domenica 20 febbraio 2022

Ajò, il gatto rosso di Trilussa


Caratteristica essenziale della legislazione razziale in Italia e in particolare della sua attuazione era il duplice aspetto utilitario e pratico in quanto, a parte i sempre esistenti meschini profittatori e/o corrotti presenti in ogni regime, la questione politica apriva anche delle prospettive economiche (per spoliazioni in particolare), imponendo sia dei limiti al possesso dei beni (e poi la loro confisca sotto la Rsi) sia restrizioni a molte attività professionali e commerciali.
Sin dai primi tempi dall’entrata in vigore della cosiddetta legislazione a “difesa della razza” cominciarono a circolare voci e sospetti, sempre più evidenti, di corruzioni e profitti a vario livello. Una singolare denuncia giunse anche dal poeta Carlo Alberto Camillo Salustri (meglio noto come Trilussa) il quale nel 1940 pubblicò una poesia dal titolo, evidentemente eloquente, "L’affare della razza". La denuncia del poeta fu poi accolta anche da fedelissimi sostenitori della “difesa della razza”. Basti citare, in proposito, Telesio Interlandi, il quale su “Il Tevere” del 5-6 giugno 1941 accanto alla poesia di Trilussa pubblicata in prima pagina fece cenno, sotto il titolo "La satira e la razza", alla “dolorosa realtà di falsi nomi ariani” sottoposti alla nuova legislazione “con la deplorevole compiacenza di funzionari permissivi”, auspicando pertanto una legislazione più netta e severa; un auspicio accolto e rilanciato anche da Giovanni Preziosi il quale, sulla rivista da lui fondata, “La vita italiana” - divenuta negli anni uno dei fulcri della campagna di stampa antiebraica e punto di riferimento dei maggiori teorici dell’antisemitismo italiano e internazionale - pubblicò in quello stesso mese di giugno sia la poesia che parte dell’articolo di Interlandi sotto l’eloquente titolo "La parola a Trilussa".
Vale la pena soffermarsi su questa pagina della biografia di Trilussa. Egli amava definirsi “non fascista”, ma, in realtà, con il suo sarcasmo romanesco, sincero ed irriverente, fu un reale oppositore del Regime; la sua decisione di non prendere la tessera del partito gli pregiudicò peraltro anche la nomina di accademico d’Italia. I versi della sua poesia - pubblicata anche all’estero, su fogli di esuli antifascisti come la “Voce d’Italia” del 1º giugno 1941 - traevano ispirazione, come sovente, dalla cronaca quotidiana e suscitavano ironia sulla idiozia delle leggi razziste del 1938 e sull’invenzione della razza cosiddetta ariana, tale da risultare irriverente verso l’autorità. Ecco una parte del testo:
Ci avevo un gatto e lo chiamavo Ayò
ma dato c’era un nome un po’ giudio
agnedi da un prefetto amico mio
pe’ domannaje se potevo o no,
volevo sta’ tranquillo, tantoppiù
ch’ero disposto a chiamarlo Ajù
- Bisognerà studià - disse er prefetto -
la vera provenienza de la madre… -
La poesia accenna poi all’origine della madre (“àngora”), del padre (“siamese”, anche se “bazzicava er Ghetto”) e del gatto, nato “a casa der Curato”; e così continua con le parole del prefetto:
Se veramente ciai ‘ste prove in mano,
- me rispose l’amico - se fa presto.
La posizzione è chiara: - E detto questo
firmò una carta e me lo fece ariano.
- Però - me disse - pe’ tranquillità,
è forse mejo che lo chiami Ajà.
Nella realtà Trilussa aveva effettivamente un bel gatto rosso, da lui chiamato Ajò, nome di un avvocato ebreo, Ugo Ajò, caro amico di Trilussa; ma ebrei erano anche il suo primo editore Enrico Voghera e il modenese Angelo Fortunato Formiggini, che nel 1931 pubblicò, nella collana classici del ridere, l’antologia di favole di Trilussa "Campionario".
Nel 1938 l’avv. Ugo Ajò mise in atto una burla provocatoria. Fece stampare della cartoline con il titolo beffardo "Cartolina razzista romana", sulle quali erano riprodotte due poesie di Trilussa: da un lato "Questione di razza" del 1935 e dall’altro un risalente sonetto "Questioni de razze" del 1890 (di cui l’avvocato conservava gelosamente l’autografo); entrambe con toni diversi, ma echeggianti una posizione non razzista dell’autore. L’avv. Ayò inviò una cartolina per posta (timbro del 6 ottobre 1938, giorno in cui fu approvato dal Gran consiglio del fascismo il testo della successiva legge del 10 novembre 1938) ad Arnaldo Mondadori, ingenuamente confidando su una benevola considerazione dell’iniziativa, essendo Mondadori editore unico di Trilussa dal 1921. L’editore, allarmato per i rischi di un intervento della censura, anche perché la cartolina citava le sue edizioni in calce a ciascuna poesia, il 9 dicembre 1938 scrisse una accorata lettera a Trilussa invitandolo a pretendere dall’avvocato Ayò la distruzione immediata di tutte le cartoline stampate.
Della risposta di Trilussa non c’è traccia nell’Archivio Mondadori, dove invece è conservata la minuta della lettera dell’editore. È probabile che, fermo nelle sue convinzioni, il poeta non abbia risposto e anzi, con ancora più rischiosa ironia, riprese il nome di Ajò nella citata poesia del 1940.
La corrispondenza tra l’avv. Ajò e Trilussa continuò anche nei mesi successivi. Il 23 settembre 1940, scrivendo da Serra di Lerici, dove si era rifugiato dopo essere stato costretto a lasciare la professione, l’avvocato, con amara ironia, confidò a Trilussa che se non si era “fatto vivo dall’aprile 1939 […] è perché sono morto, ucciso dalla Questione de razza, che mi ha allontanato dal Palazzo di Giustizia e dall’insegnamento al quale tenevo”.
Riccardo Chieppa, Persecuzioni razziali (1939-1945): episodi di speculazione e meschini profittatori in (a cura di) Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti, Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, Consiglio Superiore della Magistratura - Consiglio Nazionale Forense, 2018

Trilussa e il razzismo
Prima di confluire nella raccolta "Acqua e vino" (stampata da Mondadori a Roma liberata nel dicembre 1944, in edizione provvisoria), "L’affare de la razza" era apparsa su «La Voce d’Italia» del 1° giugno 1941 con l’avviso «Riproduzione vietata». Il divieto fu ignorato dal giornale fascistissimo «Il Tevere», che la ripubblicò sulla prima pagina del numero 188 (5-6 giugno 1941), accompagnandola con un lungo articolo, "La satira e la razza", non firmato ma presumibilmente dello stesso direttore, il tristamente famoso Telesio Interlandi. Vi si sosteneva che, dietro lo schermo della satira, la poesia trilussiana denunciava una pericolosa realtà: troppi ebrei si nascondevano sotto falsi nomi ariani con la deplorevole compiacenza di funzionari permissivi dello Stato. Facendo proprie le teorie razziste più estreme, l’articolista invocava leggi più severe e più severamente applicate: «Non vogliamo né Ajà, né Ajù, ma nettamente Ajò: vogliamo conoscere gli ebrei per quello che sono, per quello che furono e per quello che saranno [...]. Abbisogna all’Italia una legislazione antiebraica più netta, meno tortuosa, meno ingenua. Non alimentiamo il fenomeno dell’ebreo ariano per decreto. Questi errori si sconteranno». Idee aberranti e parole minacciose che preannunciavano la tragica svolta dalla discriminazione alla persecuzione e allo sterminio, già in atto del resto, nel 1941, nella Germania nazista.
Il motteggio di Trilussa celava la previsione di una imminente follia sanguinaria: non per nulla il suo “scherzo” poteva infiammare d’ira e di sdegno un razzista come l’autore dell’articolo del «Tevere». Il poeta, notoriamente amante dei gatti, ne aveva realmente uno a cui aveva dato il nome di Ajò e che continuò a chiamare così sfidando le regole del regime. Di Ajò si può vedere la fotografia in un libro di memorie di Fiorella Frapiselli, che da bambina frequentò insieme al padre, Armando Frapiselli, il favoloso studio di Trilussa ricolmo di strani oggetti, soprattutto di animali impagliati o imbalsamati. Quella foto la scattò lei stessa, con le mani inesperte della sua giovanissima età, nel giardinetto retrostante lo studio di via Maria Adelaide. «Ajò», scrive la Frapiselli a distanza di tanti anni, «era un bel gattone rosso che quando Trilussa non era in casa, misteriosamente ne sentiva l’approssimarsi, anche quando egli era molto lontano. Allora il micio correva verso la porta di casa e Rosa [la governante] diceva: “Il padrone sta arrivando!”. Infatti dopo un po’ egli appariva, recando spesso “il fagottello degli avanzi” che spontaneamente i camerieri dei ristoranti da lui frequentati si ricordavano di consegnargli “per il gatto”, essendo noto l’affetto che egli aveva per la bestiola. Poi, un brutto giorno Ajò morì e, come ebbe a raccontarmi mio padre, fu pietosamente sepolto, avvolto in una vecchia vestaglia di seta, sotto le zolle del bel giardinetto della fotografia» ("Trilussa con noi", Roma, Bardi, 2001, pp. 19-23).
Perché proprio quel nome Ajò? Per spiegarlo, bisogna retrocedere al 1938, l’anno nero del "Manifesto della razza". In alcuni sonetti giovanili Trilussa aveva ironizzato sugli usurai ebrei, di cui era stato vittima a causa della sua vita dispendiosa, ma non ne aveva mai fatto una “questione di razza”, e d’altronde non pochi suoi amici erano ebrei. Lo era il suo primo editore, Enrico Voghera, e lo era un altro geniale editore, il modenese Angelo Fortunato Formìggini, che nella prestigiosa collana dei «Classici per ridere» gli pubblicò, nel 1931, la fortunata antologia di favole intitolata "Campionario": Formìggini nel ’38 si suicidò in segno di estrema protesta contro le leggi razziali e alla sua memoria Trilussa restò sempre devoto con affetto e ammirazione. Tra questi amici ed estimatori dell’“altra razza”, va annoverato anche l’avvocato romano Ugo Ayò (si firmava così, con la y), il quale combinò una burla provocatoria, facendo stampare una serie di  cartoline intestate beffardamente «Cartolina razzista romana», con la riproduzione di due poesie trilussiane: sul dritto "Questione de razza", tratta dall’antologia mondadoriana "Lo Specchio e altre poesie" del 1938, ma già in "Libro muto" del 1935; sul rovescio "Questioni de razze", un sonetto che forse risale al 1890. In entrambi i testi, con toni diversi, è inequivocabile la  posizione antirazzista dell’autore.
Ebbene, Ugo Ayò ebbe la temerarietà di far recapitare una di quelle cartoline (con timbro postale «6 ottobre 1938», proprio il giorno in cui il Gran Consiglio aveva approvato il testo contro gli ebrei che sarebbe diventato legge il 10 novembre) ad Arnoldo Mondadori che alloggiava all’Hotel Excelsior di via Veneto. Forse Ayò aveva pensato ingenuamente che Mondadori, dal 1921 editore unico di Trilussa, si sarebbe compiaciuto della sua iniziativa. Ma non fu così. Mondadori se ne spaventò perché le cartoline citavano, in calce ai testi, le sue edizioni e - temendo l’intervento della censura - scrisse a Trilussa una lettera, datata 9 dicembre 1938, che si concludeva con questa perentoria esortazione: «Vorrai [...] pretendere dall’Avv. Ayò la distruzione immediata di tutte le cartoline stampate, distruzione che ti consiglio di controllare di persona con le maggiori cautele». Nell’Archivio storico della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori - dove ho trovato copia della lettera insieme all’incriminata cartolina - non esistono risposte di Trilussa. Tuttavia si può supporre che egli non tenesse affatto conto della richiesta dell’editore, dal momento che tre anni dopo si espose ancor più pericolosamente giocando proprio col nome di Ajò nella poesia "L’affare de la razza.
Quanto all’avvocato Ayò, va detto che egli continuò a scrivere a Trilussa con la disperazione e l’amara ironia dell’esule perseguitato, arrovellandosi di non ricordare perfettamente i versi di "Questione de razza".
Giova rileggerli integralmente perché essi diventarono una sorta di piccolo manifesto clandestino degli antifascisti e antirazzisti romani:  
- Che cane buffo! - E dove l’hai trovato? -
Er vecchio me rispose: - È brutto assai,
ma nun me lascia mai: s’è affezzionato.
L’unica compagnia che m’è rimasta,
fra tanti amichi, è ’sto lupetto nero:
nun è de razza, è vero,
ma m’è fedele e basta.
Io nun faccio questioni de colore:
l’azzioni bone e belle
vengheno su dar core
sotto qualunque pelle.
Una poesia dolente e di alta moralità, in cui Trilussa rinuncia significativamente ai consueti motti di spirito (con un’arguzia si chiudeva il sonetto giovanile "Questioni de razze": «se vojo fa’ na vita da cristiano/bisogna che ricorra da un giudìo!», riferito allo strozzino Isacco dei versi precedenti).
"Questione de razza" restò nel cuore di Ugo Ayò, come attestano due sue lettere conservate nell’Archivio Trilussa del Museo di Roma in Trastevere, e spedite da La Serra di Lerici, dove l’avvocato si era rifugiato dopo essere stato costretto ad abbandonare la professione. La prima è datata «Lunedi 23 Sett. 1940/LXX dalla Breccia di Porta Pia» (si noti che l’“anno fascista” è sostituito da quello della proclamazione di Roma capitale):
Egregio amico,
nun so’ de razza - è vero
ma so’ fedele (a l’amichi)
e basta!
Se non mi sono fatto vivo dall’Aprile 1939 ad oggi, è perché sono morto - ucciso da la Questione de razza, che mi ha allontanato dal Palazzo di Giustizia e dal l’Insegnamento al quale tenevo. Ti ricordo la mia tesi di Laurea 1931 su la Musa romanesca [evidentemente Ayò era laureato anche in Lettere] e poiché ho avuto autografo il Sonetto 1890 “Questioni de razza” [sic per Questioni de razze] vorrei altrettanto autografo l’idillio:
“Che cane buffo!
e dove l’hai trovato” 1936.
Per guadagnare tempo, trascrivimelo sull’acclusa pagina ed abbimi fraternamente
Ugo de Roma
La seconda lettera è datata «Mercoldì, 6 Nov. 1940/< XX», dove il segno < sta a indicare che si è alle soglie, deprecate, del ventesimo anno dell’era fascista, che si compirà nel 1941. Al centro del foglio è ricopiata a macchina "Questione de razza", seguita, in basso da queste righe a penna:
Chiarissimo ed Altissimo Poeta, da questo Èremo, dove - come già Dante e il Petrarca - “io vo cercando pace pace pace!”, vorrei insistere per l’autografo; ma almeno perché mi segni correttamente se sono terzine o quartine.
Scusami ed abbimi
aff.mo Ugo Ayò
Avvocato in sito...
Per inciso, va ricordato che gli amici chiamavano Trilussa «Altissimo Poeta» con scherzosa allusione alla sua statura (era alto quasi due metri). Per alleggerire la tristezza delle sue lettere, Ayò si sforza di scherzare, facendo autoironia anche con l’amarissimo «Avvocato in sito...»; ma Trilussa in quegli anni non sa più sorridere e scrive versi angosciosi come quelli di "Mania de persecuzzione":
La notte quanno guardo l’Ombra mia
che s’allunga, se scorta e me vi è appresso,
me pare, più che l’ombra de me stesso,
quella de quarcheduno che me spia.
Se me fermo a parlà con un amico
l’Ombra s’agguatta ar muro, sospettosa,
come volesse indovinà una cosa
che in quer momento penso, ma nun dico.
Voi me direte: “È poco ma sicuro
che nun te fidi più manco de lei...”.
No, fino a questo nun ciarriverei...
Però, s’ho da pensà, penso a l’oscuro.
Che Trilussa fosse un fermo oppositore del regime (non prese mai la tessera del partito e gli fu negata la nomina ad Accademico d’Italia) ben lo capirono i fascisti di stretta osservanza, mentre non lo capirono - o finsero di non capirlo - certi letterati miopi o invidiosi o con la coda di paglia. Per conferma, nell’Archivio di Stato di Milano si può andare a leggere una relazione del 24 giugno 1943 scritta da Giorgio Almirante capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura popolare della Repubblica di Salò. In essa Almirante lamenta che alla Mondadori restano «gli stessi elementi giudaici» di un tempo e che si continuano a ristampare «tutte le opere di Trilussa, di Bontempelli ed altri scrittori che hanno tradito». Non sono molti gli scrittori italiani dell’epoca che possano vantare simili attenzioni da parte dei “repubblichini”.
Lucio Felici, Trilussa e il razzismo in Academia.edu: [ n.d.r: Lucio Felici ha accompagnato il suo scritto con questa significativa spiegazione: pubblicato come introduzione (pagine non numerate) al vol. "Ajò 1991-1982 - Aldo Ajò Ceramiche", a cura di Giancarlo Bojani e Ettore A. Sannipoli, con un testo di Lucio Felici, Fano, Omnia Comunicazione Editore, 2008. Volume lussuoso in carta patinata, dedicato da Ines Spogli alla memoria e all’opera del marito Aldo Ajò, celebre ceramista eugubino (1901-1982) perseguitato dalle leggi razziali. Non c’è parentela con l’avvocato Ugo Ajò di Trilussa, ma, per l’omonimia e per le comuni disgrazie dei due personaggi, piacque aprire il libro con la poesia trilussiana, e me ne fu chiesta una presentazione ]
 
Gli ebrei italiani accolsero i provvedimenti che li costringevano all’emarginazione con atteggiamenti diversi: la reazione più forte ed estrema furono i suicidi, <307 quello più noto e sensazionale fu quello dell’editore Angelo Fortunato Formiggini, l’ideatore dei Classici del ridere, che il 29 novembre 1938 si lanciò dalla torre della Ghirlandina, la torre campanaria della sua città natale Modena, al grido «Italia! Italia! Italia!», nella speranza che il suo sacrificio potesse divenire un monito. <308
[NOTE]
307 Michele Sarfatti ne ha individuati circa una trentina, in Id., Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 210.
308 Sulla figura di questo eclettico e acuto editore si vedano Angelo Fortunato Formiggini, Parole in libertà, Roma, edizioni Roma 1945; Luigi Balsamo, Renzo Cremante, a cura di, A. F. Formiggini un editore del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1981; Piero Treves, Formiggini e il problema dell’ebreo in Italia, in Scritti novecenteschi a cura di Alberto Cavaglion e Sandro Gerbi, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Bologna, Il Mulino 2006, pp. 105-117 e il profilo a lui dedicato da G. Turi in Il fascismo e il consenso degli intellettuali, il Mulino, Bologna, 1980.
Giulia Dodi, La spoliazione dei beni ebraici e l'attività dell'Egeli a Bologna e Ferrara, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2021