martedì 11 gennaio 2022

Poesia incarnata, fatta vita, forza vitale


Sono questi gli anni in cui Sibilla Aleramo pubblica "Una donna" (1906), libro con il quale tenta di dare una consistenza precisa ai fantasmi e alle ossessioni che l'avevano accompagnata sino allora <117, in cui stringe rapporti con importanti intellettuali ed artisti del tempo e fonda le scuole festive dedicate ai contadini dell'Agro romano insieme a Cena, Alessandro Marcucci e ai coniugi Angelo e Anna Celli.
Le attività educativo-filantropiche cui Aleramo si dedica, come le già citate scuole dell'Agro romano o la volontaria in un ambulatorio per bambini poveri, le consentono di osservare ed entrare in contatto con la realtà che la circonda. Così scriverà alcuni anni dopo, ricordando le spedizioni che dal 1904 vi compiva quotidianamente con Cena e con i Celli: "[...] a due passi da Roma. Capanne di paglia come cumuli di strame. Vivono in capanne, senza pavimento, sembrano anche loro di fango, guardano attoniti, bimbi e vecchi, al confronto quelli dell'ambulatorio sono dei principi, le capanne stanno fuori d'ogni strada, ci si va per un sentiero, quasi due ore a piedi, è una specie di villaggio, tre, quattrocento persone.[...] come possono vivere lì, come? Cena mi guardava tremando. Piangevo. Da quel pianto nacquero le scuole dell'Agro Romano. E il lungo, lungo apostolato, quasi frenetico, mio e di Cena, fiancheggiati dai due Celli. Le lunghe lunghe esplorazioni per la Campagna, giornate intere a piedi, inverno, estate, polvere rossa tufacea, fango nero, e qualche alberello di rose talora sperduto nel deserto, e rovi a macchia [...] Ad un tratto, dietro un rialzo di terreno, un gruppo di capanne si profilava: dieci, venti, cinquanta. Bimbi e donne si sporgevano dalla basse aperture, attoniti, con occhi cisposi, ci tastavano le vesti. Nessuno giungeva mai sin là". <118
Sempre insieme a Cena si reca in Calabria e Sicilia all'indomani del terremoto del dicembre 1908, al fine di promuovere l'istruzione nel Mezzogiorno e di portare aiuto e sostentamento ai bisognosi. A tal proposito risultano interessanti le riflessioni scritte molti anni dopo, in ricordo dell'esperienza, il 24 febbraio del 1943: "[...] V'ha dunque nella compagine terrestre un elemento d'ingiustizia, di disordine, di stridore, che ripugna quei concetti di armonia e di grazia coltivati dall'umanità non sappiamo da quali remoti tempi? Un elemento invincibile? Terremoto. Pazzia. Come impedirli? La mia giovanile ingenua fede in una fondamentale bontà della vita, crollata dinnanzi alle rovine di due province sotto il riso indifferente della natura, mare e cielo radiosi, venne lentamente sostituita da qualcosa che ancor oggi resiste in me, malgrado reiterati accessi di disperazione... Non so definirla. Istintiva, e di là dalla ragione. Non consolatrice, ma sostenitrice. Poi che la vita è tanto esposta alla tragedia, non rimane, all'umanità che ne sia conscia, altro se non soccorrer se medesima con tutta la bontà che alla vita fa difetto. [...] Un mondo dove l'umanità riuscisse a far scomparire ogni brutalità, dove non fossero più inganni né guerre, chisà se non sarebbe liberato anche da ogni specie di malattia e deformità, chisà perfino se non vedrebbe placati per sempre i moti tellurici, oh non per premio, ma per un segreto accordo del nostro sangue con le zolle e le pietre e le acque e le stelle..." <119
Nonostante gli innumerevoli impegni, Sibilla vive un periodo complesso dal punto di vista sentimentale, tanto da trascorrere quasi un intero anno in continui vagabondaggi presso parenti e amici, prendendo quindi le distanze da Cena, che lascerà nel 1910 per iniziare, nell'arco di pochi mesi, una relazione di breve durata con Vincenzo Cardarelli, il quale in una lettera la definisce una scrittrice singolare, ma sopra tutto "una di quelle donne che compaiono raramente nella vita" <120.
Finita la convivenza con Cena e terminato il rapporto con Cardarelli, comincia un pellegrinaggio solitario e quel che, vista da una vecchiaia serena, come la definisce la stessa scrittrice, apparirà come un insieme di tentativi amorosi con brevi istanti di gioia e lunghi periodi di dolore. La storia di questi molteplici amori si può considerare, in realtà, la storia di un unico amore ed il materiale che la costituisce sono le lettere, in parte raccolte e in parte trascritte nei diari. <121 Da questa documentazione si evince come Aleramo sia al contempo madre e amante, sempre pronta a dimenticare la propria sofferenza per quella dell'altro, a voler guarire un'umanità smarrita e triste, a far crescere un mondo che le appare ancorato a un'esistenza da caverna <122.
Ma in questo medesimo lasso di tempo entra in contatto con i principali movimenti culturali del Novecento italiano e collabora con Il Marzocco, La Ronda, La Donna, Il Resto del Carlino e con il gruppo de La Voce. Frequenta e corrisponde con le più importanti figure del tempo come Gabriele D'Annunzio, Umberto Boccioni, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Vincenzo Cardarelli, Scipio Slataper, Emilio Cecchi, Benedetto Croce e Salvatore Quasimodo e nell'estate del 1912 va in Corsica dove inizia la stesura de "Il passaggio" (edito nel 1919).
Nel 1915 si ammala e trascorrere un periodo di convalescenza a San Remo, ospite del padre che si era da tempo trasferito in Riviera. Durante questo periodo nasce un brevissimo rapporto sentimentale con Giovanni Boine la cui storia d'amore verrà raccontata quindici anni dopo ne "Il frustino" (1932).
L'anno successivo incontra e inizia una lacerante relazione con Dino Campana, che terminerà nel 1918 quando quest'ultimo verrà internato in manicomio: "Povero Dino, come lo rivedo sempre qual era, in quei giorni del nostro primo incontro, immagine della felicità ebbra, e la follia ch'era in lui non si manifestò che un mese o due dipoi, e per un anno la tragedia avviluppò ambedue, in diverso aspetto e grado". <123
E ancora: "perché non ho mai scritto quest'altra, più tragica storia? Ritroverei, se la scrivessi finalmente, le lagrime di quel tempo? Con le lagrime ci si libera. Forse per questo, per non recidere da me la vitalità del ricordo, non ho mai raccontato quei miei mesi favolosi col poeta folle". <124
Tra il 1920 e il 1922 si trova a Napoli dove frequenta Matilde Serao e pubblica con Bemporad una raccolta di poesie, "Momenti" e un volume di prose, "Andando e stando" (ora ristampato), con appunti di viaggio, recensioni, saggi e brevi ritratti di intellettuali e artisti.
Nel 1926 tornata a Roma firma il manifesto degli intellettuali antifascisti senza però prendere una decisa posizione politica e pubblica il romanzo epistolare "Amo dunque sono".
Dopo un breve periodo trascorso a Parigi, in seguito alla morte del padre, torna in Italia e cerca invano di incontrare D'Annunzio.
Nel dicembre del 1928, pressata dalle ristrettezze economiche, scrive a Benito Mussolini chiedendo un'udienza e un sussidio: questi incontrandola il 18 gennaio 1929 le concederà una somma di denaro ma non il vitalizio da lei desiderato. In merito a quest'incontro privato, alla guerra, alla politica e alla personalità di Mussolini, Aleramo rifletterà nel suo diario nell'ottobre del 1942: "Dava la sensazione d'una individualità eccezionalmente forte, ma della forza più d'un toro che di un leone. Abilissimo, modulava la voce con sapiente dolcezza, e questo disarmava subito chi si presentava a lui conoscendone solo gli atteggiamenti di dittatore durissimo. Non emanava luce, e forse neppure calore.
Un'umanità molto terrestre, un'intelligenza realistica, tutta contingente, alimentata e sorretta quotidianamente dal favore della sorte. La coscienza di tal favore era, forse, il sottinteso maggiore in lui, e costante; e la maggior
ragione del suo innegabile fascino. Ch'io subii, quel giorno, senza s'intende rendermene ben conto, e che parimenti ha dovuto agire su innumerevoli persone e sulle masse, per tanti anni, sinché non s'è prodotta questa sciaguratissima guerra. Allora nel gennaio 1929, egli era all'apice della sua potenza. Non era ancor sorto l'astro antagonista, su nelle brume germaniche, destinato a rapirgli il primato della popolarità mondiale. Il suo sogno imperiale, se pur veramente egli lo carezzava, non aveva ancora preso forme cruente, si manteneva in un limbo vago, inoffensivo. O per lo meno, tale lo si riteneva e forse è stato l'errore, è stata la colpa generale, in quel tempo, credere ch'egli, Mussolini, si appagasse di dirigere e dominare l'Italia relativamente pacificata, bonificata, addomesticata; un'Italia ove il popolo potesse vivere sanamente, e i poeti cantare liberamente... I poeti. Egli mi disse, quel giorno, che li amava, che li aveva sempre amati sin dalla prima gioventù. Mi disse, per quel riguardava me, d'aver letto i miei libri e averli ammirati. [...] Mi trattenne tre quarti d'ora [...] con una cordialità che mi parve schietta, con una semplicità sorridente che, lo confesso, mi lusingò". <125
Tra 1929 e 1930 pubblica la raccolta di liriche "Poesie", per cui ottiene un premio dall'Accademia d'Italia e firma un contratto decennale di esclusiva con Mondadori con il quale si impegnava a consegnare tutta la sua produzione scritta. Nello stesso anno esce "Gioie d'occasione", una serie di note di costume, impressioni, ritratti ed episodi autobiografici, libro con cui partecipa al premio Viareggio con poca fortuna; inoltre collabora con Novelle novecentesche, Il Piccolo e Il Popolo di Roma.
Nel 1934 rivede, dopo più di trent'anni, il figlio Walter: "tristezza irreparabile del nostro rapporto, dappoi che ci siamo rivisti dopo i trent'anni d'intervallo e invano abbiamo provato a sentire come una realtà il fatto ch'io sono sua madre e che lui è mio figlio. (Un solo momento abbiamo avuto: la prima sera del ritrovamento; un singhiozzo profondo nel petto d'entrambi, abbracciandoci [. . . ] un sorriso in cui ci rispecchiammo a vicenda. [. . . ] Un solo momento. Poi, tutto della vita, ci ha fatti immediatamente apparire su due piani differenti)". <126
L'anno successivo, pubblica la raccolta di poesie "Sì alla terra" e intreccia una relazione sentimentale con Salvatore Quasimodo, che "chiamavo Virgilio, e dal quale due mesi di poi, a fine ottobre, fui lasciata brutalmente, dopo soli otto mesi d'amore straziato" <127.
Nell'ottobre del 1935 entra nella sua vita il giovane Franco Matacotta con il quale inizia una lunga e spesso travagliata relazione ampiamente documentata nei "Diari" che comincia a tenere proprio perché spinta da Matacotta: "da anni e anni m'è vicino, questo ragazzo, e talvolta mi sembra che sia sempre quello del primo giorno, che venne a bussare alla porta della mia soffitta, timido e ardito; e altre volte penso a quanto è mutato da allora, e non soltanto nell'aspetto" <128.
Nel frattempo sempre presso Mondadori esce "Orsa minore. Note di taccuino", una raccolta di scritti, bozzetti, impressioni.
[NOTE]
117 GUERRICCHIO, 1974, p. 79.
118 ALERAMO, 1979, pp. 337-338.
119 Ivi., pp. 242-243.
120 CARDARELLI, 1970, pp. 45-46.
121 MELANDRI, 1986, p. 44.
122 Ivi., p. 45.
123 ALERAMO, 1978, p.361.
124 Ivi., p. 264.
125 ALERAMO, 1979, pp. 213  214.
126 Ivi., p. 57.
127 Ivi., p. 169.
128 Ivi., p. 7.
Sabrina Bollettin, Raccontare il mondo partendo da sé. Scritture diaristiche a confronto: Sibilla Aleramo, Etty Hillesum, Elena Carandini Albertini, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015

Nella nota di diario del 21 settembre 1943, Sibilla Aleramo così definisce le proprie carte «inedite e edite, lettere, giornali» <1, continuamente rivisitate, ordinate, commentate, dalle pagine della prima fanciullezza fino a quelle degli anni ultimi, «migliaia e migliaia di foglietti», una «somma enorme di vita». «Ho sentito - commenta il 18 marzo 1945 - che, dopo la mia morte quest’eredità di parole assumerà un valore profondo, se troverà chi avrà devozione e forza sufficiente a ordinarla e pubblicarla» <2.
[...] Modulati sulla tipologia di una scrittura del privato, ma sostenuti dalla pretesa tutta letteraria di comporre il libro - in grado di fissare il ricordo di una vita («ho fatto della mia vita il capolavoro che avevo sognato di creare con la poesia», 2 aprile 1941, p. 68) - i "Diari" interessano le carte in quanto esse ne sono motivo e insieme materia. Scritti a fronte della crisi della parola poetica, «misteriosa inazione» degli ultimi anni contrapposta, nella nota di apertura, alla nascita, con "Una donna", alla scrittura («Oggi sono trentaquattro anni che il mio primo libro venne pubblicato», recita l’incipit di "Un amore insolito", 3 novembre 1940, p. 3), i "Diari" ricompongono, tra scrittura e riscrittura, l’esperienza del presente a quella del passato. Conservando annotati, accanto agli squarci memoriali evocati dalla rilettura delle carte, gli interventi dell’autrice sulle stesse (ordinamento, selezione, contestualizzazione) che, nel presente, ne consentono la riproposta editoriale e, proiettati nel futuro, ne predispongono conservazione e valorizzazione, i "Diari" raccontano dunque la storia delle carte: quella esterna, che documenta le vicende editoriali e la fortuna critica dell’edito nel quadro di una fitta rete di relazioni intellettuali; e quella interna: genesi, poetica, attese e prospettive ricondotte, in un quadro complesso di esperienze e relazioni, al farsi della coscienza inquieta e alla identità di una donna: «Un libro - scriveva Aleramo già nel suo primo romanzo - che mostrasse al mondo intero l’anima femminile moderna» <3.
Nei vent’anni in cui le carte sono materia e fonte per la nuova scrittura, il pensiero del loro destino - rinnovato a ogni riordino («Sfogliati altri pacchi [...]. Ma chi avrà la forza di sfogliare questa massa spaventosa di carte?», <22 marzo 1954, p. 341) - intreccia alla designazione dell’erede e degli esecutori testamentari, l’attesa di una “vera” lettura: «Saran più avveduti dopo la mia morte - si chiede l’8 gennaio 1955 - come ancora a tratti mi illudo malgrado tutto, malgrado tutto?». Lo conferma nella Nota biografica di questa Guida la descrizione dei testamenti, ora inventariati tra le Carte personali, mentre il valore simbolico di questo intreccio traspare dalla lettura delle note diaristiche: in esse, come del resto in "Una donna", o nelle lettere (tra gli epistolari editi, denso di suggestioni in questo senso è quello che raccoglie le "Lettere tra Campana e Aleramo"), la scrittura dà forma all’immaginario d’amore, è «trascrizione del pensiero parlato di una donna - scrive Lea Melandri - “flusso” [...] di tutte le parole (pensieri) che essa ha dovuto trattenere per paura di non essere “intesa”, che scrive per sé e perché altri, leggendole, possa farsi di lei un’immagine intera» <4. In questo immaginario, il desiderio di essere intesa si affida all’oggetto d’amore, destinatario primo della scrittura e insieme tramite, garante, nella continuità della lettura, di una vitalità, duratura nel tempo, della propria immagine e dei propri pensieri: figura d’amore fino a Franco Matacotta, «ultimo enorme errore» (28 dicembre 1959, p. 476), il giovane poeta che, con un pressante richiamo al «lavoro» (la parola poetica), presiede all’avvio della scrittura diaristica, destinatario, lettore e critico della stessa («“Enorme delusione” ha detto Franco dopo aver risfogliato intero questo Diario», annota Aleramo l’8 agosto 1944, p. 413), coautore nelle scelte per le prime edizioni dei diari («Mercurio», III, 1944; Tuminelli, 1945). Un sodalizio intellettuale e sentimentale al cui interno, pur nella crisi della relazione privata, Aleramo dispone l’attesa di una continuità oltre la morte.
Il 19 marzo 1945, finiti gli anni de «le nostre carte» (5 ottobre 1943, p. 84), ritrovata, nel silenzio della soffitta la solitudine «e quella mestissima cosa ch’è la libertà» (21 gennaio 1945, p. 27), Aleramo scrive ancora, per l’ultima volta, rivolta a Franco: «io lo prego qui, stasera, che s’egli non dovesse sentirsi in grado di compiere la missione che gli ho affidata, [...] lo prego di far sì che non si disperda assieme alle mie ceneri la sostanza spirituale adunata in tutte quelle pagine» (p. 33).
«Chiedo l’iscrizione al partito» recita l’incipit della lettera, scritta il 3 e trascritta il 10 gennaio 1946, con cui Aleramo aderisce al Partito comunista, «estrema affermazione di fede» (p. 75), «presente verità» (22 marzo 1954, p. 341). Mutano, con questo, le parti di un immaginario che, sia pur declinato in tono minore («d’amore e di gioia il mondo è privo come non mai», 8 aprile 1945, p. 37), tuttavia preserva la valenza del sogno originario: «Dopo essermi tutta la vita illusa nella creazione d’amore per singoli individui - annota il 17 febbraio 1948, p. 183 - ecco, la mia fede comunista è la sola cosa concreta, e le strette di mano dei compagni operai, il supremo conforto».
[...] L’ascrizione di un’opera a un genere letterario è sempre operazione complessa, più problematica se l’approccio al testo include l’identità sessuata del soggetto di scrittura.
Nel caso di Aleramo, tutta la sua produzione - e segnatamente la narrativa - ha un carattere fortemente “autobiografico” che, dopo "Una donna" e "Il passaggio", si accentua per l’esplicito utilizzo di scritture private (le lettere, in particolare, come ne "Il frustino" e in "Amo dunque sono") nella costruzione dell’intreccio e della struttura romanzesca.
Una scrittura, dunque, tutta autobiografica che, negli ultimi vent’anni, a fronte della crisi della parola poetica, si frantuma nell’annotazione diaristica? Direi di no: piuttosto una lunga esperienza di scrittura, esercizio letterario - ragionato nella produzione saggistica, nei testi di conferenze e interventi o nelle note affidate a fogli sparsi - che, ancorato all’esperienza di vita, documentandola la trasfigura.
«Poesia incarnata, fatta vita, forza vitale», scrive di sé Aleramo, rivolta a Franco, il 5 dicembre 1940: «Tutto ciò ch’io non ho se non in minima parte scritto, forse appunto perché sono andata via via creando me stessa liricamente» (p. 19). Tutto ciò che, nella reiterazione dell’illusione d’amore, non è stato visto e che, nella lettura delle carte, non è mai stato colto.
A fronte della crisi dell’ultima esperienza d’amore e insieme della parola poetica, Aleramo avvia la scrittura diaristica che riconnette, nell’intreccio di tipologie differenti, il passato al presente, il pubblico al privato, le parole al pensiero, il pensiero all’esperienza: una scrittura di sé e per sé, che predisposta per la lettura (di Franco, destinatario d’elezione, nei primi anni, di quello che in parte è un discorso d’amore; dei lettori dell’«avvenire», dopo il 1945, predominanti nel suo immaginario), ricompone l’interezza, complessa e contraddittoria della propria immagine, una figura per sempre.
Un’autobiografia, dunque? Aleramo se lo chiede il 7 luglio 1941, nella fase iniziale della nuova scrittura, rilette le parti a quella data scritte sotto «la suggestione» di due lettere (di Matacotta e di Mucchi) che «entrambe parlano di “autobiografia”». «Ma Franco - scrive - che conosce questo mio attuale diario, che cosa pensa veramente? Ch’io lo continui, e da esso “risalga al passato”, o lo tronchi e inizi da domani una narrazione nuova, [...] con un tono più unito, più fermo? E tutte queste pagine allora?» (p. 80).
A quest’altezza cronologica, dunque, Aleramo ha ben chiaro che le note del suo diario (frammentarie, discontinue) non sono, né intendono essere “autobiografia”; sono, scrive di seguito, «documento di questi mesi, un documento di più da aggiungere ai tanti che riempiono l’armadio e che Franco sarà molto imbarazzato un giorno a pubblicare».
Nella nota già citata del 1954 - quando Matacotta non è più, nel suo immaginario, lettore d’elezione o destinatario delle sue carte - Aleramo, mentre lamenta l’assenza di un «devoto» biografo, commenta: «E intanto i documenti invecchiano ogni giorno di più, io stessa rimango dinanzi a molti di essi come dinanzi a insolubili indovinelli ». Distanziati dall’esperienza, essi perdono senso. Lei stessa dunque provvede a «vagliare», a «interpretare» «per dopo», le proprie carte: ne racconta la storia, le dispone nel «flusso» di parole e pensieri non detti, e ora trascritti, ne suggerisce l’uso, e la lettura.
Considerate in questa chiave, le note diaristiche si configurano allora come memoria di un Archivio totale (carte conservate, perdute, scartate, vendute, donate) con Biblioteca d’autore (libri acquistati, letti, annotati, perduti, venduti, donati), ordinato, in parte riletto, dallo stesso soggetto produttore. E insieme rilettura dell’opera intera (edita e inedita) comprensiva della storia dei testi (edizioni, riedizioni, varianti), della loro fortuna, del vaglio interpretativo dello stesso soggetto di scrittura. L’unae l’altra frammentate dalla discontinuità dell’evocazione memoriale e del tessuto narrativo in cui si dispongono come parte e insieme fonte [...]
[NOTE]
1 Sibilla Aleramo, Un amore insolito. Diario 1940-44, scelta e cura di Alba Morino, Milano, Feltrinelli 1979, p. 283. Tutte le citazioni sono nel testo con l’indicazione di data e pagina.
2 Ead., Diario di una donna. Inediti 1945-1960, scelta e cura di Alba Morino, Milano, Feltrinelli 1978, p. 33. Tutte le citazioni sono nel testo con l’indicazione di data e pagina.
3 Ead., Una donna (1907), Milano, Feltrinelli 1994, pp. 123-24.
4 Lea Melandri, Lettura, in Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., p. 460.
Marina Zancan, «Un cumulo polveroso che vorrebbe sfidare l’avvenire» in L'Archivio Sibilla Aleramo, Guida alla consultazione (a cura di) Marina Zancan e Cristiana Pipitone, Fondazione Istituto Gramsci onlus, Roma, 2006