 1955 il Consiglio superiore dei lavori pubblici approvò il piano di ampliamento della zona industriale. Le domande di insediamento riguardavano in particolare un’impresa nuova, l’elettrica milanese Edison, che aveva scelto il polo veneziano per avviare i suoi investimenti nella petrolchimica. Già a partire dal 1950 diverse società affiliate, in compartecipazione o con brevetti americani, avevano messo in funzione i loro impianti nella “seconda zona”, nella completa assenza di pianificazione pubblica <40. Il riavvio delle fabbriche della “prima zona”, invece, avvenne senza significative innovazioni tecnologiche e l’aumento della produttività fu ottenuto tramite razionalizzazione e intensificazione del lavoro. L’occupazione si riportò sui livelli degli ultimi anni di guerra solo grazie alle nuove lavorazioni petrolchimiche, mentre in provincia rimaneva acuto il problema della sottoccupazione rurale. A Porto Marghera non ebbe particolare successo la “campagna produttivistica” americana, che trovò invece terreno fertile in alcune piccole e medie imprese regionali: a Porto Marghera, evidentemente, la collaborazione delle maestranze e le human relations - come un tempo il paternalismo rossiano - non rientravano tra le priorità delle aziende <41. Le basse qualifiche, il lavoro precario e stagionale, i picchi dei ritmi in occasione delle consegne, gli stili di comando autoritari della “prima Marghera” rimasero i tratti caratteristici del lavoro di fabbrica.
In questo contesto la formazione di sindacalisti di fabbrica procedette lentamente.
Il mutamento dei rapporti di forza nel paese e di riflesso nei luoghi di lavoro e in città, con la caduta della giunta Gianquinto, era solo in parte la causa della difficoltà del sindacato veneziano a investire le sue risorse nella zona industriale. La Cgil era polarizzata tra quadri provinciali di estrazione rurale e urbano-artigiani “insulari”: in entrambi i casi a mancare era una cultura attrezzata a fronteggiare i problemi della grande industria. Nonostante l’elezione delle commissioni interne e la tenuta delle liste della Cgil tra gli operai, l’azione di fabbrica soffrì del contesto degli “anni duri”: generalizzazione degli scioperi solo in occasione dei rinnovi contrattuali, scarso coordinamento di categoria, rivendicazioni sulla parte variabile del salario (cottimi e incentivi) e per i diritti minimi (mensa), soluzioni una tantum (premi di produzione) e, non da ultimo, subalternità dei sindacati ai partiti di riferimento <42.
L’esperienza delle conferenze di produzione, che avevano tentato di formare, almeno nelle fabbriche più vecchie, uno strato di “produttori” coscienti dell’organizzazione del lavoro ai fini della contrattazione aziendale, non fu incoraggiata dal Pci veneziano, su posizioni settariamente ostili a qualunque collaborazione con le direzioni sul tema della produttività. Tuttavia alla Sava le conferenze crearono le basi per l’ottenimento di un premio di produzione e per l’assorbimento dei lavoratori stagionali in organico, rafforzando una cultura della contrattazione che sarebbe rimasta il tratto distintivo della fabbrica <43.
All’iniziativa delle commissioni interne le direzioni risposero con sistematiche politiche antisindacali, come nel resto delle aree industrializzate del paese: premi di operosità per i dipendenti che non partecipavano agli scioperi e licenziamento degli attivisti. A pesare sugli assetti delle relazioni industriali non erano solo le incertezze sindacali e l’autoritarismo padronale; era anche la “complessa stratificazione culturale della classe operaia” <44, con i lavoratori più maturi ancora segnati da un rapporto di strumentalità con il mondo di fabbrica e dalla tendenza a “personalizzare” il disagio piuttosto che a generalizzarlo: alla San Marco, di fronte allo stillicidio di infortuni mortali, gli operai scesero in sciopero contro il capo reparto, accusato di inettitudine, mentre la Commissione interna si presentava al prefetto nel ruolo di calmiere <45.
Impotenti o passivi in fabbrica, gli operai margherini cominciarono a imprimere un segno riconoscibile nello spazio urbano: negli anni Cinquanta il quartiere di Marghera prese il volto di una popolosa borgata e iniziò il processo di sutura tra Mestre e le sue frazioni rurali. Gli architetti dell’Istituto di architettura (Iuav) progettarono un nuovo quartiere di terraferma - il Villaggio San Marco - in cui riprodurre l’ambiente popolare dei campi di Venezia, proprio mentre si innescava l’“esodo di classe” dei suoi residenti <46.
Allo sviluppo della città operaia si accompagnò l’innesto nel territorio delle subculture politiche bianca e rossa. A Ca’ Emiliani era sorta, grazie al lavoro volontario degli operai, la Casa del popolo <47. Poco distante, nel 1954, inaugurava alla presenza dal patriarca Angelo Roncalli la chiesa intitolata a Gesù operaio, la più concreta realizzazione dell’apostolato di don Berna a Marghera. Sedi di due primi maggio concorrenziali, questi luoghi (il primo oggi giace dismesso) testimoniavano l’autoriconoscimento di Marghera come quartiere operaio.
I petrolchimici
All’inizio degli anni Sessanta agli impianti petrolchimici della “seconda zona” si aggiunsero nuovi e più moderni stabilimenti della Sava, della Sirma e delle Leghe leggere. Nel 1966 le “nozze petrolchimiche” tra Montecatini ed Edison crearono un gigantesco kombinat in cui furono progressivamente integrate anche le fabbriche della “prima zona”. La marcia dell’industria in laguna sembrava così inarrestabile da far programmare una “terza zona” di ulteriori 3.000 ettari.
Il tumultuoso sviluppo della “seconda zona” mise fine alla pace sociale che aveva regnato a Porto Marghera anche dopo il fascismo. Nel 1964 la Sirma annunciò il licenziamento di un centinaio di operai: questa volta non per un calo degli ordinativi, ma per effetto del recupero di produttività reso possibile dal più moderno stabilimento in “seconda zona”. Le commissioni interne risposero con l’occupazione unitaria ma, su pressione della polizia, i lavoratori vennero sgomberati e i licenziamenti ancora una volta passarono.
La vertenza si era svolta in un clima completamente diverso da quella della Breda di quindici anni prima. Attorno agli operai si era accesa un’attenzione che coinvolgeva non soltanto le istituzioni, ma anche spezzoni di società civile: un gruppo di associazioni (dalle federazioni giovanili dei partiti di sinistra ai goliardi e agli studenti di architettura) promosse una partecipata “marcia di solidarietà con gli operai della Sirma” dal centro di Mestre ai cancelli della fabbrica.
I cambiamenti più significativi avvennero nel laboratorio petrolchimico. Nel corso del suo insediamento la Edison aveva proseguito in grande stile la tradizione di reclutamento e governo della forza lavoro dell’era volpiana. Centinaia di giovanissimi operai erano stati immessi in produzione grazie a segnalazioni di buona condotta fornite dalle parrocchie, dopo una breve formazione nella scuola aziendale. Provenivano da una “campagna urbanizzata” che non consentiva più la composizione di cicli di lavoro tra industria e agricoltura <48.
La fabbrica era diventata non solo un destino e un rimedio al trauma dell’emigrazione, ma un’ambizione. Vi entrarono con la necessità di restarci, con l’aspettativa di trovarvi condizioni di lavoro migliori e il soddisfacimento di bisogni nuovi: la continuità del reddito, la possibilità di avere una casa propria e di acquistare un motorino per rendere più sopportabile il pendolarismo.
Gli operai dell’Edison si erano fatti riconoscere come i grandi assenti dagli scioperi e fino alla fine degli anni Cinquanta per la Cgil fu impossibile presentare una propria lista di candidati nelle elezioni delle commissioni interne <49. La petrolchimica era un mondo completamente diverso non solo dalla cantieristica o dalla meccanica, ma dalle stesse fabbriche della “prima” chimica. L’addetto petrolchimico lavorava all’aperto, era sottoposto al ciclo continuo e alla turnazione, mangiava presso gli impianti con la propria squadra, la sua professionalità si esauriva nella vigilanza <50. L’insieme delle sue condizioni di lavoro, oltre che il retroterra che lo aveva selezionato, ostacolava la costruzione di una solidarietà e una coscienza collettive. La disciplina richiestagli era direttamente proporzionale al suo potere contrattuale: un semplice malfunzionamento in un punto del ciclo, infatti, poteva causare danni ingenti alla produzione.
In queste contraddizioni si inserì il primo gruppo operaista veneto, maturato negli interstizi della sinistra socialista tra Padova e Venezia. Dal 1959 il giornale “Il Progresso veneto” iniziò a propugnare posizioni classiste e di alternativa socialista al centro-sinistra <51. A Venezia questo fermento trovò il suo habitat nella sezione di campo San Barnaba dove, sotto la guida di Toni Negri, un gruppo di intellettuali cominciò a formarsi politicamente con qualche “avanguardia operaia” del porto e della Vetrocoke <52. Nel 1963 “Il Progresso veneto” introdusse il concetto - importato dalle lotte torinesi - del “potere operaio”, rivolgendo ai lavoratori di Porto Marghera l’incitamento all’azione rivoluzionaria e di classe <53.
Le posizioni radicali attecchirono soprattutto nelle fabbriche della nuova chimica, inizialmente tra figure accomunate da maggiore professionalità, istruzione e retroterra sindacale: manutentori come Italo Sbrogiò, Franco Donaggio e Toni Manotti, tecnici come Bruno Massa e Augusto Finzi <54. Essi condividevano i vissuti dei loro compagni di lavoro e coglievano l’intreccio esplosivo tra aspettative e delusioni: la promessa di miglioramento della grande fabbrica si era rivelata un inganno, nei reparti si vivevano le stesse relazioni autoritarie subite sui banchi di scuola e in parrocchia.
L’avvisaglia che tra i “crumiri” della Edison qualcosa stesse cambiando si ebbe nell’estate 1963, quando scoppiò uno sciopero contro la decurtazione delle ferie e della mutua interna: sintomo di bisogni e progetti di vita “moderni”, inconcepibili per gli operai delle precedenti generazioni.
Per la prima volta la sezione del Pci della zona industriale investì risorse per comprendere i fermenti dei nuovi chimici <55. Lo spostamento su posizioni radicali di alcuni quadri di fabbrica fu anche l’esito del rifiuto, da parte dei più giovani, di accettare un destino incarnato nella corporeità logorata degli operai anziani.
[NOTE]
42 Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-1955, Milano, FrancoAngeli, 1984.
43 Omar Salani Favaro, Le conferenze di produzione a Porto Marghera (1950-1953): tra sindacalismo e “sapere di fabbrica”, in Laura Cerasi (a cura di), Cent’anni di sindacato nel Veneto. Lavoro, lotta, organizzazione, “Venetica”, 2006, n. 13, pp. 121-142; Fioravante Pagnin, Portomarghera. Sindacato e partito comunista negli anni ’50, Venezia, Centro internazionale della grafica di Venezia, 2006.
44 F. Piva, G. Tattara, I primi operai di Marghera, cit., qui p. 394.
45 Commissione interna della San Marco al Prefetto, 17 agosto 1954, in ASVE, Gabinetto di prefettura (I serie), b. 67, fasc. 1954. Scioperi.
42 Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-1955, Milano, FrancoAngeli, 1984.
43 Omar Salani Favaro, Le conferenze di produzione a Porto Marghera (1950-1953): tra sindacalismo e “sapere di fabbrica”, in Laura Cerasi (a cura di), Cent’anni di sindacato nel Veneto. Lavoro, lotta, organizzazione, “Venetica”, 2006, n. 13, pp. 121-142; Fioravante Pagnin, Portomarghera. Sindacato e partito comunista negli anni ’50, Venezia, Centro internazionale della grafica di Venezia, 2006.
44 F. Piva, G. Tattara, I primi operai di Marghera, cit., qui p. 394.
45 Commissione interna della San Marco al Prefetto, 17 agosto 1954, in ASVE, Gabinetto di prefettura (I serie), b. 67, fasc. 1954. Scioperi.
46 W. Dorigo, Una legge contro Venezia, cit., qui p. 33. Il centro storico ha cominciato a perdere residenti dal 1951: dai circa 175.000 di allora si è passati ai 55.000 di oggi.
47 Fabio Brusò, La Casa del popolo di Ca’ Emiliani, 19 dicembre 2010, on line sul sito dell’Associazione storiAmestre, http://storiamestre.it/2010/12/cdp-caemi/ (25 luglio 2016).
48 Sul concetto di “campagna urbanizzata” cfr. Giacomo Becattini (a cura di), Lo sviluppo economico della Toscana con particolare riguardo all’industrializzazione leggera, Firenze, Irpet, 1975.
49 Omar Salani Favaro, La chimica nord-orientale. L’impresa, il lavoro e la politica, tesi di dottorato in Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea, Università Ca’ Foscari Venezia, XXV ciclo.
50 Cfr. l’intervento del dott. Elio Vianello in Franco Ferri (a cura di), Scienza e organizzazione del lavoro (Atti del convegno, Torino, 8-10 giugno 1973), vol. I, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, 1973, pp. 213-220.
51 Luigi Urettini, L’operaismo veneto da “Il Progresso veneto” a “Potere operaio”, in Carmelo Adagio, Rocco Cerrato, Simona Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del ’68, Verona, Cierre, 1999, pp. 173-204; Mario Isnenghi, Fra partito e prepartito. “Il Progresso veneto” (1961-1963), “Classe”, 1980, n. 17, pp. 221-238; Egidio Pasetto, Giuseppe Pupillo, Il gruppo “Potere operaio” nelle lotte di Porto Marghera: primavera ’66-primavera ’70, “Classe”, 1970, n. 3, pp. 95-119.
52 Antonio Negri, Pipe-line. Lettere da Rebibbia (I ed. 1983), Roma, DeriveApprodi, 2009, qui p. 64. Negri è tornato recentemente sulle sue esperienze venete nell’autobiografia Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Milano, Ponte alle Grazie, 2015.
53 Cfr. l’editoriale Potere operaio, “Il Potere operaio dei lavoratori della Vetrocoke”, inserto de “Il Progresso veneto”, 1963, n. 53.
54 Italo Sbrogiò, Tuberi e pan secco. Itinerario autobiografico sociale, culturale e politico, Padova, Il Poligrafo, 1990; Id., La fiaba di una città industriale 1953-1993. 40 anni di lotte, Venezia, Edizioni El Squero, 2016; Franco Donaggio, In fabbrica ogni giorno tutti i giorni, Verona, Bertani, 1977. Testimonianze autobiografiche di Finzi sono in Memoria difensiva di Augusto Finzi, “Controlavoro”, 24 novembre 1980 e nei documentari di Manuela Pellarin Gli ultimi fuochi (2004) e Gli anni sospesi (2009).
55 Numero unico sulla Edison a cura del Pci-Comitato zona industriale Porto Marghera, s.d. [ma novembre 1964], in AIVESER, Cesco Chinello, b. 15. Cfr. anche gli articoli non firmati Corrispondenze di lotta. Chimici Porto Marghera e Portomarghera: proposte per l’agitazione, entrambi “Classe operaia”, 1964, n. 4-5, pp. 28-30 e 1964, n. 6, pp. 2-4.
Gilda Zazzara, I cento anni di Porto Marghera (1917-2017) in “Italia contemporanea”, FrancoAngeli, agosto 2017, n. 284


L’inizio degli anni Cinquanta rappresenta anche la ripresa dei progetti di espansione della zona industriale di Marghera. Il primo progetto fu rilanciato dall’Ente del porto e della zona industriale di Marghera - riprendendo il progetto di massima elaborato nel 1925 dall’ing. Coen Cagli - e già 39 società si fecero avanti con le richieste di insediamento.
Questo progetto fu la base per la redazione - 27 agosto 1953 <92 - di un piano regolatore di massima per l’utilizzazione della restante zona della laguna (fino alla località Fusina e al Naviglio Brenta) <93.
Tale piano venne approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici - 10 marzo 1955 <94 - e prevedeva l’estensione a una superficie complessiva di circa 1.100 ettari e una spesa di circa 8 miliardi (lire del 1953) in opere pubbliche.
Per la realizzazione di tali opere la Camera di commercio di Venezia - nell’ottobre del 1953 - prese l’iniziativa per la costituzione di un Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Marghera (1954) <95. Mediante questo consorzio - privo di particolari poteri legislativi - si avviò un’operazione di collocamento delle aree di espansione nel mercato in modo che si avviasse l’opera di industrializzazione di quella che fu chiamata “seconda zona” industriale, ma per la velocità e «incultura e abulia amministrativa e politica degli enti locali» - con aree in parte asciutte e in parte barenose - non raggiunse gli scopi di correzione e integrazione del complesso lasciato dal conte Volpi che molti si attendevano <96.
Dopo una serie di vicende si costituì il 22 dicembre 1958 <97 un secondo consorzio di enti pubblici - Comune di Venezia, Provincia di Venezia, Provveditorato al porto e Camera di commercio - che attese due anni prima di ottenere i poteri di intervento (legge n. 1233 del 20 ottobre 1960), ma esso dovette constatare che quasi l’80% delle aree della zona di ampliamento, quasi tutte bisognose di ulteriori rialzi di quota, erano state acquistate a prezzo agricolo, e spesso rivendute a prezzi significativamente più elevati, da società industriali milanesi, fra le quali spiccavano la Edison e la Montecatini, in proprio o attraverso società di comodo, affiliate e consociate <98.
Su circa 950 ha dell’area complessiva la Montecatini e la Edison, mediante società di comodo da loro dipendenti, acquistarono in gran parte direttamente, a prezzi agricoli seppure in progressiva lievitazione, oltre 750 ha di coltivati e di barene in gran parte bisognosi di ulteriori rialzi di quota, su cui sarebbe sorta la seconda zona. Sfuggendo bravamente all’esproprio - previsto dalla legge 20 ottobre 1960, n. 1233 - che sarebbe dovuto essere seguito da parte dell’allora Consorzio (cessato il 30 giugno 1963 ai sensi della legge 2 marzo 1963, n. 397), i due gruppi si ritrovarono così proprietari di terreni attrezzati a spese dello Stato e degli enti locali con canali, strade ferrovie, ecc.
Né mancarono  fra il 1959 e il 1963, ancora in spregio alla legge n. 1233, numerosi episodi di permuta e di compravendita fra la Montecatini e la Edison, e fra le aziende industriali medesime e altri gruppi <99.
Già nel 1956 in consiglio provinciale - durante una discussione sul consorzio - il consigliere Fioravante Pagnin (PCI) affermò: "Ma qual è l'attività del Consorzio? Perché non si è proceduto all’esproprio dei terreni in questione? Perché una Società, la Sicedison, ha già provveduto, pare, all’acquisto di oltre 200 ha.? Quali problemi si agitano fra i gruppo Edison, SADE, Montecatini che restano nascosti ai più e forse incidono sulla rapida attuazione dell’opera?" <100.
In campo sindacale uno dei primi articoli che citò il petrolchimico era datato 15 marzo 1957 dove si fece un brevissimo accenno alle nuove fabbriche che erano sorte in quegli anni.
[NOTE]
92 Cfr. ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per la sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Delibera, p. 2.
93 C. CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia. 1951-1973, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 22.
94 Cfr. ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per la sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Delibera, p. 2.
95 Ibid., b. 361, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, sottofasc. 1956, Atto costitutivo del “Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera”. CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico cit., p. 22. L’adesione della provincia di Venezia al consorzio fu discussa e approvata all’unanimità nella seduta del 15 maggio 1954 (PROVINCIA DI VENEZIA, Atti del consiglio provinciale. 1954, vol. II, seduta del 15 maggio 1954, pp. 26-32). Tale consorzio fu presieduto dal presidente della Camera di commercio Giovanni Barbini con la partecipazione del comune e della provincia di Venezia. Questi ultimi nominarono diversi consiglieri in base all’appartenenza politica: Umberto Sannicolò (PCI per la provincia), Alberto Toniolo (DC per la provincia), Sergio Fabbro (PSI per il comune), Angelo Scattolin (DC per il comune), Luigi Zecchin (DC per il comune) (ASVE, GP, b. 361, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, sottofasc. 1957, Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Marghera, Verbale del Consiglio di amministrazione del 20 ottobre 1956, pp. 1-2).
96 W. DORIGO, Una legge contro Venezia. Natura storia interessi nella questione della città e della laguna, Roma, Officina, 1973, p. 176.
97 ASVE, GP, b. 262, fasc. Consorzio per lo sviluppo della zona industriale di Venezia-Marghera, sottofasc. Costruzione di raccordi ferro-stradali nella nuova zona industriale di Porto Marghera - Vincoli militari, Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Venezia-Marghera, Piano generale per a sistemazione della zona di cui alla legge 20 ottobre 1960 n° 1233. Relazione, p. 1.
98 DORIGO, Una legge contro Venezia cit., pp. 176-177. Sulle vicende della II zona si veda la ricostruzione CHINELLO, Forze politiche e sviluppo capitalistico cit., pp. 37-46. Quest’ultima si può considerare a tutt’oggi - a quasi quarant’anni di distanza - la più dettagliata, anche se fortemente deficitaria del punto di vista del principale partito di opposizione di quegli anni. il PCI, di cui in quegli anni Chinello era esponente di spicco e dai primi anni Sessanta segretario provinciale. Nello stesso anno dell’uscita del libro di Chinello uscì il già citato libro di Dorigo, uno dei protagonisti delle vicende della II zona in quanto assessore comunale all’urbanistica e estensore del PRG comunale.
99 DORIGO, Una legge contro Venezia cit., pp. 213-214.
100 Intervento di Fioravante Pagnin in PROVINCIA DI VENEZIA, Atti del consiglio provinciale. 1956, vol. III, seduta dell’8 ottobre 1956, p. 20.
Omar Salani Favaro, La chimica nord-orientale. L’impresa, il lavoro e la politica, Tesi di Dottorato, Università Ca' Foscari Venezia, 2014

Verso il porto, di recente - Fonte: Mapio.net

L’istituzione della Fondazione Santa Maria del Porto, oltre alle motivazioni assistenziali e spirituali più volte sottolineate dai suoi promotori, sottendeva un’altra valenza: gestire le crescenti tensioni legate alla crisi del porto commerciale di Venezia e alla conseguente riduzione del personale lavorativo. La vicenda, certamente complessa e già segnata dagli accesi scontri che nel 1950 avevano segnato col sangue i cantieri BREDA, spostava definitivamente l’asse della «questione sociale» veneziana verso Porto Marghera, soggetto dal 1953 ad una nuova fase di sviluppo con la costruzione di una seconda zona industriale.
L’insorgere di rivendicazioni sempre più incisive all’interno di quella che, nel 1958 Alfredo Orecchio e Felice Chianti avevano definito una «cittadella inesplorata in cui i sudditi, operai […] danno più grattacapi» <31, delineò infatti quello che in questo lavoro ho sottolineato come il «secondo tempo della questione operaia veneziana», ovvero un punto di discontinuità rispetto alla precedente gestione operata tra le maestranze dai patriarchi La Fontane, Piazza ed Agostini.
[...] Quali furono le risposte fornite dalle forze cattoliche ad un contesto atipico nel panorama veneto di quegli anni, sottoposto a continui processi di trasformazione ed ai riflessi di un accentuato scontro ideologico? Quanto queste modalità operative furono dettate dagli sviluppi capitalistici, e quanto dalle specificità locali rispetto alle direttive vaticane? Come tentò la Curia patriarcale di ricucire figurativamente gli otto chilometri che separavano le splendenti cupole della Basilica di San Marco dalle ciminiere di Porto Marghera? Nel rispondere a questa serie di domande, pur focalizzando l’attenzione sul lustro patriarcale del futuro Giovanni XXIII, analizzerò un arco temporale più ampio (dal 1927 al 1958, con quattro episcopati coinvolti) in grado di valutarne meglio la continuità e la discontinuità operativa. Relazionando e approfondendo i dettagli di questa rapida panoramica con le diverse congiunture (politiche, sociali ed economiche) nazionali, il primo punto che affronterò toccherà pertanto quello che reputo il perno dell’azione promulgata dalla Chiesa cattolica, specialmente durante il pontificato pacelliano (1939-1958): la costruzione di chiese e l’istituzione di nuove parrocchie come risposta ai processi di urbanizzazione. Lo farò cercando di valutarne tre aspetti: la correlazione con lo sviluppo abitativo lagunare; la base finanziaria statale; la funzione pastorale ed il tentativo di coniugare attraverso l’edilizia di culto la tradizione del centro storico con l’evangelizzazione delle nuove aree.
31 F. CHIANTI - A. ORECCHIO, Porto Marghera: una cittadella inesplorata, in «Paese sera», 3-4 marzo 1958. Il pezzo si trova in: 31 AFPGXXIII, busta 1.10/2., cart. 8, fasc. 49, Carattere sociale.
Federico Creatini, Dalla laguna a Porto Marghera. Lungo le questioni del patriarcato di Angelo Giuseppe Roncalli, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bergamo, Anno accademico 2017/2018